La didattica a distanza (DaD), così come altri provvedimenti del governo Conte, è stata imposta e percepita come una misura “tecnica”, al di sopra di posizioni ideologiche e interessi di classe, e per cui “naturale” e non criticabile. Questo provvedimento così com’è, al contrario, è molto politico e si inserisce in un processo di ristrutturazione di lungo periodo (per non dire demolizione) della scuola. Proponiamo una riflessione articolata e puntuale di Ylenia, attivista di Non Una di Meno Marche, madre e impiegata nel mondo dell’istruzione, che vive in prima persona la realtà concreta della DaD.
La chiusura delle scuole è stata una delle prime limitazioni a carattere nazionale introdotta dalle direttive governative: un atto senza dubbio necessario, forse persino tardivo. Una limitazione che ha anticipato solo di pochi giorni il blocco di altri settori. La gestione dell’emergenza sta ulteriormente accentuando l’accesso differenziato ai servizi pubblici fondamentali. Basti pensare che si è messa in “quarantena” la scuola per limitare la propagazione del virus, affinché le persone bisognose di cure non affollassero un sistema sanitario nazionale strutturalmente sottodimensionato e impreparato a gestire questo evento. Si tratta di due comparti del welfare — la sanità e la scuola — che in questi ultimi venti anni sono stati oggetto di continui tagli, impoverimento qualitativo, seguito da ondate di privatizzazione. Quando parliamo dell’emergenza Covid–19 non dimentichiamoci che stiamo parlando prima di tutto della tenuta materiale del paese, dell’adeguatezza di istituzioni universali in grado di assicurare la continuità e la qualità di relazioni sociali fondamentali. Forse, se in queste ore ci scopriamo così fragili, così esposti al rischio, è perché questa emergenza ha solo svelato ciò che era visibile ad occhi più attenti anche prima, ovvero la debolezza di istituzioni plasmate negli anni dall’ideologia neoliberista. L’istruzione al tempo del Covid-19 ha cambiato completamente volto. Moltissimi cambiamenti che prima erano solo in nuce, ora stanno esplodendo e forse rimarranno anche dopo l’emergenza. Tuttavia, nella fretta dell’urgenza molti di questi cambiamenti si stanno accavallando senza darci il tempo di riflettere sulle loro implicazioni. Per questo è utile fermarsi a raccogliere le riflessioni di chi lavora nella scuola. È utile capire come questo cambiamento incide non solo sulle forme, ma sui tempi del lavoro di ognuno e ognuna di noi. Bisogna portare in superficie lo stato d’animo di chi lavora in queste condizioni. È fondamentale in questo momento interrogarci sulla consapevolezza diffusa rispetto agli strumenti che si stanno utilizzando. Infine, bisogna interrogarsi sul futuro e sull’eredità di questa emergenza nella scuola.
La crisi pandemica non ha, così, risparmiato neanche il mondo della scuola. In particolare, è emerso il tema della didattica a distanza che il Ministero e il dibattito mainstream hanno dipinto come soluzione alle difficoltà di questo momento.
Se è evidente che la tecnologia già consente di mantenere un contatto con gli studenti, l’accelerazione acritica del dibattito e dei provvedimenti di questi giorni è preoccupante. Sappiamo bene che durante qualunque emergenza vengono spesso adottate misure e innovazioni che sono poi destinate a rimanere nella quotidianità lavorativa e sociale, senza che ci sia stato nemmeno il tempo di vagliare le diverse opzioni in campo, né di discutere i provvedimenti. Ma proprio perché siamo in questa situazione, proprio perché l’emergenza non sarà breve e perché i provvedimenti continueranno a influire sul lavoro dei dicenti e delle docenti anche quando tutto sarà finito, occorre discuterne attentamente.
L’attività didattica in cui si è costretti in questa fase, ovvero il ricorso esclusivo alla tecnologia informatica, nel tentativo di coglierne e utilizzarne tutte le potenzialità positive, non può avere alcuna relazione con l’utilizzo delle medesime tecnologie in una situazione ordinaria, ossia in presenza, laddove esse si inseriscono all’interno di procedure di lavoro e contesti relazionali (di gruppo e individuali, tra docente e studente), che trasformano radicalmente la valenza degli strumenti utilizzati. Ci siamo talmente concentrati sulle forme di didattica online, sugli strumenti, sulle piattaforme, che rischiamo di dimenticarci delle persone, dei corpi materiali che permettono di costruire relazioni, senza i quali la didattica è impossibile, anche quando non è a distanza.
