Il gruppo svizzero dei metalli di base è sempre più ricco grazie all’aumento dei prezzi delle materie prime, ma ricatta lo stato e mette in cassa integrazione gli operai, causando centinaia di licenziamenti tra le aziende in appalto. I lavoratori sardi sono in lotta da oltre un mese contro gli attacchi dell’azienda.


Nelle scorse settimane, a Portoscuso – nel Sulcis Iglesiente (Cagliari) – la Portovesme srl, azienda che produce principalmente piombo e zinco, ha deciso di fermare la produzione mettendo i quasi 1500 lavoratori in cassa integrazione, e lasciando di fatto senza lavoro quelli delle ditte in appalto. Già a fine febbraio – al cominciare effettivo della cassa integrazione – era esplosa la protesta dei lavoratori, con quattro di loro che si erano asserragliati in una delle ciminiere della fabbrica, da cui sono scesi solo dopo che il ministero delle imprese aveva avviato un incontro con i dirigenti dell’azienda. Sia regione che governo avevano quindi assicurato che l’azienda sarebbe stata nelle condizioni economiche di riavviare la produzione.

Ma circa dieci giorni fa la protesta si è riaccesa, dopo che l’amministratore delegato della Portovesme, in un incontro con il ministero, aveva ribadito l’impossibilità di riprendere la produzione a causa – ufficialmente – dell’instabilità dei costi dell’energia dovuta agli effetti della guerra in Ucraina. Immediatamente la mobilitazione è ripartita, e all’impianto “gemello” di San Gavino Monreale – dove vengono raffinati piombo e zinco provenienti da Portoscuso, per produrre oro e argento – gli operai hanno organizzato un presidio permanente, con tanto di tende sul tetto della fabbrica. Lì a San Gavino i forni della fonderia sono già spenti, a Portoscuso in via di spegnimento. Dando prova di grande senso dell’umorismo, i dirigenti dell’azienda hanno deciso di avviare la procedura di cassa integrazione a zero ore il primo aprile, con l’effetto di una serie di licenziamenti nelle aziende in appalto che non possono beneficiare delle sovvenzioni statali.

I profitti di Glencore e le ragioni degli operai

Gli operai della Portovesme temono che, dietro la motivazione ufficiale data dall’azienda alla chiusura degli impianti, alberghi una verità più profonda che collegherebbe questa vertenza a molte altre scoppiate negli ultimi anni in Italia – compresa quella di GKN –, ovvero la volontà di delocalizzare la produzione. Portovesme srl è infatti proprietà della Glencore, multinazionale anglo-svizzera, prima al mondo per commercio di materie prime. Secondo RSI Radiotelevisione svizzera, lo scorso anno Glencore avrebbe aumentato di ben un quarto il proprio fatturato rispetto all’anno precedente, proprio grazie a quell’aumento dei prezzi delle materie prime che ora viene mobilitato dai vertici dell’azienda a motivo della chiusura degli impianti in Sardegna. In totale, si parla di 226 miliardi di dollari, per un profitto netto di più di 17 miliardi. Come RSI annuncia trionfalmente («il 2022 è stato un anno eccellente per gli affari di Glencore»!): «di queste cifre beneficeranno in modo particolare gli azionisti». I lavoratori, intanto, vengono messi in cassa integrazione e licenziati.

Un recente servizio di Propaganda Live su La7 ha mostrato come già molti fra gli operai in presidio estendano le proprie rivendicazioni economico-sindacali a questioni più ampie di carattere politico. Alcuni di loro sono figli di operai che lavorarono per anni in altre fabbriche della stessa zona industriale (ad esempio l’Alcoa, al centro di una simile vertenza qualche anno fa e ora in attesa di una lenta ripresa della produzione), e che si trovarono nell’analoga situazione di dover lottare per il proprio posto di lavoro, anche incatenandosi all’ingresso degli impianti, come i loro figli adesso. Si parla, quindi, del tema della “desertificazione” dei territori industriali, dove le fabbriche disegnano il paesaggio e scandiscono la vita degli abitanti, per poi venire strappate via dalle operazioni finanziarie delle grandi multinazionali come Glencore (o come Melrose, nel caso dell’ex-GKN di Campi Bisenzio, altro territorio devastato dagli impianti industriali abbandonati come cadaveri in decomposizione).

Viene evocata la questione della cosiddetta “disaffezione” della classe operaia per la politica, con la conseguente diserzione di massa delle elezioni politiche; e la causa di questo viene indicata nella totale assenza di un’organizzazione politica di riferimento che abbia il proprio baricentro fra i lavoratori. Si parla anche di reddito di cittadinanza e, più o meno implicitamente, di salario minimo, a fronte di stipendi miseri (1300 euro al mese), totalmente inadatti a sostenere, oggi ancora più di ieri, una vita degna. Alla fine, un operaio riassume tutto in poche, lucide e tristi parole: «noi siamo poveri lavorando, figuratevi senza lavoro». Se Propaganda Live mette l’accento sulla seconda parte della frase, la più calda dato il momento della vertenza, dovremmo dare altrettanta importanza – se non di più – a quel «noi siamo poveri lavorando», che fotografa perfettamente l’attuale condizione di lavoratrici e lavoratori in Italia (e non solo). Si tratta di due aspetti ovviamente legati: per gli stessi motivi gli operai, che già guadagnano salari da fame, vengono poi licenziati o messi in cassa integrazione. E, contestualmente, gli azionisti delle multinazionali fanno profitti gargantueschi, dimostrando ancora una volta che il benessere dei lavoratori non è certo legato a doppio filo ai fatturati delle aziende e ai guadagni dei loro dirigenti.

