L’annuncio del ripristino delle relazioni tra Arabia Saudita e Iran, sotto l’incoraggiamento di Pechino, è un duro colpo per il dominio statunitense in Medio Oriente. Alleata storica degli Stati Uniti e custode essenziale della loro sfera d’influenza nella regione, la monarchia petrolifera saudita sta cercando di moltiplicare le sue alleanze di fronte al ritiro degli Stati Uniti dalla regione.
Il rovescio della medaglia del riavvicinamento saudita-iraniano
A marzo, dietro l’incoraggiamento della Cina, l’Arabia Saudita e l’Iran hanno deciso di ristabilire le relazioni diplomatiche dopo una pausa di sette anni in seguito all’esecuzione da parte del regime saudita dell’ayatollah sciita Nimr al-Nimr e all’attacco alla sua ambasciata da parte di manifestanti di Teheran. Questo riavvicinamento avviene in un contesto globale sconvolto da una rivalità sempre più pericolosa tra Stati Uniti e Cina, dove la logica del fare blocco detta sempre più spesso le politiche estere dei diversi Stati. In questo contesto, alcune potenze regionali, come l’Arabia Saudita, cercano di sfruttare questa rivalità per ottenere concessioni da una parte o dall’altra, pur mantenendo buone relazioni sia con Washington sia con Pechino.
Dal punto di vista delle relazioni tra gli Stati della regione, gli Accordi di Abramo devono essere menzionati come un elemento importante per comprendere questo riavvicinamento. Infatti, questi accordi firmati nel 2020 hanno segnato la normalizzazione delle relazioni tra Israele da un lato e Bahrein ed Emirati Arabi Uniti dall’altro, a cui si sono rapidamente aggiunti Sudan e Marocco in cambio di concessioni da parte degli Stati Uniti.
Dopo la firma degli Accordi, si è diffusa la voce che uno dei prossimi Paesi arabi a ristabilire le relazioni con Israele potrebbe essere proprio l’Arabia Saudita, voce alimentata in parte dal suo promotore, Donald Trump. Una situazione del genere, pur non priva di contraddizioni, sarebbe una pessima notizia per l’Iran. Il ripristino delle relazioni diplomatiche tra Teheran e Riyadh potrebbe avere l’effetto di complicare la normalizzazione delle relazioni tra Israele e Arabia Saudita, o almeno questo è ciò che spera l’Iran. Per molti analisti, quindi, Israele è il grande sconfitto della ripresa delle relazioni tra Arabia Saudita e Iran, anche se la situazione è più complessa e contraddittoria.
Infatti, nonostante la ripresa delle relazioni tra le due potenze rivali del Golfo, l’Arabia Saudita sembra proseguire sulla strada della normalizzazione delle relazioni con Israele, che rappresenterebbe un’importante vittoria strategica per la diplomazia israeliana. I collaboratori di Netanyahu ritengono che un accordo con l’Arabia Saudita cambierebbe il volto del Medio Oriente, eliminando gli ostacoli che ancora si frappongono alla piena integrazione di Israele nella regione. Si paragona la portata di questo accordo a quella dello storico trattato di pace concluso da Israele con l’Egitto nel 1979, “il primo concluso con uno Stato arabo”, scrive Al-Monitor.
Ma se le possibilità di normalizzare le relazioni con Israele rimangono significative, è perché Washington sta seguendo da vicino e attivamente questo dossier. Infatti, non si tratta solo di interessi geopolitici e di sicurezza comuni tra Israele e gli Stati Uniti in Medio Oriente. L’amministrazione Biden sta cercando di contrastare l’avanzata della Cina nella regione. Un accordo Israele-Arabia Saudita sotto l’egida di Washington sarebbe la migliore risposta al riavvicinamento Iran-Arabia Saudita promosso da Pechino.
La monarchia saudita ne è ben consapevole e sta cercando di “vendere” la sua firma nel modo più conveniente possibile: “Sono disposti a fare questo passo, ma solo se gli frutterà molto. Chiedono contratti per la fornitura di armi sofisticate; di fatto, chiedono lo stesso status di Israele in termini di fornitura di armi statunitensi. Vogliono anche un accordo di difesa USA-Saudita che obblighi Washington a venire in aiuto dell’Arabia Saudita in caso di attacco e, infine, vogliono l’aiuto degli Stati Uniti per la creazione di un progetto nucleare civile”, ha dichiarato una fonte diplomatica israeliana ad Al Monitor.
Come possiamo vedere, questo riavvicinamento ha implicazioni regionali ma anche globali e coinvolge le potenze protagoniste del più grande conflitto geopolitico: Cina e Stati Uniti.
Guerra civile in Yemen: riappacificazione in vista?
Negli ultimi anni, il principale punto di contesa tra l’Arabia Saudita e l’Iran è stata la lotta per il controllo dello Yemen e in particolare dello Stretto di Bab el-Mandeb che, insieme allo Stretto di Hormuz, è il principale punto di passaggio per il petrolio saudita destinato ai paesi del sud-est asiatico.