Il decreto
L’inquadramento proposto dal Miur è stato, prima, di sospendere la didattica per le scuole e le università e successivamente di chiuderle. Da quel momento tutta la didattica è passata sul canale virtuale ed è diventata didattica a distanza, la quale è stata prima imposta dai dirigenti ai docenti e alle docenti e solo successivamente ne è stato formalizzato l’obbligo attraverso un decreto. Va ricordato che il decreto in questione è un semplice DPCM, fonte giuridica di secondo grado, appena al di sopra di una circolare o di un atto amministrativo che, com’è noto, dal punto di vista formale del diritto, valgono zero. Il carattere incerto e arbitrario della situazione si è ulteriormente aggravato con le circolari ministeriali, emanate dopo il decreto. Questo stabilisce una sola cosa fondamentale: impone la DaD. Non è superfluo segnalarne il fondamento normativo. Nelle prime disposizioni urgenti si leggeva l’espressione “i dirigenti scolastici […] possono attivare, sentito il collegio docenti […] modalità di didattica a distanza”. Il DPCM del 4 marzo 2020 recita invece: “i dirigenti scolastici attivano modalità di didattica a distanza”. Un bel salto di qualità. Dalla possibilità si passa alla perentorietà, eliminando il coinvolgimento degli organi collegiali, che, da un punto di vista formale, sono gli unici titolari del sovrano potere deliberativo in termini di scelte didattiche. Va ricordato che fino a prima della sua attuazione, la didattica a distanza è stata espletata come un atto volontaristico degli insegnanti e che era stata imposta da dirigenti come se fosse un dovere giuridico o comunque morale, appoggiandosi a documenti senza alcuna forza cogente, a questo punto diventa un obbligo strutturale per i docenti e le docenti.
Inoltre, è importante ricordare che il decreto stabilisce che, l’approvazione o il parere del Comitato Consultivo per la Pubblica Istruzione è da rendersi in massimo sette giorni, dopo di che il Ministero si sente libero di decidere, indipendentemente dal parere. Questo conduce ad un importante accentramento di potere in capo al Ministero, il quale è in grado di agire in deroga alla normativa vigente. Si va in deroga anche per la definizione dell’inizio del prossimo anno scolastico, il quale potrebbe anche avere un periodo di recupero variabile da scuola a scuola e diversamente confutabile, in base alle situazioni che si verranno a delineare. È importante evidenziare che, come accade per tutto il resto del welfare in Italia, questo deve accadere senza maggiori oneri da parte dello Stato.
Fra gli altri silenzi di questo decreto va aggiunto che nulla si dice al di là dell’esame di Stato, (al quale sono tutti ammessi, e ci mancherebbe!). Nulla o poco si dice, in sostanza, sul passaggio all’anno successivo, quindi sulla promozione a fine anno scolastico. Viene citata invece, la possibilità di valutazione anche telematica per gli scrutini finali. In buona sostanza si andrà in deroga anche per questo. Quindi quello che ci si aspetta come scenario possibile è uno scrutinio finale in un panorama ancora da definire, ma telematico, esperito con gli strumenti tecnologici e informatici a disposizione di ciascun insegnante. Un silenzio assordante quindi sia sulla valutazione, che sulle sue modalità e non si fa menzione alcuna che la DaD debba essere valutata. Una sola cosa la Ministra l’ha detta a chiare lettere: quest’anno non saranno aggiornate le graduatorie, ossia le liste sulla base delle quali i docenti precari trovano lavoro nella scuola.
