La Frazione Internazionalista Rivoluzionaria ha tenuto la sua seconda Conferenza statale il 7 e l’8 gennaio, discutendo gli sviluppi più recenti in Italia e a livello internazionale per rilanciare una politica rivoluzionaria e internazionalista nel nostro paese. Proponiamo di seguito il documento sulla situazione internazionale approvato dalla Conferenza.

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La guerra in Ucraina, il principale evento della politica internazionale del 2022, ha esacerbato le tensioni geopolitiche tra i principali poli del sistema mondiale, aprendo allo stesso tempo la prospettiva di una recessione economica su scala internazionale. Tutti elementi che stanno accelerando le tensioni e la crisi dei regimi, il che fa presagire un salto nella lotta di classe, anche se per il momento questo è un elemento parziale della situazione internazionale, ‘in ritardo’, soprattutto se pensiamo agli effetti che le molteplici crisi hanno già avuto in Italia, e le risposte che si sono avute finora.


Guerra in Ucraina, tensione geopolitica e rivalità crescente tra gli attori politici internazionali, molteplici livelli di crisi

La guerra in Ucraina, dopo il fallimento nel chiudere la campagna in poche settimane o pochi mesi, segna ancora la scena mondiale e ha riaperto il dibattito pubblico sugli attacchi atomici come possibilità concreta del conflitto militare nella nostra epoca, dopo decenni in cui questa cosa era stata semplicemente inimmaginabile per via del ruolo di superpotenza degli USA, affiancata da diverse altre potenze come alleati, apparentemente imbattibili.

Nel quadro della crisi del precedente equilibrio capitalista, prima con la crisi del 2008 e poi con quella legata alla pandemia del coronavirus, ci sono forti spinte a rivedere gli equilibri internazionali e lo strapotere del cosiddetto “Occidente”. La visita di Nancy Pelosi a Taiwan lo scorso agosto e la risposta di Pechino hanno reso evidenti i rischi della disputa geopolitica tra Stati Uniti e Cina. Più a breve termine e con ripercussioni sull’intero pianeta, l’aumento dell’inflazione si conferma come una novità, non congiunturale, ma uno squilibrio e un cambiamento significativo nell’economia mondiale, aprendo la prospettiva immediata di una recessione dell’economia internazionale nel 2023, anche prima in diverse grandi economie, che si aggiunge e si alimenta con le forti tensioni geopolitiche, in particolare la guerra aperta in Ucraina.

In particolare, la crisi strutturale in cui sta entrando l’economia capitalista può accelerare il fattore ancora più arretrato della situazione, che è la lotta di classe.

Questa dinamica, fatta la debita tara, è già iniziata e si approfondirà nel continente più direttamente colpito dalla crisi, cioè l’Europa, dove persino paesi come la Germania, che fino a ieri e anche nelle crisi precedenti erano un polo di stabilità, stanno subendo gli effetti del caos sistemico.

La crisi dei legami energetici con la Russia sta infatti mettendo a dura prova l’industria tedesca, anche se la forza relativa dell’imperialismo con base a Berlino ha permesso lo stanziamento di somme che nessun altro paese europeo può mettere in campo per salvare le grandi aziende energetiche e sopperire agli aumenti delle bollette. Inoltre, lo scoppio della guerra in Ucraina ha consentito alla Germania un possente riarmo, su un scala mai vista prima dalla fine del secondo conflitto mondiale, che fa da perno del progetto di evoluzione da potenza economico-commerciale a potenza anche politico-militare con più possibilità egemoniche e di autonomia rispetto agli USA.

