Riceviamo e pubblichiamo la testimonianza di un’insegnante alle prese con il proseguimento dell’attività scolastica in periodo di quarantena.


Le misure di quarantena in risposta al diffondersi della pandemia del Coronavirus hanno fatto sì che anche scuola pubblica statale si sia improvvisamente trasformata da luogo fisico e reale ad un (non) luogo virtuale e digitale fatto di piattaforme, di strumenti di istant messaging e chatting e videolezioni. Un’occasione straordinaria per applicare i meccanismi del capitalismo digitale, quello dei big player delle piattaforme virtuali, sempre più invasivo e pervasivo, che riscopre e attualizza le più brutali e sregolate forme di sfruttamento e accumulazione di profitti.

La scuola, dunque, ha dovuto rimettere in discussione modelli, regole, programmazioni e nel contempo continuare ad essere la principale agenzia educativa dello Stato.

Il Ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina, con il roboante e martellante hashtag #LaScuolaNonSiFerma, che sottintende che il ruolo e la “professionalità” del docente non possono venir in meno anche in un momento di emergenza come questo, ha dimostrato di non conoscere in toto il mondo della scuola.

Ogni docente, in coscienza, e per un senso etico di responsabilità, si sta adoperando al meglio per mantenere un contatto diretto con i propri alunni, inviando compiti e attività, concordate telefonicamente con i genitori, effettuando quindi una programmazione a distanza, anche tralasciando aspetti contrattuali di non poco conto (tale modalità “ a distanza” non rientra nel mansionario previsto dall’attuale CCNL del comparto scuola e quindi è del tutto volontaria).

Veniamo ora ai nodi problematici di questo nuovo paradigma epistemologico della Didattica a Distanza (DaD): una classe è composta non solo di alunni cosiddetti normodotati, ma anche da alunni in situazioni di particolare svantaggio socio-economico; bambini e ragazzi stranieri, quindi con svantaggio linguistico e pertanto con bisogni educativi speciali; alunni diversamente abili che non sono praticamente considerati dallo Stato.

Questi ultimi, molto spesso, oltre a non essere supportati sempre dalle famiglie e a non possedere mezzi e strumenti tecnici ed informatici, si trovano impossibilitati di fatto a svolgere qualsiasi attività in tale modalità a causa di patologie spesso invalidanti e ad essere quindi automaticamente esclusi.

Chi scrive è una cittadina come tante che però svolge il ruolo di educatore, ancor prima di esser insegnante di sostegno e, in questi giorni di quarantena, ha potuto toccare con mano le difficoltà e spesso anche l’impossibilità di seguire a distanza il suo alunno “speciale”.

Probabilmente chi è ai piani alti del Ministero ha dimenticato l’art.34 della nostra Costituzione in virtù del quale la scuola è aperta a tutti e l’istruzione inferiore è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi ed anche tutta la legislazione seguente sull’integrazione scolastica (a partire dagli anni ’70 in poi) che garantisce ai soggetti diversamente abili l’effettivo inserimento in classi comuni.

La scuola pubblica, istituzione dello Stato, non può, parafrasando Don Milani, respingere i malati e curare soli i sani. Se la scuola, come sta avvenendo adesso con la DaD, dimostra di non essere integrante per tutti, non può esserlo neppure per l’allievo disabile. La logica dell’integrazione deve pervadere tutta la scuola come in una rete. Una rete che sostiene e che supporta tutti con ogni mezzo necessario, senza lasciare nessuno indietro!

 

Chiara Pepe

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