L’emergenza ha raggiunto un obiettivo che tutte le precedenti (e contestate) riforme della scuola avevano mancato: esautorare il collegio docenti dal ruolo sovrano sulle scelte didattiche e mostrare che le modalità di far lezione possono essere decise con decreti e disposizioni dei dirigenti scolastici. L’eliminazione della funzione degli organi collegiali durante l’emergenza, già previsto dal Dpcm del 4 marzo 2020 e dalla nota 279 dell’8 marzo 2020, rischia di assumere un carattere permanente con la figura del “preside-manager”, voluta da molti governi e forze politiche, ma che aveva incontrato forti resistenze all’interno della scuola. Soprattutto, si rischia che si instauri un clima da marcia dei “quarantamila”, in cui, con il pretesto di fare l’interesse generale, si demonizza l’idea stessa di divergenza di interessi e di conflitto.
Il sistema nato da questa corsa è ricco di falle, dovute solo in parte all’enorme squilibrio nelle possibilità di accesso alle risorse. In un contesto in cui l’emergenza è affrontata a botte di DPCM che bypassano gli organi assembleari, la struttura delle scuole diventa sempre più verticista.
Privacy, tracciabilità, controllo
“Le piattaforme che usiamo rispettano la privacy”, ripetono le istituzioni.
Non è vero e nel mondo il problema comincia a diventare chiaro. Le applicazioni che usiamo nei nostri cellulari o che scarichiamo sui nostri portatili tracciano i nostri percorsi, richiedono accesso ai nostri dati, creano dei profili a scopo commerciale che dovremmo cercare di evitare il più possibile. Non è possibile non essere tracciati del tutto, e per certi versi è un problema che trascende la scuola, ma che a proporre acriticamente tali strumenti sia un’istituzione come la scuola è grave.
La questione del controllo, sempre maggiore, rispetto all’attività dell’insegnamento ora rischia di esplodere: il dubbio è lecito se leggiamo l’indagine avviata dal ministero, sulla Didattica a distanza che si interroga sulle forme dell’insegnamento dell’emergenza, ex post, ossia senza che lo stesso Ministero abbia predisposto gli strumenti necessari.
Non avviene da ora: sono anni che la scuola paga per avere registri elettronici su cui i docenti hanno pochissima voce in capitolo. Durante questa emergenza, tuttavia, sta avvenendo un passaggio significativo. La ministra Azzolina in persona ha suggerito l’utilizzo dei servizi Google come strumento valido per la didattica a distanza. E così su Classroom si svolgono Collegi Docenti, su Drive si inseriscono i materiali, su Meet si fanno le videolezioni, ovviamente con account Google. Una multinazionale privata entra molecolarmente nella scuola, addirittura sponsorizzata dalle istituzioni. Tutto ciò è in linea con la progressiva privatizzazione della scuola. In questo caso, si ha a che fare con una privatizzazione soffice, implicita e non percepita, perché non è rapida e “molare”, non c’è uno scontro pubblico tra istanze (privatizzazione sì vs. privatizzazione no); è invece graduale e “molecolare”, avviene grazie all’infittirsi di reticoli fatti di piccole pratiche e automatismi quotidiani.
Appare evidente come il digitale vada qui ben al di là dello strumento utile per facilitare la didattica nella “normalità” e per far fronte al meglio nel corso di un’emergenza, ma assume i contorni di un’ideologia completamente estranea alle finalità della scuola. L’apprendimento online consentirà di accumulare dati senza precedenti su studenti e studentesse, trasformando scuole, università e corpo docente in accumulatori di algoritmi attraverso cui ricostruire il “profilo completo di performance” delle persone che si vogliono educare
Se passasse davvero una resa senza condizioni a questo processo di privatizzazione molecolare della scuola, ciò che da anni, finanziando progetti pilota detti “di eccellenza”, hanno fatto le Fondazioni Bancarie – cioè promuovere una didattica funzionale ad assecondare l’ordine del discorso dominante – decollerebbe in modo massiccio su tutto il territorio. Non è un’allarmistica esagerazione. È l’abbandono dell’uso pubblico della ragione a vantaggio dell’interesse privato. Tutto questo potrebbe avvenire senza annunci eclatanti, ma scuola per scuola, oggi con in testa l’elmetto dell’emergenza, domani cantando il peana dell’innovazione.
Ci sono strumenti, al contrario, che non sono proprietà di enti privati, che non traggono profitto dalla profilazione dei nostri dati. È necessario battersi perché vengano adottati a tutti i livelli dalla scuola.