L’obiettivo strategico della Russia era quello di migliorare il suo status internazionale e compattare il fronte interno, vedendosi riconosciuto il controllo del Donbass indipendente e l’annessione della Crimea. Sul piano tattico, ciò si è concretizzato in un’invasione diversiva fino a Kiev volta a favorire un colpo di Stato e installare un governo fantoccio, prima di una rapida ritirata. Il blocco dominante ucraino ha invece mostrato compattezza e – anche grazie agli aiuti militari occidentali a Zelenskyy & co. – la Russia si è dovuta concentrata sul mantenimento del controllo militare delle regioni orientali. Dopo la contro-offensiva di questo autunno, che ha permesso all’esercito di Kiev di ridurre l’area occupata da Mosca, la Russia, sul piano tattico strettamente militare, non sta perdendo il conflitto: ha consolidato il suo controllo su una fascia orientale dell’Ucraina pre-2014, approfittando delle prese di posizione intransigenti del governo Zelenskyy contro le popolazioni ora sotto il controllo russo che hanno “accettato” l’occupazione, integrando queste province a vari livelli nelle proprie infrastrutture. In generale, le truppe russe stanno tenendo le loro posizioni o compiendo lente avanzate, come nel caso del famigerato fronte di Bakhmut. Le perdite ucraine sono in generale ben più elevate di quelle russe, anche perché le forze armate ucraine hanno adottato una strategia di attacchi continui, a ondate successive, lungo quanti più punti possibili del teatro di guerra, contro le quali le posizioni difensive consolidate, gli attacchi aerei, missilistici e d’artiglieria russi risultano efficaci. A tutto ciò si aggiunge il vantaggio ancora sostanziale dei russi nello scontro missilistico e aereo sulla media distanza: mentre l’Ucraina finora non è quasi riuscita a fare danni oltre le linee nemiche, la campagna di bombardamenti strategici tra fine autunno e inizio inverno ha neutralizzato con successo molte difese antiaeree e ha colpito obiettivi militari e infrastrutture vitali in molti punti del paese, riducendo significativamente la possibilità di tenuta complessiva della logistica ucraina (nel senso più largo del termine) nel medio-lungo periodo. La capacità di risposta militare dell’Ucraina, così come la sua sopravvivenza su un piano “umanitario”, dipende completamente dagli aiuti occidentali, che non sono costanti nella quantità e nella qualità come nei primi mesi del conflitto. Non è un caso che si siano aperti dibattiti molto meno rigidi sulle possibilità di negoziati e di un armistizio anche nel campo USA e NATO, nonostante sia interesse oggettivo delle potenze europee e degli USA ricacciare i russi e consolidare il proprio dominio economico, politico e militare sull’Ucraina.

Detto questo, sia gli USA – interessati a riaffermare la propria leadership sull’Occidente nello scontro con la Cina – che l’UE (o per lo meno i settori egemoni del grande capitale europeo interessati a un potenziamento del progetto imperialista UE sia sul piano politico-militare che ideologico) hanno tutto l’interesse alla prosecuzione del conflitto. Il perdurare di quest’ultimo potrebbe finire per rompere il patto implicito stabilito tra le masse e la leadership di Mosca.

Ad ogni modo, l’arrivo dell’inverno rende molto più difficili e improbabili scenari di avanzate rapide su larga scala da entrambe le parti, e rende meno urgente un’eventuale allargamento significativo della mobilitazione parziale decisa da Putin. Sebbene questa sua scelta di condurre una guerra reazionaria senza sconvolgere la vita della grande maggioranza della popolazione, finora perlopiù indifferente o quasi alla guerra, Putin continua a muoversi con cautela, cercando di non inimicarsi eccessivamente gruppi sociali più larghi che potrebbero organizzarsi. Una situazione di sostanziale pace sociale che potrebbe facilmente cambiare se Putin dovesse allargare. La fuga in avanti di Putin, insieme alla radicalizzazione dei settori più bellicosi, potrebbe finire per rompere il patto implicito stabilito tra le masse e il potere, dove le prime acconsentono all’autocrazia in cambio della stabilità dopo i catastrofici e traumatici anni Novanta.

Sebbene questa scelta di una mobilitazione comunque non generale risponde al desiderio di condurre una guerra reazionaria senza sconvolgere la vita della grande maggioranza della popolazione, finora in maggioranza indifferente alla guerra, Putin continua a muoversi con cautela, cercando di non inimicarsi gruppi sociali più larghi che potrebbero organizzarsi. Per ora, gran parte della popolazione sta cercando di mantenere l’indifferenza nella convinzione di non essere colpita, una reazione che potrebbe facilmente cambiare se Putin procederà con le prossime ondate di mobilitazione. La fuga in avanti di Putin, insieme alla radicalizzazione dei settori più bellicosi, potrebbe finire per rompere il patto implicito stabilito tra le masse e il potere, dove le prime acconsentono all’autocrazia in cambio della stabilità dopo i catastrofici e traumatici anni Novanta. Un risveglio delle masse russe contro i costi onerosi di questa guerra reazionaria potrebbe riaprire il ciclo di guerra e rivoluzione, al netto delle enormi differenze in termini di organizzazione e coscienza del proletariato russo tra oggi e cent’anni fa, per via delle quali l’analogia non va forzata eccessivamente.