Il Golfo Persico, situato tra l’Arabia Saudita e l’Iran, è la regione più ricca di petrolio al mondo e lo stretto di Hormuz, attraverso il quale passa il 25% del petrolio mondiale e quasi un terzo del GNL (gas naturale liquefatto), è uno dei punti più caldi al mondo. Da tempo l’Iran minaccia di bloccare lo stretto in caso di conflitto, paralizzando così la maggior parte della produzione e delle esportazioni mondiali.
Di fronte a questo pericolo, i sauditi hanno costruito l’oleodotto Est-Ovest durante la guerra Iran-Iraq. L’oleodotto Est-Ovest permette di trasportare il petrolio direttamente dalla costa del Golfo Persico al Mar Rosso, aggirando gli Stretti di Hormuz e Bab el-Mandeb. Tuttavia, con l’intensificarsi degli scambi commerciali tra Europa, Medio Oriente e Sud-Est asiatico, Bab el-Mandeb ha acquisito una grande importanza strategica, da cui la feroce lotta per il controllo dello Yemen e l’installazione di basi militari da parte di tutte le principali potenze nella vicina Gibuti, che controlla l’altro lato dello stretto (Russia e India sono in trattativa per installare le proprie basi).
La guerra per procura tra le due potenze nello Yemen ha provocato la peggiore crisi umanitaria del XXI secolo: i combattimenti sono direttamente responsabili della morte di oltre 100.000 persone, tra cui molti civili. Ma a questo si aggiunge un numero ancora maggiore di morti indirette, in particolare a causa della carestia che colpisce il paese, responsabile della morte di 85.000 bambini tra il 2014 e il 2018 secondo l’ONG Save the Children. La carestia è in gran parte dovuta al blocco saudita nel Mar Rosso e ha contribuito a una delle peggiori epidemie di colera dall’inizio del secolo.
Con l’avanzata degli Houthi sostenuti dall’Iran sulla capitale Sana’a, l’assassinio dell’ex presidente Saleh e il bombardamento delle strutture petrolifere di Aramco nel cuore dell’Arabia Saudita, probabilmente da parte di droni di fabbricazione iraniana, le relazioni tra Arabia Saudita e Iran si sono deteriorate fino a toccare i minimi storici. L’attuale riscaldamento delle loro relazioni, per quanto incerto e imperfetto, fa sperare che i combattimenti in Yemen finiscano nel prossimo futuro. Tuttavia, la “pace” tra questi due regimi reazionari può essere tale solo sulle spalle dei lavoratori e delle classi subalterne dello Yemen.
Per l’Arabia Saudita, la guerra brutale e criminale che sta conducendo nello Yemen è diventata un grattacapo e un pozzo di denaro, per non parlare del discredito dell’immagine della monarchia a livello internazionale. Tuttavia, Riyadh non può permettersi di abbandonare questa guerra e lasciare che un governo ostile e vicino all’Iran si insedi al suo confine meridionale. Anche nel caso di un accordo con l’Iran, questa situazione apre importanti contraddizioni per la politica internazionale saudita.
Il riavvicinamento dell’Arabia Saudita alla Cina significa la fine della storica alleanza tra il regime saudita e gli Stati Uniti?
Le relazioni tra Stati Uniti e Arabia Saudita hanno subito ripetutamente e per decenni duri colpi: l’embargo petrolifero del 1973, gli attentati dell’11 settembre con una certa copertura saudita, la guerra in Iraq e, più recentemente, il rifiuto, seppur temporaneo, dell’Arabia Saudita di allinearsi al blocco occidentale sulla guerra russo-ucraina e l’aumento del prezzo del barile di petrolio deciso dall’OPEC+ sotto l’egida saudita. Detto questo, la Realpolitik ha sempre preso il sopravvento e queste controversie sono sempre state risolte abbastanza rapidamente. Il momento attuale è diverso da questo punto di vista? Non proprio.
Il posto della Cina nel nuovo ciclo di negoziati tra Arabia Saudita e Iran è un posto che gli Stati Uniti non avrebbero potuto occupare a causa dell’assenza di relazioni tra Washington e Teheran. In definitiva, anche gli Stati Uniti sono beneficiari, sotto certi aspetti, del ripristino delle relazioni tra i due Paesi: da un lato, perché questo riavvicinamento creerà un forte canale di scambio con l’Iran, che al momento manca agli USA, ma anche perché una normalizzazione delle relazioni tra Arabia Saudita e Yemen avvantaggerebbe indirettamente gli Stati Uniti. Inoltre, l’amministrazione Biden sta ancora cercando di rilanciare gli Accordi di Vienna (che regolano i trattati internazionali) e l’ingresso dell’Arabia Saudita potrebbe rivelarsi una risorsa cruciale.
