La profonda crisi dei vecchi partiti della sinistra “socialdemocratica”, con quelli scandinavi in prima fila, si incarna anche attraverso la risposta perbenista e censoria del “politicamente corretto” di fronte a fenomeni sociali complessi che rivelano le contraddizioni di questi stessi partiti.
I vecchi partiti della (ex) sinistra, europea e non solo, vivono per molti aspetti un’agonia nonostante si siano generalmente riciclati in un corso neoliberale “di sinistra” rompendo molti paletti e legami operai e “popolari” che in passato li avevano caratterizzati. Un aspetto ideologico significativo di questo loro stato è l’appello al “politicamente corretto”: un trattamento perbenista e di fatto censorio dei fenomeni sociali complessi e contraddittori, ridotti e analizzati attraverso categorie “usuali”, proposte come quasi senza tempo, naturali. Il paradigma del politicamente corretto “progressista” cerca di rendere governabile e spuntato una società che, con le sue asperità, non può che far emergere le contraddizioni dei partiti che a parole promuovono la causa di un progresso “universale” e “inclusivo”, salvo poi essere spesso i migliori esecutori delle più severe politiche capitaliste.
Se è vero che il “privato” è politico (e in un mondo sempre più “collegato” questo è ancora più vero), mi sembra opportuno cominciare da un esempio “privato” del politicamente corretto. A tale scopo prenderò in esame la mia esperienza come immigrato che vive da alcuni anni all’interno della società svedese.
In certi ambienti “progressisti” si è fatto strada negli ultimi anni il divieto di giudicare qualsiasi scelta dell’individuo e della massa-di-individui. In parole povere qualsiasi desiderio dell’individuo è sacrosanto e posto al di sopra del dibattito della società civile, del diritto di critica.
Questo ha implicato una rimozione, e una vera e proprio censura, di una eventuale “genealogia del desiderio”, cioè una impossibilità di mettere in discussione l’origine di (ma anche solo di “contestualizzare”) ogni desiderio e volontà. In Svezia la regola della scelta individuale è elevata a imperativo categorico. Se sei grasso nessuno, nemmeno gli amici stretti o parenti, possono suggerirti di dimagrire e pretendere cos’è meglio per te. Se vuoi
essere una donna, in teoria puoi svegliarti al mattino e decidere di vivere il sesso femminile (il che è anche un’offesa a coloro che invece intraprendono percorsi di transizione in maniera più complessa e consapevole). Questa “accusa” che muovo non è una mia interpretazione banalizzante, ma una banalizzazione operata dagli stessi attivisti. Non da tutti, chiaramente. Ma certamente da una parte di quegli attivisti che non solo non ha un’agenda anti-capitalista, ma non riesce a superare, anche solo sul piano meramente teoretico, l’orizzonte individuale e accetta, pertanto, con entusiasmo la cooptazione della critica alle norme di genere da parte del pensiero dominante – in Svezia rappresentato dal Partito-Stato socialdemocrazia.
Un altro punto che si potrebbe discutere è certamente quello della censura cinematografica: prima dell’estate, il mondo è venuto a sapere che Via col vento è stato rimosso da HBO per via della rappresentazione (razzista) che dà di personaggi di colore. Ritenere che, per un film uscito nel 1939 (nell’America pre-Black Lives Matter e Martin Luther King), ciò sia motivo sufficiente per essere censurato, dimostra un’assenza di senso della Storia. Questo “vuoto”, peraltro, non sorprende in una cultura post-umanista (di cui il nuovo corso neopositivista del capitalismo si fa promotore)1: se infatti l’essere umano, e qui non lo intendo in senso metafisico ma come soggetto storico, non è più al centro, ma è invece la tecnica a predominare, anche il senso della Storia svanisce con esso. La Storia ”evapora” con lo svanire dell’essere umano come artefice del vivere comune, la Storia svanisce con l’evaporare del protagonismo della classe operaia nella Storia stessa. Questo atteggiamento di censura rivela inoltre un’assenza di “fede” nello spettatore, una sua deresponsabilizzazione e infantilizzazione (su questa caratteristica del ”politically correct” ritorno ala fine dell’articolo vedi punto 3).
Tuttavia, approfondimenti su queste due “variazioni sul tema” sarebbero troppi prolissi e ci porterebbero ben al di là del tema dell’articolo, il cui scopo principale non è criticare il politicamente corretto nell’arte cinematografica, ma cogliere una nozione più politica e generale del politicamente corretto, al di là delle sue manifestazioni specifiche. Inviterei ora il lettore a ritornare sul principio del divieto di giudicare qualsiasi scelta individuale.
Il neo-idealismo socialcostruttivista alla svedese
Se si prova a mettere in discussione questo principio non scritto che regola tutti i rapporti interpersonali, si viene esclusi e si è costretti a vivere come emarginati. In un recente podcast radiofonico, la ricercatrice in Pedagogia Lotta Björkman ha, inconsciamente, sintetizzato questa regola: “Ciò che conta è utilizzare il nome giusto, utilizzare il pronome giusto, riconoscere l’individuo così come vuole essere riconosciuto”. Il dibattito verteva sul ”normkritik”, un concetto di moda all’interno del mainstream svedese e che si nutre di una impostazione apertamente anti-materialista e socialcostruttivista: ciò che Björkman intendeva, infatti, è che lo strumento più efficiente per cambiare la realtà è il linguaggio.
All’obiezione mossa dal giornalista tedesco Steinfield (l’unico accademico non-svedese invitato alla trasmissione) secondo cui questo modo di pensare è ingenuo e fallimentare, Björkman non ha saputo rispondere. La domanda interessante a questo punto sarebbe cercare di comprendere come e perché la convinzione espressa da Björkman, cioè l’idea che si debbano voltare le spalle alla materia per darsi alla fede del linguaggio, sia diventata dominante in tutti i circoli, accademici e non, della sinistra occidentale (riformista e, in alcuni casi, persino pseudomarxista).
