Se il collasso del sistema sanitario, colpito da anni di tagli e riduzione dei finanziamenti è una delle più evidenti conseguenze della pandemia in atto, ciò che la crisi aperta non ha ancora mostrato in tutta la sua ineluttabilità è il problema più generale della gestione delle risorse a disposizione all’interno dell’ecosistema della Terra.


Nella maggior parte dei paesi la risposta immediata delle persone alle dichiarazioni dei capi di stato sulle misure di quarantena è stata una corsa in massa ai supermercati.

Per ora questi comportamenti appaiono sproporzionati perché non c’è ancora il rischio che la produzione e l’approvvigionamento di beni di prima necessità cessi o venga a mancare.

Ma è davvero un rischio inesistente o sul quale non vale la pena riflettere?

Per dare risposta a questo interrogativo bisogna prima evidenziare alcune delle cause che hanno portato al dilagare dell’infezione a livello globale.

 

COVID19 e cambiamento climatico

Come ormai è stato riconosciuto da molti esperti, l’attuale pandemia è intrinsecamente legata ai cambiamenti che ha subito l’ambiente a causa dell’antropizzazione.

L’organizzazione mondiale della sanità aveva già dal 2007 lanciato l’allarme di un rischio crescente di epidemie virali lì dove viene alterato l’equilibrio tra uomo e microbi, a causa dei cambiamenti del clima e dell’intrusione massiva dell’uomo negli ecosistemi naturali. Stravolgendo gli habitat di molte specie animali, che possono fungere da vettori, aumenta per l’uomo l’esposizione a nuovi virus e la possibilità dello “spillover” ovvero del “salto di specie” del virus da un portatore animale non-umano agli umani, per poi adattarsi alla trasmissione uomo-uomo.

Questa allerta, che sembra in questi giorni dispiegarsi in tutta la sua concretezza, aveva già dato segni di validità, non ascoltati, nei decenni passati con le epidemie di SARS e MERS anch’esse facenti parte della famiglia virale dei coronavirus. Tre coronavirus in meno di vent’anni non rappresentano più solo un forte campanello d’allarme ma una reale minaccia che potrebbe ripresentarsi sempre con maggior forza e frequenza.

Come se non bastasse si sta rilevando un nesso tra l’inquinamento atmosferico e la diffusione stessa del virus. Secondo uno studio della Sima (Società Italiana di Medicina Ambientale), uno dei fattori per cui in aree come la pianura padana e la Lombardia il contagio è stato più veloce è l’alta presenza di polveri sottili e di biossido di azoto NO2 che sembrano comportarsi da facilitatori per il trasporto del virus -il diossido di azoto NO2 in particolare è un gas inquinante generato da combustibili fossili, per cui fortemente legato alla produzione industriale, agli impianti di riscaldamento e al traffico stradale. È tossico e irritante, ed essendo più denso dell’aria tende a rimanere vicino al suolo e quindi a trattenere il virus che non può disperdersi.

Anche se questa tesi ad oggi non è pienamente dimostrata, non ci sono dubbi sul fatto che l’inquinamento atmosferico danneggia la salute e in particolare l’apparato respiratorio, nelle aree dell’Italia su citate, e attualmente più colpite dalla pandemia COVID19. Già da diversi anni – dati istat- si registra una maggiore incidenza di malattie respiratorie (malattie croniche al sistema respiratorio sono la terza causa di morte a livello planetario),ne consegue logicamente che lì dove molte persone hanno già patologie o danni all’apparto respiratorio, il SARS-CoV-2 abbia terreno fertile e risulti più letale.

In questo quadro, il mancato lockdown (chiusura generalizzata) di tutte le fabbriche e attività di trasporto non essenziali alla salute collettiva ha agito negativamente non solo in modo diretto – costringendo i lavoratori a continuare a recarsi a lavoro, non essendo nemmeno forniti di adeguati mezzi di protezione personale, rischiando di ammalarsi e di diventare, loro malgrado, veicolo di contagio ulteriore – ma anche indirettamente perché avrebbe contribuito ad abbassare i livelli di inquinamento e quindi ipoteticamente aiutare a rallentare l’infezione.