Da parte sua, Pechino non apprezza l’avventura di Mosca perché non è disposta a scontrarsi apertamente con Washington, ma non può permettersi di perdere la Russia perché finirebbe circondata da potenze nemiche, guidate dagli Stati Uniti. Nel complesso, il Paese mantiene un fragile equilibrio in politica estera, diviso tra la necessità politica di opporsi all’ordine mondiale disegnato dagli Stati Uniti, che condivide con la Russia, e la forte dipendenza commerciale e tecnologica dall’Occidente, che spiega la sua cautela sulla scena internazionale. Allo stesso tempo, le difficoltà della Russia in guerra, che stanno accelerando il suo declino come potenza regionale, come dimostra la nuova avanzata dell’Azerbaigian sull’Armenia nel Caucaso, permettono alla Cina di stringere alleanze e assicurarsi le forniture energetiche in Asia centrale, come ha dimostrato il recente vertice dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai a Samarcanda.

Sia la Russia che la Cina, così come gli Stati Uniti, sono freneticamente impegnati sulla scena internazionale a reclutare alleati da schierare nel gioco sempre più duro della competizione interstatale, mentre altri Paesi, in particolare il Giappone, l’India, la Turchia e la Polonia, stanno approfittando della competizione per guadagnare influenza e prestigio: il Giappone sta rilanciando il suo ruolo come principale alleato degli USA nel teatro di scontro geopolitico principale (l’”Indo-Pacifico”, cioè le regioni a est e sud della Cina) e potenza imperialista con una forza militare aggressiva più rilevante; l’India prova a evolvere dal suo status di ‘gigante povero’ mantenendo scambi con Russia e Cina ma con legami politico-militari orientati verso l’Occidente; la Turchia insegue lo status di potenza regionale consolidata, con un profilo più largo e contraddittorio rispetto al suo ruolo di membro della NATO; la Polonia punta a emergere come membro rilevante dell’UE e come alleato est-europeo più forte (anche militarmente) degli USA in contrapposizione frontale con la Russia. Allo stesso tempo, nonostante l’intenzione degli Stati Uniti di ricreare una divisione tra Est e Ovest dell’epoca della Guerra Fredda, il suo raggio d’azione al di là del palcoscenico europeo è limitato, come dimostra la grande linea di faglia tra Nord e Sud del mondo, che la guerra in Ucraina ha apertamente messo in luce. Per la Cina e la Russia, si tratta di un’opportunità unica per penetrare nell’ex Terzo Mondo, dove l’operazione statunitense rafforza i riflessi antiamericani e, più in generale, contro le potenze occidentali nel loro complesso. L’accordo tra Arabia Saudita e Russia per l’aumento dei prezzi del petrolio ne è un’acuta dimostrazione e uno schiaffo a Biden. In senso inverso, il voto dell’ultima Assemblea generale delle Nazioni Unite, che ha condannato come illegali i referendum svolti dalla Russia in quattro regioni dell’Ucraina e ha invitato la comunità internazionale a non riconoscerli, è stato approvato da 143 Paesi, un passo avanti degli Stati Uniti, che è sostenuto dalla posizione di molti Paesi di rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale degli Stati.

La Cina ha goduto di un periodo decennale di rapida crescita economica e di ascesa come potenza regionale e globale. Ma, a causa della disarticolazione relativa della globalizzazione neoliberista e della politica statunitense più aggressiva all’esterno, quindi per via delle crescenti difficoltà a fare il salto da paese ‘emergente’ a paese imperialista senza arrivare allo scontro con Washington, nonché in relazione alle difficoltà legate alla politica “zero Covid” – che stanno generando sfiducia nella classe media, la principale base reazionaria di sostentamento del regime -, i margini storici della burocrazia restaurazionista di Pechino si stanno riducendo.

