Nell’ambito della nostra campagna “Giovani e studenti:una guerra alla precarietà”, riportiamo di seguito un’intervista fatta ad Ilaria, studentessa universitaria iscritta al Cdl di infermieristica de “La Sapienza “ di Roma e lavoratrice precaria della sanità, militante della corrente femminista “Il pane e le rose”, sulle condizioni di lavoro e di studio nel settore all’indomani della crisi pandemica.


Ilaria, durante la crisi pandemica, gli studenti delle professioni sanitarie sono stati oggetto di numerose discussioni rispetto al ruolo che occupano nel sistema sanitario italiano. Ma quali sono le condizioni a cui sono costretti i futuri professionisti della sanità nel loro percorso di formazione?

La familiarità con il concetto di precarietà, per noi studenti, inizia molto presto , partendo , ad esempio, dalle conseguenze che ha il sistema a numero chiuso e dei test d’ingresso. In migliaia, ogni anno, concorrono per occupare i pochi posti che sono messi a disposizione da ogni ateneo, pronti, se necessario, a trasferirsi in un’altra città pur di avere maggiori possibilità di farcela. Dall’inizio, dunque, uno studente fuori sede proveniente da una famiglia con possibilità economiche limitate, dovrà mettere in conto la necessità di lavorare per un minimo di tre anni (tempo previsto per completare il percorso di studi) per garantirsi la possibilità di sopravvivere fuori dalla casa dei propri genitori. Ovviamente agli studenti vengono riservati i lavori più massacranti e con le minori tutele possibili. Diventiamo camerieri, baristi, fattorini, badanti, baby sitter, riders. In una giornata in cui sono previste sei ore di lezione, sei ore di tirocinio e una media di otto ore di lavoro, lo spazio vitale per uno studente si riduce all’osso. A tutto ciò, ovviamente si aggiunge il discorso della casa. Le zone appena adiacenti ai policlinici universitari e alle facoltà diventano inavvicinabili, le stanze per gli studenti vengono fittate a cifre insostenibili, spesso a nero. Se hai i soldi puoi comodamente vivere vicino all’ospedale in cui fai tirocinio. Se non ce li hai, ti tocca cercare casa lontano, nelle zone periferiche. Dovrai mettere in conto il tempo dello spostamento ogni giorno il costo del biglietto e, ovviamente, la sottrazione di ulteriore tempo al sonno e al resto delle necessità.
Questi sono solo alcuni degli esempi che si possono fare. Potremmo parlare degli studenti pendolari costretti a muoversi ogni giorno in treni o autobus fatiscenti che non garantiscono un servizio efficiente oppure potremmo parlare delle mense universitarie che hanno prezzi da bistrot del centro storico.
Il sistema scolastico e universitario italiano ha tante carenze, ma una cosa te la insegna bene: se sei povero, se sei figlio di nessuno, ti tocca fare i conti con una vita precaria e massacrante, nascosta dietro la retorica del “sacrificio necessario”.

In questo scenario di precarietà crescente, come si configurano i tirocini universitari?