La buona notizia è che già solo con le limitazioni attuali l’inquinamento è calato: in Cina, dove hanno disposto la chiusura totale delle fabbriche, si è registrato un calo di CO2 del 25% e dell’NO2 fino al 36%, evitando, secondo una stima effettuata incrociando diversi studi, dal global Food all’”environment and economic Dynamics”, cinquantamila morti per inquinamento atmosferico.

Ma che prezzo ci è costata una così piccola quanto effimera nota positiva in questo scenario disastroso: decine di migliaia di morti. Morti che saranno probabilmente vane e non sufficienti a farci imparare una lezione molto importante: come è già successo per la crisi del 2008, infatti, in cui ad un calo del pil era coinciso un calo delle emissioni, queste ultime sono poi incrementate notevolmente in seguito alle politiche di stimolo economico reputate necessarie per innalzare nuovamente l’attività produttiva.
Questa volta dobbiamo aspettarci, quindi, una data di ritorno delle emissioni davvero preoccupante.

È evidente che il modello di crescita, di produzione della ricchezza utilizzato fino ad oggi non è più sostenibile, con la buona pace di chi ancora si ostina a negare l’esistenza e le ripercussioni del cambiamento climatico e dell’inquinamento, negandone la natura antropogenica e omettendo la globalità fenomeno.

Il problema della scarsità delle risorse

La distruzione, da parte della società capitalistica, dell’ambiente e degli ecosistemi, e l’inquinamento e i cambiamenti climatici che ne conseguono, mettono a rischio la vita di noi tutti: non solo colpendo la nostra salute ma anche diminuendo drasticamente la reperibilità delle risorse necessarie.

Il diffuso degrado e la crescente scarsità delle terre e delle risorse idriche stanno mettendo a rischio un gran numero di sistemi di produzione alimentare, settori chiave in tutto il mondo, costituendo una seria minaccia alla possibilità di riuscire a sfamare una popolazione mondiale prevista raggiungere i 9 miliardi di persone entro il 2050, affermava un rapporto FAO già nel 2011.

Lo Stato Mondiale delle Risorse Idriche e Fondiarie per l’Alimentazione e l’Agricoltura (SOLAW) sottolinea che, sebbene negli ultimi 50 anni si sia registrato un notevole aumento della produzione mondiale,

in troppe occasioni tali miglioramenti sono stati accompagnati da pratiche di gestione delle risorse che hanno degradato gli ecosistemi terrestri e idrici dai quali la produzione alimentare stessa dipende.

Si prevede, inoltre, che il cambiamento climatico andrà sempre più ad alterare le condizioni meteorologiche in termini di temperature, precipitazioni e portata dei fiumi, dalle quali dipende la produzione alimentare mondiale.

Solo per soddisfare la domanda di cibo, la produzione agricola deve aumentare, entro il 2040, del 60% a livello globale e quasi del 100% nei paesi in via di sviluppo.

Il 33% del suolo è da moderatamente ad altamente degradato a causa di erosione, perdita di nutrienti, acidificazione, salinizzazione, compattazione e inquinamento chimico.

Nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo c’è poco spazio per un’espansione del territorio coltivabile: non esistono più, in pratica, terre disponibili in Asia meridionale, vicino Oriente e Africa del nord.

Non stiamo quindi parlando solo delle risorse energetiche come il petrolio o le terre rare, che forniscono i minerali indispensabili a molta della tecnologia adoperata oggigiorno, per le quali i vari stati sono già in strenua competizione, ma della produzione alimentare.

Dietro tutto questo c’è un uso sfrenato delle risorse volto ad un aumento continuo della produzione: pensiamo di poter continuare ad intensificare la produzione oltre ogni limite, procurando materie prime con la deforestazione, con il fracking e piegando la tecnologia a questo fine.
Ma le risorse del nostro pianeta sono per loro natura limitate e più le sfruttiamo in modo massiccio più creiamo danni irreparabili e più velocemente erodiamo la loro possibilità di riproduzione.

