La diffusione del covid-19 “coronavirus” anche in Italia, uno dei focolai principali fuori dalla Cina, ha generato un’ondata di paura moltiplicata dai media e una risposta “produttivista”, tutto a danno di lavoratrici e lavoratori.
Il virus COVID-19, noto come Coronavirus, è diventato nelle ultime settimane argomento principale del quotidiano in ogni circostanza, tanto da essere collegato al fenomeno dell’“infodemia”, ovvero della diffusione incontrollata di informazioni, spesso senza fondamento, volte ad orientare l’opinione pubblica in maniera decisiva o a far rimbalzare appositamente un gran numero di informazioni contraddittore per creare caos.
Quella che intorno all’ultima settimana di gennaio era un’epidemia circoscritta al territorio cinese, in particolare all’area di Wuhan ed alla provincia dell’Hubei, con i primi casi di contagio in paesi dell’area del Sud-Est asiatico, più Giappone e Corea, registrati intorno al 25 gennaio, è diventata un caso internazionale in pochi giorni, con la rilevazione dei primi infetti negli Stati Uniti, in Canada, in Francia, in Germania, in Finlandia ed infine in Italia.
Nei primi giorni di febbraio il virus si è poi diffuso in Europa occidentale, in Russia, India, poi verso la metà del mese in Egitto ed in Iran.
In Europa la situazione è rimasta sotto controllo fino a circa il 20 di febbraio, con la maggior parte dei casi registrati, alcune decine, riguardanti cittadini cinesi o nazionali rientrati dalla Cina per motivi di lavoro o affari.
Questi sono stati posti immediatamente in quarantena; ciò è accaduto anche alla coppia di turisti cinesi ricoverati presso la struttura dello Spallanzani di Roma a fine gennaio, ora entrambi guariti.
L’isteria collettiva in Italia in merito al fenomeno inizia proprio con il ricovero di questa coppia, con l’insistente dose quotidiana di allarmismo e nemmeno tanto velato razzismo propagata dai media pubblici, a partire dalla rete televisiva di Stato, che “informava” gli ascoltatori sul “virus cinese”, per poi passare ai quotidiani beceri ed alle figure politiche ed istituzionali che chiedevano e chiedono di “serrare i confini”, “disertare le attività dei cinesi”, chiudere i voli e internare i sospetti contagiati sulla base della provenienza geografica, legittimando vari episodi di insulti e aggressioni nei confronti di cittadini cinesi residenti in Italia o anche cittadini italiani di origine cinese.
In questo stesso periodo, il 30 di gennaio, il premier Conte ordina di fermare il traffico aereo da e per la Cina, con il pretesto di garantire la salute pubblica.
L’Italia è il primo paese europeo a porre questa restrizione, nonostante i casi di contagio maggiori fossero in Germania e Francia, ancora intorno a poco più di una decina.
Allo stesso tempo tutta una categoria di viaggi “di lusso” tramite aerei privati o destinati a manager e figure aziendali del commercio internazionale è totalmente privo di controlli, al contrario degli ultimi aerei arrivati dalla Cina.
Inoltre, avendo impedito l’arrivo diretto di passeggeri dalla Cina in Italia tramite nuovi voli, coloro che, per necessità di affari, avevano la necessità e soprattutto la possibilità di fare scalo e acquistare poi un biglietto per l’Italia, sono stati liberi di farlo.
Nel frattempo, ad inizio febbraio, 56 italiani residenti a Wuhan sono rimpatriati tramite volo dell’aeronautica militare italiana e trasferiti in quarantena presso la cittadella militare della Cecchignola.
Uno di questi viene dichiarato infetto pochi giorni dopo e il 22 febbraio se ne conferma la guarigione.
A distanza di poche settimane si conferma un focolaio di infezioni iniziato a partire da alcuni casi in Lombardia, il cui paziente zero resta tuttora sconosciuto.
L’area è quella di Codogno, in provincia di Lodi, dove un 38enne risulta positivo al test con la moglie ed un amico.
Nei giorni seguenti risultano altri casi ed i controlli vengono approfonditi e capillarizzati intorno alla cerchia di conoscenti dei positivi al test, nei luoghi di lavoro e frequentazione.