Il tirocinio altro non è che lavoro gratuito. Ogni anno siamo tenuti a prestare servizio ,per un numero variabile di ore, nei reparti che ci vengono assegnati. In totale, per tutti e tre gli anni, parliamo di circa 1800 ore. Sono equivalenti a circa dodici mesi di lavoro di un infermiere dipendente senza ferie che in media guadagnerebbe 26.400 euro lordi l’anno. Quando iniziamo il turno in reparto dobbiamo essere disponibili a tutto, anche alle mansioni che non competono alla figura professionale che ambiamo a ricoprire. Lo studente è sottoposto alla valutazione di un futuro collega senza contare tutto ciò che contorna le ore di tirocinio che svolge, diventando poi, molto facilmente, la valvola di sfogo dei problemi che quotidianamente insorgono in un reparto ospedaliero, carente di presidi adeguati, strumentazioni e personale necessario. Siamo lanciati, per necessità, in situazioni a cui non siamo preparati adeguatamente e che impariamo a gestire con la pratica e con il terrore di arrecare danno nel tentativo di imparare.
È la solita corsa a cui ci obbliga il sistema (fintamente) meritocratico: bisogna competere, strafare, massacrarsi per diventare un giorno il migliore dei precari.
Noi studenti, per lavorare gratuitamente e per colmare le carenze di un sistema sanitario al collasso che non assume il personale necessario, paghiamo per i tre anni di studio, una media di 5.000 euro di tasse universitarie. Ma le spese da sostenere per il solo studio all’università (tralasciando tutto il computo riguardo le spese necessarie per vivere, raggiungere le sedi e per mangiare), non si limitano alle sole tasse universitarie. Mediamente uno studente spende nel corso dei tre anni circa 250 euro per acquistare le divise e le scarpe necessarie al tirocinio, perché lo studente è un lavoratore invisibilizzato e non viene sostenuto dall’azienda ospedaliera in cui presta servizio. Si aggiungono circa 150 euro per il materiale accessorio necessario. Se parliamo dei libri di testo, poi, le spese diventano esorbitanti: circa 3000 euro per i manuali necessari al percorso di studio.
In questo scenario, nemmeno il lavoro precario che uno studente può affiancare al suo percorso universitario, è bastevole a soddisfare le necessità che pone questo sistema, lasciando gli studenti schiacciati da un sistema classista che in modo opportunistico sfrutta la formazione dei giovani e al contempo accresce la loro insicurezza nei confronti del futuro
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Quali sono le reali opportunità di lavoro una volta concluso il percorso di studi?

Il grande paradosso del nostro sistema sanitario è che, nonostante giorno dopo giorno diventino sempre più palesi gli effetti di anni ed anni di tagli ai fondi e alle assunzioni, le università che formano i futuri professionisti, pur essendo a numero chiuso e quindi pur producendo un numero massimo determinato di laureati ogni anno, sono totalmente scollegate dal mondo del lavoro.
Piuttosto che ragionare su un piano di assunzione immediato dei giovani laureati , assolutamente necessario a colmare la mancanza di decine di migliaia di professionisti del settore nell’organico del sistema sanitario nazionale, si preferisce mantenere una certa continuità nello sfruttamento. Dopo i tre anni di “sacrificio necessario”, un giovane laureato ha due scelte : iniziare a lavorare come precario assunto con contratti-farsa da una delle migliaia di cooperative private che si inseriscono all’interno della sanità pubblica, o aspettare tempi infiniti in attesa di un bando di concorso che preveda l’assunzione di poche decine di unità per cui concorreranno migliaia di laureati, arrivando mediamente ad un rapporto di circa 2000:1.

Per quanto riguarda il lavoro in cooperativa, la situazione è la seguente: che sia nel servizio di emergenza extraospedaliera (es. ambulanze), in reparto o in cliniche private, al giovane lavoratore sarà riconosciuta una retribuzione quasi sempre più bassa (e nemmeno di poco) rispetto a quella di un collega assunto direttamente dal servizio sanitario nazionale. Questa rappresenta una forma di estremo risparmio per lo stato che delega l’assunzione di professionisti al privato disinteressandosi delle condizioni in cui riverserà il lavoratore, non si preoccupa di finanziare la sanità pubblica e migliorarne la qualità ma soprattutto ne promuove di fatto la privatizzazione. Per un lavoratore assunto in cooperativa, le condizioni sono pessime e le tutele quasi inesistenti. Parliamo di contratti a tempo determinato, perennemente sotto il ricatto dei datori di lavoro. Non vengono rispettate le ore massime di lavoro giornaliero concesso dai ccnl, l’alternanza tra giorni di lavoro e giorni di riposo, il diritto alle ferie e alla malattia. Per il lavoro in ambulanza la situazione diventa anche peggiore: non sono rari i casi in cui al lavoratore venga chiesto di attivare una partita iva per figurare come libero professionista (anche se nella sostanza è un lavoratore dipendente), o che lo si faccia risultare come volontario per trasformare lo stipendio in un misero rimborso spese che può arrivare anche a 40-50 euro per un turno da dodici ore. Questo accade perché il sistema sanitario delega ad associazioni e cooperative private la gestione di una enorme fetta del servizio di emergenza extraospedaliera lavandosi le mani della qualità del servizio e dello sfruttamento dei lavoratori che ne deriva. Per quanto riguarda i concorsi pubblici, la situazione non cambia di molto. Per circa un decennio le assunzioni nel sistema sanitario pubblico sono rimaste bloccate, generando una classe di lavoratori dipendenti e ancora in servizio sempre più anziani e logorati dagli anni di lavoro che si portano sulle spalle. Negli ultimi due anni , per sopperire al pensionamento di un gran numero di lavoratori si sono attivati alcuni concorsi che però, hanno messo in luce la corruzione che gravita attorno alle assunzioni nel settore pubblico. Ci sono state vere e proprie forme di compravendita dei posti messi a concorso ad opera delle burocrazie sindacali corrotte, mostrando anche in questo caso l’inefficienza e il classismo di un sistema al collasso che si ostina a spacciarsi per meritocratico. L’emergenza sanitaria da covid-19 e la sua gestione non lasciano dubbi: il sistema sanitario, in linea con i principi della società capitalista in cui si inserisce, si fonda su sfruttamento, classismo, corruzione, privatizzazione e soprattutto profitto, garantendo le ricchezze e le tutele di pochi a discapito della vita dei lavoratori e degli utenti più poveri.