In questo periodo stiamo vedendo in modo chiaro qual è il problema della privatizzazione in ogni settore, e in particolare nella sanità pubblica. Dobbiamo dircelo chiaramente e dobbiamo farlo ora: dare in mano ai privati la gestione dei settori pubblici è un problema serio che riguarda ciascuno.
La risposta straordinaria, tuttavia, non deve far confondere tale capacità di intervenire in urgenza con la soluzione di un processo educativo che non può esaurirsi nella trasmissione di contenuti attraverso il web: la scuola è un’aula e non un video. Si tratta di un principio fondamentale tanto per la scuola quanto per l’università, che non vive con minore disagio l’impossibilità di tenere lezioni ed esami in presenza.
Gli stessi insegnanti, molto meglio di chiunque altro, stanno denunciando i limiti dell’insegnamento a distanza, limiti peraltro già da tempo sottolineati dagli esperti di pedagogia e didattica. I difetti riscontrati da più parti sono tanti e appare utile qui ricordarli:
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L’insegnamento via web non consente di verificare con immediatezza la risposta degli studenti alla lezione e il loro grado di comprensione dei contenuti esposti.
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La distanza rende più difficile valutare la giusta distribuzione temporale delle fasi di insegnamento e apprendimento, anche per la ridotta interazione tra chi parla e chi ascolta.
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Si annullano, o almeno si riducono in modo significativo, la socializzazione e il lavoro di squadra, impedendo che la classe funzioni come modello di interazione virtuosa tra i ragazzi e tra generazioni diverse in un fecondo scambio e arricchimento reciproco.
Si riduce la fisicità dell’insegnamento, che non riguarda solo la gestualità con cui l’insegnante accompagna le spiegazioni, sottolineandone i punti salienti o legando gli argomenti a concrete emozioni, ma anche e soprattutto l’abilità manuale guidata fisicamente, che non può essere dimenticata nell’apprendimento della scrittura. Molti sono ormai gli studi che in tempi recenti hanno dimostrato quanto sia importante, per lo sviluppo delle capacità cognitive, conservare, nella scuola primaria, l’apprendimento della scrittura manuale, non disperdendola a favore di quella digitale.
I limiti della distanza non sono, però, soltanto di natura strettamente didattica. Un sistema di insegnamento, infatti, per il quale è indispensabile possedere strumentazioni adeguate, buone connessioni e stanze in cui potersi concentrare, discrimina vistosamente i più svantaggiati né può servire una sia pur meritevole distribuzione di tablet alle famiglie più povere: senza genitori in grado di affiancare lo sforzo dei docenti, senza libri nelle case, senza spazi adeguati il problema non si risolve.
Gli aspetti negativi di una didattica a distanza non riguardano ovviamente l’uso sapiente delle tecnologie informatiche nell’istruzione, la possibilità di integrare l’insegnamento con le risorse del web, che hanno dato e continueranno a dare un contributo di grandissima efficacia.
L’accesso alle risorse
In maniera analoga al campo della sanità – fatti i dovuti distinguo – anche nella scuola la deregulation, il taglio delle risorse, l’autonomia, il decentramento degli ultimi 30 anni hanno determinato una situazione estremamente disomogenea. Ciascun istituto, a seconda delle condizioni del proprio territorio e delle risorse a disposizione, ha reagito a suo modo componendo un quadro di radicale frammentazione che investe sia la didattica (ogni scuola, ogni classe, addirittura ogni docente ha fatto per sé), sia la situazione contrattuale.
Partendo da un’autoinchiesta sulle modalità didattiche in questo periodo di emergenza, è importante confrontarsi sulla vastissima frammentarietà dello scenario che abbiamo davanti e su alcuni discorsi che lo caratterizzano. Si possono individuare alcuni nodi critici rispetto ai quali non si hanno finora delle soluzioni, ma su cui è necessario e urgente un confronto.
