Gli Stati Uniti sono in fiamme. Il brutale omicidio razziale di George Floyd è stato il fattore scatenante di una ribellione su scala nazionale che ha colto di sorpresa la classe dominante. Questo sfogo di rabbia popolare ha aperto una nuova situazione politica nel cuore del capitalismo. E irradia la sua influenza in un mondo in crisi per la pandemia del Coronavirus. Le mobilitazioni antirazziste a Parigi, Berlino, Londra e altre città sono state i primi echi di questa ondata di shock.


Tutto è successo in un crescendo vertiginoso. Il 25 maggio, George Floyd, un uomo afroamericano di 46 anni che aveva perso il lavoro a causa della crisi del Coronavirus, è stato arrestato da quattro poliziotti bianchi a Minneapolis, presumibilmente per aver fatto un pagamento con 20 dollari falsi. Uno di loro, Derek Chauvin, lo ha soffocato con il ginocchio per quasi nove minuti mentre i suoi compagni lo guardavano.

Queste immagini di razzismo esplicito e intollerabile, replicate ad nauseam sui social network e sugli schermi, hanno acceso la rabbia popolare, riattivato il movimento Black Lives Matter e spinto una folla multietnica e intergenerazionale nelle strade, con giovani afroamericani, latini e bianchi in prima linea. Anche se l’AFL-CIO [maggiore sindicato statunitense, ndt] non si è mobilitata – e ha ancora nella sua organizzazione i sindacati di polizia che servono a proteggere la polizia violenta e razzista – ci sono stati segnali più che incoraggianti, come l’esempio degli autisti di autobus di New York che si sono rifiutati di trasportare gli arrestati.

Trump e i Democratici avevano comprato la pace sociale nel bel mezzo della pandemia con un pacchetto di stimolo di 2.000 miliardi di dollari che, mentre serviva soprattutto a salvare i capitalisti – da cui la vivacità di Wall Street nonostante il Coronavirus – una parte era destinata ad aumentare gli assegni di disoccupazione e a distribuire assegni fino a 1.200 dollari a chi aveva un reddito inferiore ai 75.000 dollari all’anno. Ma la situazione è esplosa da un’altra parte.

Le ultime parole di Floyd – “Non riesco a respirare” – sono diventate la bandiera di un movimento di protesta di massa, che diventava sempre più massiccio ogni giorno che passava e la repressione statale. Centinaia di migliaia di persone hanno manifestato in quasi tutte le città degli Stati Uniti, con diversi gradi di violenza e di radicalismo.

Il presidente ha fatto appello alla polarizzazione e alla repressione con un discorso di “legge e ordine”, e questo è stato di per sé un elemento di radicalizzazione. Trump ha agito da provocatore di fronte alle mobilitazioni e ha gettato parecchia benzina sul fuoco. Ha chiamato i manifestanti “teppisti”. Ha twittato come nulla fosse “se inizia il saccheggio, inizia la sparatoria”, una frase di Walter Headley, il capo razzista della polizia di Miami negli anni ’60, che aveva dichiarato guerra ai quartieri afroamericani come filosofia di approccio al movimento per i diritti civili. Ma gli sfoghi razzisti del presidente non possono assolvere l’intera classe dominante. I governatori e i sindaci democratici, a partire da Minnesota, Minneapolis e New York, hanno dato un giro di vite, imposto il coprifuoco e richiamato l’odiata Guardia Nazionale.

Ci sono voluti più di sette giorni e sette notti di lotta prima che la giustizia decidesse di fare concessioni anche minime – compreso la formulazione delle accuse contro Derek Chauvin e il suo arresto insieme ai suoi complici.

Il processo è profondo e non coinvolge solo chi si mobilita. Secondo un sondaggio della Reuters dei primi di giugno, una maggioranza del 64% della popolazione USA sostiene le mobilitazioni, e il 55% disapprova la linea dura di Trump per sedare le proteste. Ciò è in parte dovuto al fatto che la brutalità della polizia, le condizioni di innesco e la crisi sociale colpiscono anche i bianchi poveri.

Questa alleanza tra sfruttati, oppressi e giovani che si esprime nelle strade e nell’opinione pubblica maggioritaria, indica il legame indissolubile tra razzismo e capitalismo che è all’origine dello Stato americano. Questa non è una rivolta come le altre. Ci troviamo di fronte all’emergere di un evento di dimensioni storiche, le cui conseguenze politiche non si limiteranno al modo in cui il movimento si concluderà, nemmeno a un cambiamento di segno politico alla Casa Bianca a novembre, ma dovranno essere misurate a medio e lungo termine.

 

1968-2020

“Senza razzismo non c’è capitalismo”, è uno slogan che può riassumere il pensiero Malcolm X a metà degli anni Sessanta. Aveva ragione. In effetti, il razzismo è iscritto nel DNA del capitalismo americano e del suo Stato. Dopo oltre 50 anni nel movimento per i diritti civili, e dopo due mandati di Barack Obama, il primo presidente afroamericano della storia, la situazione strutturale non è cambiata sostanzialmente. La comunità afroamericana continua ad essere oggetto della più oscena oppressione: essendo una minoranza del 13% della popolazione, rappresenta il 33% della popolazione carceraria e ha i peggiori tassi di povertà, disoccupazione e marginalità. Ma in certi frangenti, le statistiche smettono di essere numeri freddi e diventano forze sociali e lotte di strada.