La vicinanza tra Stati Uniti e Arabia Saudita è motivata principalmente da considerazioni commerciali e geostrategiche, piuttosto che da affinità elettive. Ma se il regime wahhabita considerava Washington un partner che stava diventando troppo instabile, ciò non ha fatto che agevolare la sostenibilità e il rafforzamento dell’asse Riyadh-Pechino. In ogni caso, quel momento non è ancora arrivato e l’alleanza con gli Stati Uniti rimane un grande investimento per Riyadh. Tuttavia, il fatto che gli Stati Uniti si stiano gradualmente disimpegnando dal Medio Oriente da un decennio a questa parte ha favorito il riavvicinamento saudita alla Cina in termini economici, ma anche di sicurezza: Pechino ha un’influenza sull’Iran che Washington non ha.
Cina-USA: una lotta per il controllo della regione
Per il New York Post, testata conservatrice, il ripristino delle relazioni tra Arabia Saudita e Iran apre una nuova fase nella “sostituzione” degli Stati Uniti da parte della Cina come potenza dominante in Medio Oriente: la Cina assume il ruolo di “leader del Sud globale e [il ‘riavvicinamento’ saudita-iraniano è] parte integrante degli sforzi di Xi per forgiare un nuovo ordine mondiale”.
In effetti, la Cina ha molti interessi nella regione e l’avanzamento della sua influenza in Medio Oriente sarebbe un grande vantaggio per Pechino. In primo luogo, la Cina ha molto da guadagnare dal controllo delle vie d’acqua che circondano la Penisola Arabica e, nello specifico, degli Stretti di Hormuz, Bab-el-Mandeb e del Canale di Suez, attraverso i quali transita la maggior parte dei beni e delle materie prime da e per la Cina. La crescente presenza di Pechino nella regione è confermata nella pratica, con il corridoio terrestre meridionale e quello marittimo della Nuova Via della Seta, il ripristino delle relazioni tra l’Iran e l’Arabia Saudita, l’installazione di una base militare a Gibuti (l’unica base militare cinese all’estero) e la frequente partecipazione alle missioni di “mantenimento della pace” delle Nazioni Unite (in Libano nel 2006, nel Golfo di Aden nel 2008, ecc.)
Per alcuni osservatori, l’insediamento della Cina nella regione è troppo rapido e non poggia su basi solide, il che potrebbe a medio termine riaccendere le tensioni in tutta la regione. È vero che l’interferenza di Pechino nei legami bilaterali tra due pesi massimi come l’Arabia Saudita e l’Iran è un terreno incognito nelle relazioni internazionali e la Cina sta potenzialmente giocando un gioco pericoloso, le cui conseguenze sarebbero difficili da prevedere a lungo termine.
Tuttavia, nonostante le esagerazioni della stampa imperialista occidentale che dipinge la Cina come una minaccia imminente in grado di “sostituire” gli Stati Uniti come leader mondiale, è chiaro che il riavvicinamento saudita-iraniano è una parziale vittoria della diplomazia cinese. In un mondo ultra-competitivo e sempre più polarizzato, ogni piccolo passo avanti ha un peso significativo nei confronti delle potenze rivali.
Questo attivismo diplomatico di Pechino sembra essere uno degli importanti cambiamenti nella situazione internazionale, nel contesto della rivalità-competizione tra Cina e Stati Uniti. Tuttavia, dal punto di vista della classe operaia e di tutti gli sfruttati e gli oppressi, non c’è nulla di positivo in questi attriti. Da un lato, la Cina capitalista, pur non avendo oggi la capacità (né l’intenzione) di sostituire gli Stati Uniti come superpotenza internazionale, sta perseguendo un progetto di espansione internazionale a scapito di altri popoli e sulla base del saccheggio delle risorse degli Stati meno potenti del cosiddetto “Sud globale”. In secondo luogo, il “modello cinese” è intrinsecamente legato al supersfruttamento di centinaia di milioni di lavoratori cinesi. Da questo punto di vista, il regime cinese non rappresenta alcuna alternativa progressista, né tanto meno “antimperialista”, alle potenze reazionarie dell’Occidente.
Ecco perché il riavvicinamento tra Arabia Saudita e Iran sotto l’egida della Cina non si basa realmente sulla ricerca di una “pace tra i popoli”. È soprattutto volto a soddisfare gli interessi e le esigenze del capitalismo cinese e della politica estera del regime.
Pertanto, l’ordine reazionario in Medio Oriente, plasmato dall’imperialismo statunitense e occidentale, ferocemente difeso dai suoi alleati locali (le monarchie arabe e i governi militari, Israele…) può essere veramente sfidato solo dalla classe operaia e dalle masse popolari mobilitate per una trasformazione radicale, rivoluzionaria e realmente socialista. Questa mobilitazione e questo progetto sono totalmente opposti agli interessi dei regimi rivali dell’imperialismo occidentale nella regione, come l’Iran o la Cina.
Philippe Alcoy, Wolfgang Mandelbaum
Redattore di Révolution Permanente e della Rete Internazionale La Izquierda Diario. Vive a Parigi e milita nella Courante Communiste Revolutionnaire (CCR) del NPA.