Pare che l’”earth overshoot day” quest’anno sarà all’incirca introno la fine di maggi. L’anno scorso è stato il 29 luglio, per cui a poco più di metà anno 2019 la popolazione mondiale aveva già utilizzato il budget di risorse naturali che il nostro pianeta è in grado di produrre in un intero anno.

Il problema fondamentale per cui tutto ciò accade, in realtà, è molto semplice: le risorse sono gestite da pochi e per il profitto di pochi.

L’economia, che per definizione è quella scienza deputata a gestire le risorse in quanto finite, è asservita agli interessi della classe dominante, di quei pochi che, appunto, gestiscono le risorse, per cui ci viene detto che “non esiste altro modello economico al di là di quello attuale” e che quello che si può fare è renderlo “sostenibile” e che noi consumatori dobbiamo diventare più consapevoli e attenti.

 

Ma questa sì che è utopia!

Nessun’economia sarà sostenibile finché il profitto di pochi è il motore di una spirale di produzione e consumo volta a far sì che quel profitto aumenti sempre di più senza tener conto delle conseguenze.
Sappiano inoltre molto bene che chi possiede di più è anche chi consuma di più. La gestione delle risorse in un sistema capitalistico ha come prerogativa e peculiarità intrinseca anche una distribuzione ineguale dei prodotti dell’attività umana della collettività.

 

Abbiamo bisogno di un modello diverso di gestione delle risorse

E ormai più che evidente l’incompatibilità del nostro modello di sviluppo con la vita stessa: la nostra civiltà intera, così come è strutturata, potrà solo portare a più morti.

Ma chi sarà a pagare il prezzo maggiore?

Dopo la crisi del 2008, a dieci anni di distanza, i miliardari sono più ricchi, la ricchezza si è progressivamente concentrata e 26 individui possiedono una ricchezza pari a quella posseduta da 3,8 miliardi di persone sulla terra.

Aspettiamo che alla prossima crisi ci lasceranno a farci guerra tra gli scaffali dei supermercati così come in questi giorni confindustria fa con gli operai?

Pretende che restino a lavorare e a morire mentre loro hanno tutti i mezzi per proteggersi e vivere l’isolamento imposto dalla quarantena, nel lusso, volendo farci credere che la produzione non si può fermare per il bene dell’economia del paese quando, invece, è solo perché se gli operai non lavorano, producendo tutto ciò che compriamo e di cui viviamo, per loro non ci saranno più profitti.

Proteggere la biodiversità, frenare la crisi climatica, frenare la distruzione delle foreste e ridurre e razionalizzare il consumo di risorse è possibile solo con un cambiamento globale e internazionale del modo di gestione le risorse, che non può più essere determinata da pochi per il loro personale tornaconto, deve essere gestita in modo collettivo per il bene di tutti e lo dobbiamo fare a partire da subito!

Per questo, per fare in modo che la crisi non venga pagata da chi già è più povero ma che la paghi chi l’ha causata, oltre ad una sanità interamente pubblica e gratuita, è necessario adottare subito un’imposta patrimoniale progressiva sui grandi patrimoni per finanziare le risorse necessarie a fronteggiare la crisi sanitaria e per distribuire un reddito di quarantena a tutti i disoccupati, ai precari e ai lavoratori autonomi colpiti dalla crisi, senza i meccanismi di controllo del reddito di cittadinanza.

È inoltre indispensabile il blocco totale del pagamento di mutui, affitti, debiti dei ceti bassi, e di tutte le imposte per i lavoratori autonomi e la reintroduzione della scala mobile, unitamente al rigetto del pagamento degli interessi sul debito pubblico e alla rottura dei vincoli di bilancio della UE.

Solo adottando queste misure potremmo evitare che la povertà dilaghi, così da agire sulle reali cause di questa pandemia.

 

Lisa Di Pietro

Nata a Napoli nel 1988, consegue la Laurea magistrale in Scienze Filosofiche presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II" e la Laurea di primo livello in Pianoforte al Conservatorio di San Pietro a Majella.