In Veneto si registrano primi casi di contagio il 21 febbraio nel paese di Vo’ Euganeo, nel padovano, e un 78enne è dichiarato morto per ulteriori complicazioni successive alla contrazione del virus.
L’aumento dei casi cresce e parallelamente i media diventano più ossessivi nella ricerca spasmodica dell’untore, con servizi patetici dove cittadini vengono intervistati e “messi in guardia” in merito a un’epidemia che, per il momento, è solo della disinformazione.
Nonostante il virus sia reale come i primi casi di decesso che seguono, nondimeno imputati a pazienti in tarda età con condizioni pregresse debilitanti, esso ha un tasso di morti inferiore al 2%, con possibilità alte di guarigione, confermate attualmente da decine di casi.
In questo clima però il coronavirus è presentato come la peste del XXI secolo, mentre le autorità procedono a misure straordinarie: in Veneto Zaia, in coordinazione con il Ministero della Salute, procede ad emettere un’ordinanza in base a cui sono sospese tutte le manifestazioni pubbliche e gli eventi, di ogni genere; viene interrotto il servizio scolastico di ogni ordine e grado ed ogni altra attività di formazione educativa o professionale.
Vengono sospese in più tutte le tipologie di concorsi e l’apertura al pubblico dei siti di cultura, limitato l’accesso ai locali sino alle 18 e imposta la chiusura nel fine settimana dei centri commerciali.
In Lombardia, il presidente Fontana promuove un’ordinanza dai contenuti pressoché identici e si parla di una quarantena tale da chiudere Milano come Wuhan, ipotesi immediatamente scartata da Sala.
In dieci comuni del lodigiano e a Vo’ Euganeo vengono istituite zone rosse per il contenimento, in cui gli abitanti sono confinati con il personale medico e il cui attraversamento è impedito da presidi militari e della polizia.
Le misure non sono universalmente accettate in modo passivo e immediatamente si formano attriti anche tra le forze politiche al potere nei vertici regionali e locali, con particolare riguardo all’economia, soprattutto milanese, che risente da subito dei blocchi alla circolazione e del congedo dei lavoratori nelle zone rosse e gialle.
La situazione straordinaria rivela tutte le contraddizioni della quotidianità grazie alla luce dei riflettori: ospedali sovraffollati oltremisura, personale in difetto e costretto a turni massacranti, mancanza di attrezzatura medica adeguata e mancanza di fondi dovuti ai tagli sulla sanità pubblica.
I settori più precari dell’economia metropolitana si vedono attribuiti i costi delle politiche di austerità, a cui si aggiunge il peso dello stato d’eccezione e delle sue misure preventive.
Un caso da manuale: le piattaforme hanno già dimezzato le ore e la paga ai rider, giustificando ciò con il calo delle richieste di consegna, malgrado questi non abbiano mai ricevuto alcuno strumento di protezione o sicurezza previsto dalla legge e dalle necessità del momento.
Gli educatori delle regioni coinvolte dalle ordinanze vivono nell’incertezza del pagamento rispetto alla sospensione dell’attività didattica – che in queste ore viene prolungata alla seconda settimana – grazie ad un contratto collettivo nazionale senza tutele, e con il dubbio anche sulla cassa integrazione.
Nel pieno della settimana dal 24 al 29 febbraio il Comune di Milano lancia una campagna social con l’hashtag #milanononsiferma , volto pubblico di un’istituzione che spinge al limite le possibilità della classe lavoratrice urbana ogni giorno – fatto rivendicato dalla stessa campagna e dalla retorica produttivista dei suoi manager – e che rispetto all’emergenza non può che proporre rincari, limitazioni all’accessibilità, tagli, incertezza.
Mentre l’emergenza sanitaria si diffonde in tutto il nord, iniziando a coinvolgere il centro-sud, si assiste ad un tentativo mediatico di ribaltare la narrazione apocalittica dei primi giorni in favore dell’esempio dato dal Comune di Milano: l’emergenza esiste e dobbiamo farcene carico, ma allo stesso tempo è indispensabile continuare a consumare, lavorare, produrre, in modo che il complesso e irrazionale motivo del mercato continui a funzionare.
Alessandro Riva
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