I crimini razzisti commessi dalla polizia – e il loro insabbiamento da parte dei tribunali – sono comuni nella misura in cui vengono considerati come cause di morte insieme al cancro o agli incidenti stradali. Secondo uno studio del 2019, statisticamente un maschio adulto afroamericano su mille può essere ucciso dalla polizia. Questo alimenta proteste violente in forme più o meno ricorrenti. Uno dei focolai più emblematici è stata la rivolta della città di Los Angeles del 1992 per l’assoluzione dei poliziotti che avevano brutalmente picchiato Rodney King. Quella rivolta durò sei giorni e lasciò 60 morti, ma non riuscì a rompere l’assedio locale né a cambiare l’oscillazione politica di destra nel bel mezzo del boom neoliberale, che si manifestò con l’arrivo dei Clinton alla leadership democratica e alla Casa Bianca. Più vicine nel tempo le manifestazioni per gli omicidi di Eric Garner e Michael Brown nel 2014 che hanno dato vita al movimento Black Lives Matter. Ma per trovare un’analogia con una protesta di analoga profondità e ampiezza nazionale, bisogna tornare indietro di 52 anni all’estate calda del 1967 e all’ondata di manifestazioni che seguirono l’assassinio di Martin Luther King nell’aprile del 1968. In quegli anni inebrianti, preceduti dagli assassinii di J.F. Kennedy e Malcolm X, il movimento per i diritti civili si stava sincronizzando con una gioventù che stava radicalizzando il movimento contro la guerra in Vietnam.

Qualsiasi analogia storica è imperfetta, ma nelle loro differenze aiuta a capire il momento presente. La ribellione in corso non è una creazione ex nihilo. È la precipitazione di processi che si sono accumulati negli ultimi anni e che sono stati aggravati dalle conseguenze sociali ed economiche della pandemia di Coronavirus, che ha trovato nel crimine di Floyd un punto di svolta.

Oggi non esiste un equivalente della guerra del Vietnam, anche se gli effetti del Coronavirus e la depressione economica indotta hanno agito come acceleratori. Ci sono altri fattori critici: i fallimenti delle guerre in Afghanistan e in Iraq hanno avuto l’effetto di accelerare il declino egemonico dell’America nel mondo e di rendere le avventure militari altamente impopolari per ampie fasce della popolazione americana. Il presidente Trump è al suo peggio. E così è la posizione degli Stati Uniti di guidare il mondo capitalista, al punto che Richard Haass, uno degli ideologi della politica estera imperialista, considera questo il “momento più pericoloso” dalla fine della guerra fredda, con l’emergere della Cina, in misura minore la Russia e le altre potenze che sfidano il dominio degli Stati Uniti. Si sovrappongono crisi congiunturali – sanitarie, economiche e politiche – alle tendenze più generali della crisi organica che ha aperto la Grande Recessione del 2008, che ha portato Trump alla Casa Bianca. Queste tendenze alla polarizzazione sociale e politica, la divisione della classe dirigente e dell’apparato statale, e il declino della leadership statunitense nel mondo, sono state approfondite dall’orientamento protezionista e unilateralista di Trump e stanno mettendo in discussione il suo progetto di rielezione.

 

Tra gli argini riformisti e la radicalizzazione

Il movimento di protesta ha aperto una crisi di grande portata nel governo e ha messo a nudo le fratture nella classe dirigente e nell’apparato statale. Trump ha minacciato di inviare l’esercito per sopprimere le mobilitazioni, ma è stato respinto dal capo del Pentagono Mark Esper, che ha rifiutato categoricamente questa possibilità. Diversi leader del Partito Repubblicano che stanno abbandonando l’esperimento Trump hanno fatto lo stesso.

Le elezioni presidenziali di novembre aggiungono tensione alla scena politica. Possono essere un’opportunità per la diversione e il contenimento, ma anche per l’intensificazione della polarizzazione.