La tecnologia non annulla le condizioni materiali in cui viviamo e le risorse cui possiamo accedere. Fin dai primi giorni di questa emergenza è stato evidente che non tutti (né nel corpo docente né all’interno delle classi) avevano libero accesso alla connessione online: avere un computer è diverso dall’avere un cellulare, avere la connessione tutto il giorno è diverso dall’averla per poche ore, usare la linea di casa è diverso dall’utilizzare i dati di un abbonamento. Il problema va poi riportato ad una differenza tra le diverse aree del Paese, caratterizzato da forti divisioni ed uguaglianze al suo interno.
Queste problematiche non sono relative solo alle classi, ma allo stesso corpo docente: la persona costretta a casa spesso deve condividere il computer con i vari conviventi. Non dimentichiamoci a questo proposito che chi svolge il lavoro riproduttivo in casa, e quindi quasi sempre le donne, viene costretto a ritagliarsi delle pause per svolgere la didattica a distanza, rendendo la sovrapposizione degli ambienti casa-lavoro ancora più faticosa da gestire.
Senza un ragionamento sulle possibilità di accesso alle risorse siamo inevitabilmente destinati ad aumentare le disuguaglianze che già esistono, tanto a scuola come nel resto della società.
“Aiutiamoli a casa loro”
Rispetto agli studenti e alle studentesse più deboli, la ministra ha suggerito l’uso di piattaforme dal sito del Miur, ma senza relazioni quelle piattaforme sono inutili. Per il resto la ministra ha fornito vaghe indicazioni sul non lasciare indietro nessuno, ma senza stanziare le risorse necessarie: il personale di sostegno non è stato aumentato, i corsi di italiano per stranieri – forse con la sola eccezione dei CPIA (Centri per l’Istruzione Adulti), in cui i corsi L2 hanno un peso importante – si sono interrotti, educatrici ed educatori vivono nell’inferno della relazione con la loro cooperativa. I soggetti con maggiori necessità sono stati abbandonati.
In questo caso, il sistema su cui si sta impostando la didattica a distanza è già sbagliato: quando parliamo di disabilità/difficoltà di apprendimento e DaD dovremmo riflettere sul fatto che l’inclusione non si realizza solo fornendo tablet e pc (cosa tra l’altro fondamentale), ma con un ripensamento globale del modo di fare scuola. Questo genere di riflessione, nella concitazione dell’emergenza, non è ancora avvenuto, ma è in tutta evidenza necessaria. In queste settimane ogni insegnante di sostegno si sta arrangiando come può, cercando con creatività e dedizione canali comunicativi per tenere tutti dentro. Bene la creatività, bene la dedizione, ma senza un intervento sistemico che coinvolga famiglie, servizi socio-sanitari, servizi educativi, l’inclusione con la DaD non sarà del tutto raggiungibile e potrebbe essere perfino controproducente.
La situazione non è migliore per le persone da poco arrivate in Italia (NAI, nella neolingua ministeriale), per le quali il rischio di abbandono scolastico è sempre alto.
Anche in questo caso gli sforzi si moltiplicano: insegnanti di italiano si stanno re-inventando insegnanti di italiano L2, aumentando, di conseguenza, il loro orario lavorativo, i contatti docente-studente si moltiplicano «purché non si perda quanto di buono fatto». Ma senza un’immersione nel contesto linguistico, la persona vive una difficoltà quasi insormontabile. La didattica a distanza diventa quindi un elemento che facilita l’esclusione.
Ancora una volta, questi casi sono i nodi irrisolti della scuola. Metterli al centro della progettazione didattica dovrebbe essere dovere di ogni docente, soprattutto in questo momento. Ma capita che la società in cui siamo immersi tuoni dall’altra parte degli schermi facendo sentire le sue ideologie.
L’età
Si può chiedere ad una bambina di 6 anni di accedere alla sua lezione di italiano online allo stesso modo con cui lo si chiede a una ragazza di 16? Si può chiedere a una docente di seconda elementare di preparare una lezione online allo stesso modo con cui lo si chiede a una professoressa di quinta superiore?
