La storia di Ahmaud Arbery, venticinquenne afroamericano ucciso dalla polizia negli USA, fa parte di un’atroce scia di violenza poliziesca contro le minoranze etniche che rende la loro quarantena un doppio incubo.
In un giorno d’inverno, Ahmaud Arbery, 25 anni, afroamericano, esce a correre nella cittadina di Brunswick, Georgia. Si tratta di un paese di media grandezza per lo spopolato sud statunitense, di quindicimila abitanti circa, il 30.4% dei quali vive sotto la soglia di povertà, quasi uno stereotipo di una regione di cui tutti, approssimativamente, hanno un’idea in testa. Una città che potrebbe chiamarsi in migliaia di modi diversi; ma oggi si chiama proprio così.
Lo stesso giorno, vengono trovati a fianco del suo cadavere Gregory e Travis McMichael, padre e figlio, residenti del quartiere. Per il padre, un passato nella forza di polizia di Glynn County, da investigatore. Sotto il comando diretto di Jackie Johnson, procuratrice generale di Brunswick. Dopo un breve inseguimento, sul loro furgoncino bianco, avrebbero tagliato la strada al giovane Ahmaud, sparato un colpo a vuoto, e in seguito, il figlio, sarebbe sceso dal retro del furgone, aprendo il fuoco a distanza ravvicinata contro il runner. Arbery provò a difendersi, ma, disarmato, non poté nulla contro il fucile a pompa imbracciato da Travis. La versione raccontata alla polizia dello stato del Virginia, da Gregory McMichael, è quella di una sfortunata, seppur inevitabile disputa tra il figlio e un “aggressivo” uomo nero che, trovatosi di fronte a due uomini bianchi “razionali”, che da cittadini qualunque stavano investigando una “scia di irruzioni domestiche nel quartiere di Satilla Shores. Ahmaud, quella mattina, mentre stava correndo, si era fermato all’ingresso di una residenza in costruzione, curiosando per capire se ci fosse qualcuno, e, dopo aver visto che era vuota, se ne era allontanato. Tanto è bastato ad allertare i sistemi di sicurezza, direttamente collegati al 9-1-1 in caso di emergenza. Gregory McMichael viene ascoltato in quanto testimone, e nulla più.
Una storia di legittima difesa, quindi. In uno stato, come la Georgia, dove portare un’arma da fuoco appresso, all’aperto, è perfettamente legale e tutelato da decenni di legislazione locale in tutte le contee.
Questo succede il 23 febbraio.
Passano i giorni, e dal 20 febbraio al 20 aprile, nonostante due chiamate al 911 lo stesso giorno dell’accaduto avessero notificato le forze di polizia di una situazione da investigare, non vengono effettuati arresti. L’unica documentazione di cui, apparentemente, è in possesso la polizia locale, è la testimonianza di Gregory McMichael, ma solo in veste di testimone. Il report della polizia esce il 31 marzo. Pochi giorni dopo, curiosamente, la procuratrice generale di Brunswick Jackie Johnson si ritira dalle indagini, citando il precedente coinvolgimento di Gregory McMichael in attività legate all’ufficio della contea. Così anche il suo collega George Barnhill del distretto di Waycross, per i medesimi motivi. Quasi a voler evitare un conflitto d’interesse, la figura dei procuratori assume le sembianze di due ufficiali dello Stato alle prese con la dura realtà del mantenimento di onestà intellettuale di fronte a un caso complesso (anche alla luce del fatto che, una delle critiche più spesso rivolte ai procuratori, in questi casi, è proprio il collegamento tra ufficiali di polizia e i procuratori stessi: come faresti a giudicare senza pregiudizi una persona con cui lavori per anni?).
Succede, però, qualcosa di abbastanza peculiare per queste dispute. Qualcosa che, con ogni probabilità, nessuna delle persone coinvolte, dalla famiglia della vittima, alla famiglia degli uomini accusati, agli ufficiali del distretto di polizia di Brunswick, fino ai procuratori di città e contea, si aspettava sarebbe accaduto, specie con la portata e la diffusione istantanea che, forse, la permanenza sui social dovuta alla pandemia di moltissime persone ha abilitato ancora di più di quanto non sarebbe successo solo tre mesi fa. Esce un video, filmato da un tale William Bryan, il quale si trovava nell’abitacolo della sua macchina, quel giorno proprio dietro al furgoncino bianco della famiglia bianca di Gregory e Travis McMichael: un video integrale di trentasei secondi, abbastanza per vedere, nel pieno della sua estensione, un ragazzo nero impaurito, rincorso dal furgone, allertato da un colpo di pistola sparato da un luogo non identificato, che lo manca, che prova a difendersi contro un altro uomo (Travis) che gli viene addosso con un fucile carico e che gli spara due colpi, di cui uno fatale al costato, prima di collassare a terra senza vita.