La rielezione di Trump appare difficile nel contesto della pandemia, con oltre 100.000 morti, almeno 21 milioni di disoccupati (anche se 43 milioni hanno chiesto l’assicurazione contro la disoccupazione dall’inizio della pandemia), una contrazione del 4,8% dell’economia nel primo trimestre dell’anno e ora protesta. Dopo i giorni peggiori della sua presidenza, Trump ha ricevuto la prima buona notizia degli ultimi mesi: il tasso di disoccupazione di maggio si è attestato al 13,3%, in calo rispetto al 14,7% della misurazione di aprile e ben lontano dal 20% previsto dalla maggior parte degli economisti. Ma questo significa comunque un aumento di 10 punti a partire da marzo. Inoltre, la misurazione non tiene conto di coloro che sono costretti a lavorare a tempo parziale o non sono più in cerca di lavoro, il che porterebbe il tasso al 21,2%. Trump sta ancora governando catastrofe e la ripresa rimane un’ipotesi. La sua campagna potrebbe assomigliare a quella del 2016, basata sull’esacerbazione della polarizzazione e sull’esaltazione di “America First”, incentrata sull’ostilità verso la Cina, e su un discorso di “legge e ordine” per galvanizzare la sua base elettorale più dura e fare appello ai settori più conservatori della destra repubblicana. Come hanno sostenuto diversi analisti, cerca di ripetere l’elezione di Nixon del 1968, che faceva appello alla paura del caos della maggioranza silenziosa conservatrice. Ma a differenza di Nixon, che era stato in un limbo politico e ha criticato la leadership democratica dall’esterno, Trump è stato presidente per quattro anni.

Di fronte alla forza della mobilitazione, i settori centrali della borghesia stanno provando la tattica della cooptazione, cercando di appropriarsi delle richieste per riorientare il movimento dalla strada alle urne e ai canali istituzionali.

Il responsabile dell’organizzazione di questa “operazione di contenimento” è stato l’ex presidente Barack Obama, che rappresenta il volto più amichevole dell’establishment democratico. In una nota pubblica, Obama ha aperto un dialogo con i manifestanti, invitandoli a trasformare le proteste in uno tsunami di voti per il Partito Democratico che avrebbe spazzato via i repubblicani non solo dalla Casa Bianca ma anche dalle camere del Congresso, dai governatorati e dalle legislature locali. Dalla Casa Bianca e in un cambio di potere politico a tutti i livelli per attuare una riforma della polizia e della giustizia.

Il funerale di George Floyd ha messo in scena questa sorta di “unità nazionale” di fronte all’inversione della tendenza all’azione diretta, che comprende sia i Democratici e i Repubblicani – come Obama e George W. Bush – sia i grandi media aziendali. Il Washington Post, di proprietà del miliardario Jeff Bezos, è uno dei portavoce di questa “pseudo-rivoluzione passiva” che è stata messa in moto. Nel suo editoriale del 5 giugno, sostiene che il razzismo non è stato risolto dalla Proclamazione di Emancipazione del 1863, dagli Atti sui diritti civili del 1964, o dall’elezione di Barack Obama nel 2008, e chiede un programma di riforma e la sconfitta di Trump alle prossime elezioni.

Il Partito Democratico è chiamato a svolgere il suo ruolo storico di strumento della classe dirigente per eccellenza per passivare i movimenti sociali e incorporarli nel metabolismo del regime borghese imperialista. Il problema è che il loro candidato, Joe Biden, è un vecchio politico dell’establishment con diversi scheletri nell’armadio. Questo non significa che l’argomento del “male minore” per evitare un altro mandato di Trump non possa finire per dare la vittoria a Biden. Ma una cosa è vincere un’elezione e un’altra è governare.

Come si vede, c’è molto margine per la politica borghese per evitare uno scenario di ulteriore radicalizzazione, ma il risultato è ancora aperto. La strategia “riparatrice” di una presunta “normalità” pre-Trump è molto mal sintonizzata con l’evidente richiesta di profondi cambiamenti che si sta manifestando nella svolta a sinistra di ampi settori della gioventù, che vedono il socialismo meglio del capitalismo e che sono stati alla base del fenomeno Bernie Sanders nel 2016 e nel 2020, in questo caso con l’espansione della coalizione elettorale a settori significativi di latino-americani e afroamericani. È una generazione che non crede più nel “sogno americano”, anche perché la sua breve esperienza di vita è segnata da due crisi capitalistiche di portata storica: quella del 2008 e la pandemia del Coronavirus.

Questo cambiamento di situazione si è espresso anche in una crescente tendenza alla lotta di classe, che nel 2019 ha raggiunto il livello più alto degli ultimi decenni con gli scioperi del settore automobili e degli insegnanti. Questa tendenza è continuata anche nel bel mezzo della pandemia con le lotte dei lavoratori precari “essenziali” per le misure sanitarie.

La frustrazione con Sanders, che è passato dal promettere una “rivoluzione politica” al sostenere Biden (e prima ancora Hillary Clinton) e la strategia fallita dei DSA (Democratic Socialist of America), il partito che ha attratto migliaia di giovani tra le sue fila ma che ha agito come stampella Partito Democratico, rende urgente e concreto concludere che è necessario un vero e proprio terzo partito della classe operaia e dei settori oppressi, uno che possa organizzare consapevolmente la lotta contro il razzismo, il capitalismo e lo stato imperialista statunitense, e che miri a combattere per il socialismo. Di per sé, questo fenomeno politico farebbe pendere la bilancia a favore degli sfruttati a livello internazionale.

 

Claudia Cinatti

Traduzione da Ideas de Izquierda

Dirigente del PTS argentino. Scrive sulla rivista online Ideas de Izquierda e nella sezione Internazionale di La Izquierda Diario.