Se la didattica online non può mai dirsi sostitutiva di una didattica in presenza, questo diventa ancor più evidente per le bambine e i bambini più piccoli. Da un lato mancano ai più piccoli le competenze per comprendere le istruzioni scritte e per utilizzare programmi informatici. Dall’altro manca al corpo docente la formazione su quali programmi utilizzare e quale materiale adeguato trovare in rete. Per bambine e bambini delle elementari deve esserci sempre una persona adulta anche come tutela da un uso improprio del mezzo e della rete. Una bambina di otto anni, oltre a essere separata dalla sua classe, cioè il contesto sociale in cui ha l’opportunità di sperimentare relazioni e autonomia, si ritrova così dipendente più che mai dagli adulti e sempre condizionata dalla loro presenza nell’apprendere e nel comunicare con il mondo.
La scuola è la loro socialità: a partire dall’asilo, è il primo luogo di palestra sociale.
I bambini che vivono in famiglie povere sono spesso in condizioni che rendono difficile, se non impossibile, la scuola da casa. In Italia gli ultimi dati ISTAT disponibili indicano che il 42% dei minori vive una condizione di sovraffollamento delle proprie abitazioni e il 7% di bambini e adolescenti è vittima di un grave disagio abitativo (anche di abuso). È in queste case, con famiglie in condizioni economiche ulteriormente peggiorate, che i bambini e gli adolescenti cercano uno spazio per studiare e concentrarsi.
Venti medici e pediatri hanno sottoscritto una lettera aperta che è stata diffusa ai media e che si rivolge ai governanti che stanno adottando le decisioni per la gestione della “Fase 2”. Si legge nell’appello:
«Pesanti implicazioni sociali a causa della protratta chiusura della scuola. (…) La crisi sanitaria rischia di diventare crisi dei diritti dei minori».
L’UNICEF, l’OMS e molti enti di ricerca e associazioni professionali hanno sottolineato l’importanza della collaborazione multidisciplinare (ad es. settore sanitario, istruzione, prevenzione e servizi sociali) per garantire che le esigenze dei bambini e di quelli che di loro si prendono cura siano affrontate nel loro complesso, in quanto sempre più forte è la certezza di esporli a un danno tangibile e importante con le scuole chiuse e per tempi lunghi. La cosiddetta “Fase 2” durerà molto probabilmente fino a quando un vaccino sarà disponibile e distribuito a un numero sufficiente di persone per costruire una buona immunità dell’intera comunità. Occorre trovare un punto di equilibrio diverso tra il rischio di aumentare il numero di casi COVID-19 e la limitazione dei diritti dei bambini. L’assenza di un piano globale che consideri e monitori le diverse conseguenze avverse per i bambini suggerisce che tali danni sono sottovalutati e che forse, più in generale, i diritti dei bambini non sono oggetto di adeguata attenzione.
Soggetti-oggetti
Tutti questi punti si intrecciano con un problema molto più radicato. Se l’alunna o l’alunno non hanno una buona consapevolezza degli strumenti, la didattica online diventa uno strumento che rende passivo il soggetto, che così diventa solo un numero connesso. Formarsi e formare le persone per evitare che ciò accada è condizione necessaria affinché qualsiasi forma di didattica online sia possibile.
Inoltre, ciò che stiamo apprendendo in questo periodo è che la maggior parte delle persone “native digitali”, in realtà, non sa usare gli strumenti telematici in maniera appropriata. Spesso pure mandare email o creare un account risulta loro un compito difficile.
Non occorre dare per scontato che la competenza del corpo docente sia maggiore. Basta trovarsi in una delle chat usate da genitori di alunni per sapere benissimo che le competenze diffuse non sono neanche lontanamente adeguate alla situazione in cui ci troviamo, e che si impiega molto tempo per apprendere il corretto funzionamento di registri e piattaforme.
È chiaro che in questa mancanza di competenza generale la governance diventa sempre più verticista: l’insegnante si impone sulla classe; la dirigenza si impone sul corpo docente a botte di circolari. Tanto tutto si fa di fretta, poi si vede.
Le materie
È bellissimo avere una schermata che illustra le nostre classi, gli argomenti trattati, le risposte della classe ai compiti. Ma la scuola non può essere una dispensa in cui le diverse discipline sono inserite nell’apposito scompartimento. Non basta svolgere un compito, un’attività, per poter affermare di aver sviluppato una competenza. Il meccanismo dei crediti esce rafforzato da quest’emergenza, fornendo l’illusione che per procedere nell’insegnamento (e nell’apprendimento) basti spuntare una casella corrispondente alle attività svolte a distanza.