Qual è il legame tra la lotta degli studenti e quella dei lavoratori in un settore in cui lo sfruttamento è la linea di congiunzione tra il mondo dell’università e quello del lavoro?

Il legame tra il mondo dell’università e il mondo del lavoro è estremamente forte e riconoscibile. Un infermiere è stato uno studente ed uno studente sarà un infermiere. Il legame delle lotte, dunque, non può essere da meno. In una società in cui non a tutti è data la possibilità di studiare, non a tutti sarà data la possibilità di avere un lavoro dignitoso; rivendicare l’abrogazione dei test d’ingresso che promuovono classismo e corruzione è necessario per garantire l’accesso alla formazione indipendentemente dalle capacità economiche, ed una preparazione adeguata per accedere al mondo del lavoro. Bisogna rivendicare, nel mondo dell’università così come nella sanità, l’esclusione di tutte le strutture private che siano esse di tipo scolastico, strutture ospedaliere o cooperative: non possono esistere studenti, lavoratori e utenti di serie a o di serie b. È il momento , piuttosto di finanziare il sistema pubblico, gli ospedali, i centri di ricerca e le università; la crisi sanitaria ci ha mostrato senza mezze misure le conseguenze della macelleria sociale capitalista, il classismo nella gestione della crisi e gli effetti della devastazione del sistema universitario e sanitario. È necessario rivendicare che l’università sia gratuita, così come gli appartamenti per gli studenti, le mense e i libri di testo, perché non esistano “sacrifici necessari” che precarizzino le vite dei giovani, che li impoveriscano rendendoli poi più ricattabili nel momento in cui dovranno trovare lavoro. Bisogna rivendicare la retribuzione dei tirocini universitari in conformità con i ccnl; l’università deve essere il luogo in cui si apprendono conoscenze e non il posto in cui si impara a sopravvivere allo sfruttamento e alla precarietà. È fondamentale pretendere un piano di assunzione nella sanità pubblica per i neo laureati affinché si sottraggano i giovani al ricatto delle cooperative e si colmino le carenze strutturali di un sistema al collasso.
In un sistema in cui lo sfruttamento di molti serve al profitto di pochi, è necessario tenere presente che nulla che possa interrompere la catena del profitto, sarà concesso. È perciò necessario che si rinforzino i legami tra il movimento studentesco e i lavoratori per minare le fondamenta di un’oppressione sistemica. Nel mondo moltissimi giovani, donne, lavoratori, soggettività razzializzate stanno lottando contro lo stesso nemico che esprime la ferocia della sua oppressione ogni giorno. Lottare contro questo sistema significa rifiutare la rassegnazione con cui ci impongono di vivere lo sfruttamento e la precarietà. Lottare contro questo sistema marcio è necessario per riappropriarsi del proprio futuro e della propria vita.


Ci hanno abituati a non avere niente, ma noi dobbiamo volere tutto.

Nata a Napoli nel 1993. Laureata in infermieristica all'Università "La Sapienza" di Roma, lavora nella sanità nella capitale.. È tra le fondatrici della corrente femminista rivoluzionaria "Il pane e le rose".