Contrastare l’isolamento delle singole vertenze

Il messaggio degli operai in presidio a Portovesme è lo stesso di quelli ex-GKN, in assemblea permanente da luglio 2021: la fabbrica non è dell’azienda o delle multinazionali che la controllano, ma del territorio e di chi ci lavora, ci ha lavorato o ci lavorerà. È delle persone che vivono queste zone industriali, altrimenti desertificate, prosciugate, rese inabitabili. L’urgente problema politico da porre è cosa fare affinché queste vertenze vincano, come la rabbia operaia possa coagularsi intorno a un’unità concreta della classe lavoratrice al fine di riportare miglioramenti tangibili della propria condizione, e con la prospettiva di un superamento dell’attuale sistema economico. Il rischio è che vertenze come questa di Portovesme e quella di GKN, come molte altre in passato, finiscano per rimanere isolate dal resto del movimento operaio.

È di centrale importanza che gli operai licenziati o in cassa integrazione non vengano isolati dai lavoratori degli impianti produttivi, che, a differenza dei loro più sfortunati compagni, mantengono un ruolo potenzialmente ben più attivo nel conflitto fra capitale e lavoro. Uno sciopero che vada al di là della singola fabbrica deve poter essere chiamato tempestivamente, appena vertenze come queste scoppiano, anche in aperto contrasto con i limiti imposti dalle burocrazie sindacali, che di fatto imbrigliano la lotta delle lavoratrici e dei lavoratori – come è già successo nel caso di GKN. Affinchè ciò sia possibile è necessario pensare a una strategia di intervento tra i lavoratori che non si limiti a fare ‘opposizione’ all’interno degli organismi dirigenti della CGIL, ma che sia volta a costruire una tendenza rivoluzionaria nei sindacati di massa basandosi sulla costruzione di forme di organizzazione indipendenti dalle burocrazie sindacali co-ordinate tra vari luoghi di lavoro all’interno dello stesso settore\territorio (a tal proposito si legga dell’interessante esperienza messa in campo dai nostri compagni francesi di Revolution Permanente in occasione degli scioperi delle raffinerie).


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Nazionalizzazione sotto il controllo dei lavoratori contro la dicotomia lavoro-ambiente

Il carattere della produzione della Portovesme solleva naturalmente anche inderogabili problemi di carattere ecologico. Piombo e zinco, manco a dirlo, sono materiali altamente inquinanti, e già in passato è stato rilevato come il livello di inquinamento di questa zona della Sardegna, a causa di impianti come quelli di Alcoa e Portovesme, fosse superiore ai livelli di pericolosità per salute e ambiente. Per questo è necessario rivendicare l’intervento statale diretto per il salvataggio e contemporaneamente la riconversione ecologica di questi impianti, quelli Portovesme di Portoscuso e San Gavino, così come l’ex-GKN di Campi Bisenzio. Le fabbriche devono essere pubbliche, sotto il controllo operaio, integrate al territorio ed ecologiche. Solo in questo modo è possibile pensare di uscire dalla dicotomia “lavoro-ambiente” tramite cui i vertici sindacali riformisti e i padroni cercano di dividere il movimento operaio dai processi di mobilitazione ecologista. Nella lotta in questione, peraltro, questa rivendicazione potrebbe evitare di spezzare il ricatto attraverso cui Glencore – come altre multinazionali – spilla costantemente soldi allo Stato, che non finiscono certo per migliorare il rapporto tra produzione e ambiente, ma per ingrassare gli azionisti. Non è infatti da escludere che a causa della strategicità della Portovesme srl (unico produttore di zinco e minerali preziosi in Italia) lo stato possa decidere di fornire nuovi incentivi milionari al padrone.

Gli operai di Portovesme a Portoscuso e San Gavino sono in presidio permanente. Hanno bloccato gli ingressi dell’impianto per non permettere ai camion dell’azienda di svuotare la fabbrica dalle materie prime necessarie alla produzione. Attendono un primo incontro diretto fra il ministero e i dirigenti di Glencore, in arrivo dalla verde Svizzera per l’occasione. Il nuovo capitolo della lotta di classe in Italia è in corso e si arricchisce di nuovi protagonisti.

Leonardo Nicolini

Nato a Genova nel 1998, è cresciuto in una famiglia di artisti. Ha studiato filosofia prima a Pavia e poi e Firenze, dove vive attualmente. Militante della FIR, si dedica anche alla fotografia e al cinema.