Uno dei “meriti” causati dalla crisi del Coronavirus è quello di aver sbattuto brutalmente in faccia a tanti intellettuali progressisti, che magari si vogliono “rivoluzionari”, come le loro categorie idealiste si scontrino frontalmente con il funzionamento reale del capitalismo e l’esistenza reale delle classi sociali, della classe operaia.
Saremmo disonesti se non riconoscessimo al coronavirus alcuni meriti. Oltre a disvelare, meglio di qualsiasi altro fenomeno, la vera natura del capitalismo contemporaneo (la sua disumanità, le gerarchie sociali, la competizione intercapitalistica, la crisi perenne del capitale, etc.), sta finalmente mostrando al mondo il pervicace dogmatismo di un certo pensiero teorico che, negli ultimi decenni, ha avuto l’ardire di autodefinirsi “militante” o, addirittura, “rivoluzionario”. Il riferimento è a tutta quella teoria critica che ha preteso di spiegare il mondo attraverso categorie-fuffa, cioè attraverso categorie svuotate del concreto, del materiale, e riempite di astrazione, di mito, di linguaggio, di segni..
Così, abbiamo assistito per anni all’avanzata di un esercito – composto di generali e soldati semplici – che ha progressivamente invaso i giornali e l’editoria di sinistra, il linguaggio politico e i siti web militanti. È ormai procedura standard spiegare tutto con la biopolitica, lo stato d’eccezione, la sovranità, il capitalismo cognitivo, l’evasione nell’altrove, l’intersezionalità, il reticolo di un potere invisibile e invincibile. Senza l’uso abbondante di queste parole d’ordine non si riesce a vincere neanche una stupida borsa di dottorato nelle istituzioni accademiche occidentali. Tale è diventata l’egemonia. Guai a portare il reale nel pensiero, guai a portare l’economia politica in scena. Scattano immediate le maledizioni se si osa nominare la classe lavoratrice, o se si usa il termine “capitalismo” al posto del “neoliberismo”. Parlare della produzione industriale capitalista equivale a offendere pesantemente le madri di alcuni.
Ecco, il coronavirus sta facendo piazza pulita di tutta questa spazzatura teorica che, come un virus, è riuscita per anni a paralizzare i cervelli di tanti compagni. Per esempio, ora che abbiamo compreso che l’ordine di stare a casa non valeva per tutti, perché milioni di operai nelle fabbriche sono stati costretti a continuare a produrre merci (essenziali e non), risulta chiaro sulle spalle di chi si regge l’intera baracca, o no? Si capisce o no, che il lavoro manuale esiste, che è dominante e che continua a essere la fonte del valore e plusvalore nel sistema capitalistico? È o non è evidente che il lavoro manuale di coloro che producono le merci non è separabile dalle loro conoscenze e che la fittizia separazione tra lavoro manuale e cognitivo è servita soltanto a separare i segmenti della classe lavoratrice e a spingere l’idea che lo sfruttamento nel capitalismo contemporaneo si fosse eliminato (perché, si diceva, nel lavoro cognitivo e digitale sopravviveva soltanto la cooperazione, eliminando la subordinazione e lo sfruttamento)? Andatelo a spiegare ai riders – che, come gli operai, sono costretti a lavorare in questi tempi di coronavirus – quanto sia cooperativa e orizzontale l’economia digitale.
E poi, pensate a quanto fa ridere oggi la biopolitica foucaultiana o agambeniana, fondata com’è sul concetto di corpo-organismo e corpo-specie della popolazione. Per Foucault, Agamben e i loro tristi epigoni, il “potere” (un potere assai generico e indefinito) regolerebbe e disciplinerebbe tutti i corpi allo stesso modo, avrebbe lo stesso impatto su chiunque, a prescindere dalla loro storia sociale e dal ruolo sociale. Ebbene, guardiamoli oggi i corpi sui quali si sta esercitando il potere disciplinante tramite decreto. Ciò che vediamo è che sui corpi degli operai si esercita un potere terribile e composito, che in parte è visibile e in parte invisibile: quello visibile è rappresentato dallo stato, quello invisibile è il capitale con le sue esigenze di accumulazione senza fine. Attenzione, invisibile fino a un certo punto, poiché tutti abbiamo letto del giubilo della Confindustria quando il governo ha deciso di costringere gli operai a continuare a produrre valore e plusvalore. I corpi degli operai, costretti da sempre a consumarsi nella produzione, sono ora anche costretti a infettarsi, o a rischiare l’infezione. Così come a pagare un prezzo altissimo sono i corpi dei lavoratori nella sanità: ormai più di duemila tra medici e infermieri. L’“homo sacer”, la vita uccidibile di cui ha scritto Agamben (facendoci una uallera così!), non è estratta a sorte, non è il caso a determinarlo o la sovranità cieca, ma le esigenze del capitale e dello stato, che da secoli continuano a non sbagliare i loro bersagli: le classi lavoratrici.
Senza l’economia politica, senza comprendere il funzionamento del capitale, senza mettere in campo la classe come categoria analitica, che cosa si può comprendere delle lavoratrici domestiche – che corrono oggi il rischio di infettarsi per andare al lavoro – mettendo in campo l’intersezionalità? La classe non è un’identità tra le altre, che sono ovviamente oppresse, la classe è una relazione sociale fondata sullo sfruttamento del lavoro e sulla consumazione dei corpi dei lavoratori.
Il coronavirus, esacerbando molte contraddizioni e squarciando molti veli teorici, costruiti e pompati ad arte negli ultimi decenni, ci ha reso più facile il dovere di dire la verità.
Melania Piccolo
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