Dobbiamo aspettare il cinque di maggio per questo video. Un video che cambia la storia delle indagini completamente, facendo venire fuori come, casualmente, due ufficiali di polizia avevano, pochi giorni dopo l’accaduto, denunciato la prima procuratrice consultata per il caso, Jackie Johnson, per aver provveduto a fermare l’arresto dei due sospettati, nonostante i poliziotti avessero fatto immediatamente presente quantomeno una buona ragione per portare Greg e Travis in dipartimento. “She shut them down.”, afferma il commissario Allen Booker del Georgia Bureau of Investigation, “…to protect her friend McMichael”. Inoltre, sembrerebbe che il secondo procuratore, Barnhill, che inizialmente aveva dipinto il caso come dello sfortunato esito di un confronto basato sulla legittima difesa da parte della famiglia McMichael, e che aveva affermato che “Arbery aveva detto inizio alle conflittualità” e “si trattava di un sospettato di invasione di domicilio”, fosse lo stesso Barnhill che, per due anni di fila, aveva provato a montare una causa legale contro la commissaria cittadina e attivista afroamericana Olivia Pearson, “colpevole” di “frode elettorale”, per aver mostrato a un’elettrice nera il corretto funzionamento di una macchina elettronica per il voto.
Il 7 di maggio, Gregory e Travis McMichael vengono arrestati. C’è tripudio e giubilo nell’aria, dalla Casa Bianca, che si dice soddisfatta di come stanno venendo condotte le indagini, fino al Partito Democratico dell’ormai conclamato candidato presidente Joe Biden, fino ancora a personaggi dello spettacolo e sportivi indignati per la morte di un ragazzo, la cui unica colpa sarebbe essere andato a correre in un quartiere dove la tinta nera della pelle è un bersaglio. Sembrerebbe che sarà fatta giustizia, e che sia il caso di tornare a casa trionfali, magari con una bella “marcia di protesta” organizzata da fasce liberali della politica statunitense (con tanto di hashtag accattivante: #Irunwithahmaud).
Ma sarebbe il sollievo di un momento: la violenza continua. È successo, succede, succederà.
C’è una fitta, storica rete di protezione che tutela chi commette queste violenze.
È un peso osservare dall’Italia questa brutale ingiustizia. Pensate quanto possa esserlo per i milioni di afroamericani che da secoli, ogni mese, devono svegliarsi impauriti, per poi diventare frustrati pochi attimi dopo. Frustrati dalle grandi manifestazioni, dalle litigate, dalle condanne morali e le mancate, reali, condanne giuridiche e strutturali di un sistema che si perpetua e sopravvive soltanto grazie alla loro fatica sul lavoro (e nelle carceri) e alla loro paura. Come alla fatica e alla paura di milioni di operai che, se volessero alzare la testa e rivendicare anche la minima protezione sindacale, ad esempio, rischierebbero di perdere anche quel poco che anno.
È un tour de force costante, brutale, meschino, non tanto per le violenze in se (basta parlare con un ragazzo o una ragazza nera per sentirselo dire), quanto per il circo che la situazione porta. La grande pagliacciata di un ricorso a una giustizia costruita ad hoc per far fallire i più esposti della società. Una giustizia corrotta ma perfettamente funzionale per il suo scopo: non condannare il problema reale, anche qualora, nei singoli episodi, vengano occasionalmente condannati i diretti interessati.
Mentre scrivo questo articolo, DeSean Reed, un giovane uomo afroamericano, muore sulle strade di Indianapolis per mano della polizia locale, il quarto caso in un mese di un civile che viene ucciso da quel dipartimento.
“Do you ever get that feeling of Deja Vù?”
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Ahmaud Arbery
Quanti ancora?
Luca Gieri
Nato a Toronto nel 1998, studente di scienze politiche all'Università di Bologna presso il campus di Forlì, militante della FIR e redattore della Voce delle Lotte. Cresciuto a Bologna, ha partecipato ai movimenti degli studenti e di lotta per la casa della città.