Il processo di apprendimento prevede un confronto tra le discipline e la capacità di sviluppare collegamenti e ha bisogno di un tempo non misurabile per maturare. Senza contare che nella forma didattica online diverse materie sono svantaggiate (musica, educazione fisica, le attività laboratoriali…) perché poggiano sulla compresenza fisica di più persone o sull’accesso a determinati strumenti di uso non comune. Queste discipline non sono isolate rispetto al resto del percorso, ma andrebbero integrate nel percorso scolastico complessivo.
La relazione
Bisogna dirlo in modo chiaro: l’attività scolastica passa necessariamente dalla relazione. L’empatia e le emozioni giocano un ruolo centrale e le forme della didattica online impongono filtri inaggirabili in questo ambito. Ciò non vuol dire che non sia possibile stabilire forme di relazione attraverso gli strumenti online. Attraverso chat, video lezioni, mail, persino attraverso i compiti e le loro correzioni possiamo avere relazioni, ma queste diventano ancora più opache e rarefatte rispetto al solito. Con un basso livello di consapevolezza dell’uso degli strumenti, lo scambio che normalmente avviene nella didattica, già di per sé problematico e sfaccettato, è impossibile da raggiungere.
La valutazione
“Non do valutazioni perché poi da casa copiano”, oppure “Se non mi mandano i compiti do valutazione negativa”: questa polarizzazione del discorso, molto frequente in questi giorni, è del tutto fuorviante. Prima di scaricare la propria frustrazione a danno di alunni incolpevoli rispetto allo stato della scuola e alla pandemia, gli insegnanti dovrebbero riflettere sul senso di dare valutazioni nel momento in cui le relazioni sono sospese nel limbo dell’emergenza. Occorre invece tenere a mente che la scuola non è una fuga verso un numero che definisce chi sei e quali sono le tue capacità: premiare le persone che studiano di più – o che, spesso più prosaicamente, riescono meglio nella performance dei compiti in classe e delle interrogazioni – è una forma di meritocrazia molto problematica, in quanto isola le persone prescindendo dal contesto in cui sono inserite. Il rischio è di incoraggiare, una volta di più, una competitività dannosa che stabilisce chi sono i buoni e i cattivi, chi bisogna salvare, chi è perso.
Occorre rendersi conto che la valutazione così intesa, è diventato lo strumento con cui si sostengono o condannano comportamenti in maniera del tutto aleatoria. Noi stessi, le scuole di cui facciamo parte, siamo costantemente sottoposti a valutazione, a prescindere dalle condizioni in cui viviamo. In questo momento conviene fare diversi passi indietro: parliamo dei metodi, del rapporto educativo in sé, parliamo di come svolgere la didattica senza farci prendere dall’ansia di mettere un numero sul registro. Ciò che ci stiamo giocando va molto al di là della valutazione in sé.
Da diverso tempo, così, la scuola si è infilata in un vicolo cieco ideologico che fa della valutazione il suo perno: proprio per questo va ricordato che la valutazione non è il fine della didattica. Ed è quantomeno fallace pensare che il processo educativo debba essere inserito in una logica pseudo-meritocratica che prescinde dall’ambiente educativo e di apprendimento, dove gli standard sono stabiliti a priori e giocano su un sistema di competenze preconfezionate che comportano crediti o debiti; questo stesso lessico economico, bancario imposto alla scuola ci fa chiedere: quando Marx parlava del processo di sussunzione del capitale sui processi sociali a esso pre-esistenti, forse sbagliava?
Lavorare sempre di più
Ciò che sta avvenendo con la didattica online, in realtà era già visibile da molto tempo in più settori: i lavori che svolgiamo stanno via via occupando sempre più tempo e non c’è alcun confine tra il lavoro e la vita.
Facciamo attenzione: non siamo un caso unico, al contrario. Buona parte delle attività lavorative prevede uno sforamento nella nostra vita privata: chi lavora come freelance conosce queste problematiche da molti anni e la propria prestazione o per rimanere al passo. Chiunque si prepara meglio, svolge corsi per migliorare la propria prestazione o per rimanere al passo, viene chiamato a qualsiasi ora per chiarire un dubbio sul lavoro. Chiunque dedica tempo ad apprendere strumenti informatici. Questa cosa si chiama lavoro.