I fenomeni di crisi economica e politica che toccano l’UE e le sue singole potenze imperialiste, in particolare la crisi del “modello tedesco”, stanno colpendo duramente anche l’Italia. Berlino garantisce il debito dell’Italia, in larga misura, ma non solo per l’interesse dell’industria tedesca a salvaguardare l’interdipendenza con il suo apparato di esportazione. L’impatto della crisi economica legata al Covid ha messo, almeno temporaneamente, in discussione l’interesse della Germania per l’austerità in Europa, il cui ruolo nell’assorbire le merci tedesche può crescere, ridottisi i ritmi a cui ci aveva abituato l’incremento del pil Cinese; la Cina, insieme agli USA, aveva rappresentato il traino principale delle esportazioni tedesche negli ultimi 15 anni. Questo non significa però che l’imperialismo italiano riuscirà a invertire il suo declino relativo nei confronti di quello con base a Berlino, processo cristallizzatosi con i risvolti della crisi del 2008 e concretizzatosi in una crescente subordinazione dell’industria del Nord Italia a quella tedesca. Così, le difficoltà di quest’ultima genereranno probabilmente meno effetti positivi di quanti non siano quelli negativi sull’apparato produttivo italiano. La crisi tedesca apre un punto interrogativo su questa relazione economica, che potrebbe influenzare le linee di politica economica rivendicate da Giorgia Meloni. Ma, sorprendentemente, non è stata l’Italia, con il suo debito insostenibile e la sua instabilità politica, ad essere sotto i riflettori ultimamente su questo fronte, bensì il Regno Unito. Il passaggio da un programma fiscale espansivo a una dura austerità dopo il crollo dei mercati e il pericolo di una crisi finanziaria, nonché le dimissioni di Liz Truss da primo ministro in tempi record, dimostrano che i venti contrari geopolitici ed economici stanno già iniziando a fare sentire il loro peso. La debolezza, le contraddizioni e le divisioni dell’imperialismo britannico nel contesto della Brexit stanno venendo sempre più a galla, senza che si intraveda una via d’uscita.

I cicli recenti di lotta di classe e la polarizzazione

Come ha illustrato il PTS nel suo ultimo (XIX) congresso, dopo la crisi capitalistica del 2008 si sono verificate due ondate molto importanti di lotta di classe, che con diversa intensità si sono diffuse a livello internazionale. La prima, come risposta diretta agli effetti della Grande Recessione, ha avuto il suo punto più alto nella Primavera araba. Questa ondata ha trovato espressione in Europa con il movimento degli indignados in Spagna e le decine di scioperi generali in Grecia, capitalizzati soprattutto dalla sinistra neoriformista come Podemos e Syriza.

La seconda ondata è iniziata in Francia nel 2018 con la mobilitazione dei “gilet gialli” contro gli aumenti del carburante, trasformatasi in una grande ribellione contro il governo Macron. Questa ondata ha raggiunto l’America Latina con la rivolta in Ecuador (contro l’aumento del carburante ordinato dal FMI), le proteste e gli scioperi nazionali in Colombia e la rivolta in Cile nell’ottobre 2019, che avrebbe potuto aprire la strada alla rivoluzione, ma non ha superato il carattere di rivolta, e la deviazione è stata imposta prima dalla Costituente e poi dal governo Boric.

Questa ondata ha subito una pausa a causa della pandemia di coronavirus, ma dopo il momento iniziale di quarantena, la lotta di classe è tornata con forza, anche negli Stati Uniti, con lo scoppio del movimento Black Lives Matter, un processo di mobilitazioni in ripudio dell’omicidio di George Floyd, un afroamericano ucciso dalla polizia, a cui hanno partecipato più di 25 milioni di persone.

Nel contesto di crescente disuguaglianza e precarietà lasciato dalla pandemia, l’inflazione – e soprattutto l’aumento dei prezzi di cibo e carburante – agisce come fattore scatenante di situazioni di conflitto sociale e politico.

Questa dinamica, ancora in sviluppo, si è affermata quest’anno, insieme all’aumento del costo della vita e alla crisi economica. In Sri Lanka, dopo oltre 4 mesi di proteste, con un’energia e un sentimento simili a quelli della primavera araba, le masse hanno cacciato il presidente Gotabaya Rajapaksa, con migliaia di manifestanti che sono entrati nel palazzo presidenziale.