Il salto che sta avvenendo è l’istituzionalizzazione, la normalizzazione di questa modalità.
Le basi per questo cambiamento ci sono già, la didattica online è già stata sperimentata. Le scuole serali prevedono che si possa fruire a distanza della didattica di una parte del periodo scolastico in misura non superiore del 20% del totale (dpr 263/2012) con l’alibi della personalizzazione didattica e dello sviluppo di competenze digitali. Il risultato è (per lo meno secondo l’esperienza di molti insegnanti) che al docente è richiesto di erogare il 20% di didattica in più, cioè oltre le ore contrattuali per le quali veniva assunto e pagato.
Con le scuole chiuse fino a settembre o magari anche oltre, se con l’avvio della “fase 2” i contagi riprenderanno, a pagare saranno soprattutto le donne. È inaccettabile scaricare sulle donne e sui minori, il peso di una crisi.
Perché sono soprattutto le donne che rischiano di dover restare a casa rinunciando al lavoro per gestire i figli molto più spesso di quanto non accada ai padri, che spesso continuano a guadagnare più delle mogli per il gender gap sugli stipendi, Non è più possibile continuare ad ignorare il senso di angoscia e di spavento da parte delle madri, che da febbraio gestiscono una situazione che se non trova a breve una soluzione adeguata determinerà una fuoriuscita definitiva dal mondo del lavoro delle donne e produrrà gravissimi effetti sui minori. Non c’è quindi solo il problema dell’abbandono scolastico dei figli, ma anche quello della fuoriuscita definitiva dal mondo del lavoro di tante madri che mediamente hanno situazioni occupazionali più precarie dei padri e che, dopo mesi di stallo, potrebbero non riuscire più a ricollocarsi nei rispettivi ambiti professionali. Quando sentiamo parlare di riapertura e ripresa delle attività lavorative e non delle scuole, viene da sospettare che il retropensiero sia proprio questo: in fondo siamo un paese in cui una donna su due non ha un impiego o fa lavori saltuari…dunque le madri possono prendersi cura dei figli e restare disoccupate; alle altre basterà dare un buono-babysitter. Settembre è veramente lontano e il problema non è solo quello – già grave – di non perdere nel frattempo per strada i più deboli, ma anche di recuperare la dimensione dell’apprendimento collettivo, la condivisione, e tutto ciò che costituisce la vita scolastica, senza la quale i ragazzi e le ragazze sono inevitabilmente demotivati e impoveriti.
Quello che si deve pretendere con forza è:
_Messa in sesto di tutte le scuole, con interventi immediati sull’edilizia scolastica per garantire almeno la loro riapertura a settembre.
_Bloccare qualsiasi finanziamento alla scuola privata, utilizzare questi e tutti i fondi necessari per l’aumento degli spazi richiesti dal distanziamento sociale.
_Adottare provvedimenti specifici ed urgenti per le famiglie con figli diversamente abili, perché non siano ancora una volta e ancora di più gli esclusi, gli invisibili della scuola.
_Programmare la fase estiva dell’offerta formativa di modo che essa non generi, specie a fronte della dinamica della crisi pandemica, situazioni di difficoltà per le famiglie e in particolare per le madri lavoratrici, che non devono trovarsi a scegliere tra lavoro e figli.
_Coprire tutte le cattedre con immissioni in ruolo a tempo indeterminato con proporzioni che eliminino le classi pollario, e garantire a ogni istituto un organico sufficiente a coprire tutte le sue esigenze. Internalizzare i servizi.
_Garantire il full time per i collaboratori scolastici ex Lsu internalizzati ed il riconoscimento giuridico del servizio prestato nelle ditte e coop in appalto.
_Cancellare immediatamente la legge 107 “Buona Scuola”.
Ylenia G.
Laureata in psicologia clinica e di comunità, con specializzazione nel metodo Montessori, educatrice, attivista di Non Una di Meno transterritoriale Marche. Vive a Recanati (MC).