Il Fondo Monetario Internazionale ha avvertito che 41 economie a basso reddito hanno problemi di indebitamento. Paesi come l’Egitto, il Pakistan e la Tunisia sono alla ricerca urgente di nuova assistenza finanziaria da parte del FMI. Ma, vista la dura posizione dell’agenzia nei confronti dello Sri Lanka, altri Paesi semi-coloniali che soffrono per l’aumento dei prezzi dei generi alimentari e per la stretta monetaria degli Stati Uniti potrebbero essere trascinati in processi simili.

Nel frattempo, in Iran, l’omicidio di Jina (Mahsa) Amini, dopo il suo arresto da parte della “polizia morale” del regime a Teheran il 15 settembre 2022 con l’accusa di essere ‘malvestita’, ha scatenato un’ondata di proteste pubbliche che continua a diffondersi in tutto il Paese, con una partecipazione proletaria e delle masse impoverite, specie giovanili, che ha fatto un salto di qualità rispetto ai cicli di protesta del passato recente.

Oltre allo scoppio continuo di rivolte e duri conflitti sociali, la novità come forma di protesta è l’ingresso di settori sempre più importanti della classe operaia con i loro tradizionali metodi di lotta, scioperi e picchetti. Il caso dello sciopero delle raffinerie francesi ha creato un grave problema di carenza di carburante e ha influito sempre più sul normale funzionamento dell’intera economia, ponendo al centro della politica nazionale la questione degli aumenti e delle indicizzazioni salariali, oltre che degli straordinari profitti dei grandi gruppi, cosa che non accadeva da decenni. Questo processo è riuscito a contaminare altri settori, arrivando ad uno sciopero generale promosso da CGT e FO (e altri) che però non ha comportato un ulteriore salto di qualità del movimento nell’immediato.

Ciò che però di più “fa epoca” sono i processi di lotta di classe, di sindacalizzazione di nuovi strati della classe operaia, o di riattivazione dei lavoratori già “inquadrati”, nei due paesi cardine della reazione neoliberista che ha plasmato il mondo nei decenni passati, la Gran Bretagna e gli USA. Nel Regno Unito, i sindacati sono tornati al centro come attore sociale con ondate di scioperi paragonabili solo a quelle di quarant’anni fa, mentre i conservatori al governo sono entrati in una crisi profonda.

Negli USA ci sono importanti fenomeni di cambiamento del modo di pensare e dell’autopercezione di importanti settori della classe operaia, in particolare dei lavoratori che erano considerati essenziali durante la pandemia, della loro forza e del loro ruolo nel funzionamento della società. Sono fenomeni diversi, contraddittori e non per forza convergenti – dall’ondata di scioperi di un anno fa in autunno (Striketober) al fenomeno delle dimissioni di massa, la Great Resignation. Ad esempio, nonostante il tasso di sindacalizzazione non superi ancora il 10%, c’è una simpatia molto più larga verso l’idea dell’attività e dell’organizzazione sindacale. Questi processi di lotta e di organizzazione si accompagnano] all’emergere della cosiddetta “generazione U” (per Union, sindacato), i giovani adulti che sono passati attraverso il movimento di Black Lives Matter. Si tratta di un’avanguardia che in larga misura è stata alla base del “fenomeno Sanders”, soprattutto organizzato nel DSA, e che ha una preferenza politico-ideologica per il “socialismo”. Ciò sembra suggerire come vi sia stato un processo di reciproca fertilizzazione tra il movimento sindacale-economico e quello politico in senso stretto, per quanto di natura neoriformista. In maniera interessante, anche la recente ondata di scioperi in Gran Bretagna è stata anticipata da anni di polarizzazione politica, incarnati a sinistra dalla figura di Jeremy Corbyn e dal movimento riformista radicale all’interno del partito laburista, Momentum. La fine delle velleità elettoralistiche, con la piena riconquista della leadership del Labour da parte della destra del partito, ha spinto una fetta delle nuove generazioni di sinistra politicizzate dal ‘fenomeno Corbyn’ e alcuni ‘vecchi’ burocrati di sinistra del sindacato a cercare di contrastare il carovita in altro modo, lanciando in primo luogo la campagna Enough is Enough. Questa è risultata a sua volta importante nel preparare il terreno ideologico allo sviluppo dell’ondata di scioperi attuali.

Questi processi si collocano sullo sfondo della profonda polarizzazione politica che continua a manifestarsi. L’elezione di Biden, che a sua volta aveva rafforzato l’imposizione del governo di larga coalizione di Draghi in Italia, non ha rallentato il processo di sviluppo dell’estrema destra, come dimostrano la persistenza del fenomeno Trump negli stessi Stati Uniti o le dimissioni dell’ex presidente della BCE in Italia e il trionfo nelle recenti elezioni dell’estrema destra di Fratelli d’Italia a traino del vecchio “centrodestra”.

Un’ondata di dimissioni di massa ha coinvolto anche l’Italia ed è un fenomeno da studiare; va però evidenziato come non abbia in sé un valore progressivo assoluto, essendo che la polarizzazione anti-lavoro di settori della classe può portare – per reazione – a un irrigidimento degli atteggiamenti corporativi di altri settori e che, come scriviamo, la sua politicizzazione verso sinistra negli USA è da leggere in connessione a certi fenomeni politici e cicli di lotta.

Questi fenomeni emergono come vettori di malcontento, soprattutto tra le classi medie conservatrici e i settori depoliticizzati delle classi popolari. Ma politicamente includono fenomeni diversi che vanno da correnti in forte processo di accomodamento alle istituzioni attuali, come nel caso di Georgia Meloni, a fenomeni con elementi proto-fascisti, come Trump e Bolsonaro in Brasile, a casi intermedi come Marine Le Pen, che sta beneficiando di un lento processo di de-demonizzazione e credibilità nell’opinione pubblica, ma è ancora lontana dalla completa normalizzazione istituzionale di Fratelli d’Italia.

Le recentissime mobilitazioni in Cina, centrate contro le politiche “zero covid”, completano il quadro di una situazione di rottura della pace sociale precedente in questi paesi centrali per la strategia rivoluzionaria su scala mondiale: non soltanto il regime cinese non riesce più a contenere a livello locale il malcontento sociale attivo, che si contagia e si espande su scala nazionale, ma deve scontare la contraddizione tra la sua propaganda “socialista” e le sue politiche reali, trovandosi di fronte settori di classe operaia, gioventù e ceti medi disposti allo scontro fisico e, in diversi casi, affascinati o convinti da un immaginario socialista che rivendicano durante le mobilitazioni, con una certa analogia rispetto alla popolazione statunitense che si sta radicalizzando. Una visione ancora spesso distorta dalle tradizioni “socialiste” passate (come la socialdemocrazia governista e il maoismo), ma che costituisce una pressione formidabile e preziosa per lo sviluppo della lotta di classe e di una politica indipendente, socialista, della classe lavoratrice negli USA e in Cina, e non solo.

La presente fase di ricerca di un nuovo equilibrio capitalista dopo la crisi del Covid e il terremoto geopolitico della guerra in Ucraina è sicuramente un quadro dove le tendenze al cambiamento, all’accelerazione politica, alla radicalizzazione del conflitto tra le classi sono favorite. Questo significa, dal nostro punto di vista, provare a muoverci nella maniera più corretta ed efficace possibile in uno scenario che tende a evolversi rapidamente, dove il potenziale di radicalizzazione dei singoli e delle masse può trasformarsi molto di più e più velocemente.

A maggior ragione, la passività politica e l’attività routinaria (nella sinistra in generale così come per quanto ci riguarda) genereranno crisi e arretramenti con effetti potenzialmente moltiplicati rispetto a periodi più stabili e “grigi”. A partire da queste considerazioni generali, rivendichiamo la necessità di avere un aggiornamento del bilancio e dell’orientazione che incorpori anche le attività e le sfide che stiamo affrontando in quest’ultimo quadrimestre.

La FIR è un'organizzazione marxista rivoluzionaria, nata nel 2017, sezione simpatizzante italiana della Frazione Trotskista - Quarta Internazionale (FT-QI). Anima La Voce delle Lotte.