All’interno del dibattito giornalistico e culturale svedese, sia fuori che dentro il mondo accademico, posizioni alternative a una qualche versione del social-costruttivismo non trovano normalmente spazio. Al contempo, sembra che, nella percezione comune, l’unica alternativa a questo modo di porre le questioni sia la “vecchia scuola” dei ”neonazisti” di SD che difendono il patriarcato e i vecchi ruoli di genere. L’intero dibattito è appiattito dunque su posizioni liberal-riformiste che sono praticamente condivise e date per scontate dall’intero arco politico, dalla sinistra riformista di Vänsterpartiet al centro-destra liberal-conservatore, passando ovviamente per il carrozzone socialdemocratico. L’unica eccezione è rappresentata da SD che però, essendo un partito reazionario, muove una critica nostalgica da destra e cioè una critica basata sulla rivendicazione dei “vecchi” schemi di sfruttamento e sottomissione.
Individualismo e razzismo
Il principio della sacralità dell’individuo non vale solo per i temi relativi all’identità di genere e al femminismo, ma anche per il dibattito sul razzismo. Per rimanere nel recinto del criticabile, la critica al razzismo può essere mossa purché si rimanga sul piano identitario. Di più, e questa ritengo sia una peculiarità della Svezia rispetto agli altri paesi occidentali, razzismo, fascismo e patriarcato all’interno del discorso politico svedese non sono semplicemente criticabili, ma devono essere criticati. Esiste cioè un investimento ideologico della classe dominante su questi temi. Questa critica, però, come ogni volta in cui la borghesia fa un “investimento ideologico”, deve avvenire con i mezzi, le modalità e gli strumenti teorici messi a disposizione dal pensiero dominante, cioè appunto, dal pensiero borghese stesso e, pertanto, come già detto, deve rimanere una critica sul piano meramente identitario. Questo stato dell’arte, a mio parere, è estremamente rappresentativo di quello che è il “politically correct” in Svezia e di ciò che potrebbe diventare e sta diventando (in primis in USA) anche nel resto dell’Occidente. La Svezia è infatti spesso stata un laboratorio della “sinistra” liberal (che, a mio parere, non ha più senso chiamare ”socialdemocratica” non avendo più nulla né di ”sociale” né, in un certo senso, di ”democratico”).
Illustrerò ora due fatti empirici che a mio parere mostrano cosa significa che “il politicamente corretto è il singhiozzo di una sinistra in crisi”.
1. Recentemente il ministro della difesa svedese ha deciso di aumentare le spese militari al fine di ampliare le forze a disposizione in caso di attacco: questa mossa potrebbe essere un ammiccamento a Biden il quale, secondo alcuni esperti, continuerà a chiedere all’Europa l’aumento delle spese militari.
Le fermate degli autobus sono tappezzate di manifesti pubblicitari. Nessuno di questi rappresenta il classico militare bianco (questo a dispetto del fatto che la maggior parte dei membri dell’Arma svedese siano ancora uomini bianchi svedesi). Alcuni manifesti non presentano alcun volto, ma solo slogan. Altri contengono rappresentazioni non-stereotipate di donne o di persone ”queer” accompagnate da messaggi propagandistici circa il bisogno di infoltire le fila dell’esercito per proteggere la nazione. La differenza tra un reazionario di estrema destra e una persona “di sinistra” in questo contesto è dunque tra coloro che vorrebbero solo gli uomini nell’Arma e coloro che vorrebbero tutti. Il “progresso” che il politicamente corretto vuole portare avanti è una inclusione a tutti i costi nell’apparato repressivo-militare statale, cercando di stroncare, di negare a monte una critica radicale dell’esistente.
2. Ultimamente in Svezia il dibattito politico è stato polarizzato dal partito reazionario SD e dal partito liberal-conservatore Moderaterna, i quali sono riusciti a incrementare la loro popolarità nei sondaggi grazie alle speculazioni sul legame tra criminalità e immigrazione.
Per quanto percepiti distanti, sia SD che i socialdemocratici hanno un punto in comune: entrambi vogliono conservare il sistema welfaristico svedese. Tuttavia, SD, a differenza dei socialdemocratici, riesce a vincere i dibattiti in parlamento perché riesce a dare una spiegazione del perché il welfare sia in crisi e del perché l’intera nazione, a loro dire, stia degenerando: ovviamente la spiegazione è quella dell’immigrazione incontrollata.
Al tempo stesso, i socialdemocratici sono incapaci (oppure coscientemente restii) di fare qualsiasi analisi che dia conto del perché il welfare sia in crisi. Alle accuse di Åkesson (il capo del partito reazionario), il primo ministro socialdemocratico balbetta.
Questa parte di analisi non rivela solo la pochezza della socialdemocrazia e la crisi ideologica del suo riformismo (a causa della quale le destre escono vittoriose), ma anche un potenziale risvolto del “politically correct”: i socialdemocratici, infatti, tendono a negare che certe periferie abbiano problemi con la criminalità, lasciando la palla alla destra e alle sue ”interpretazioni” e speculazioni. La negazione dei problemi reali della società civile si presta alla difesa a tutti i costi del “brand” immacolato della Svezia “politicamente corretta”: a pagare il conto delle contraddizioni dei “socialdemocratici” è così la classe lavoratrice, insieme in particolare agli immigrati.
Se il partito socialdemocratico fosse un altro partito, un’organizzazione operaia dotata di una teoria marxista rivoluzionaria, come dovrebbe rispondere a SD (e cioè alla destra reazionaria) in parlamento? Ritengo che proprio in virtù della forza teorica del suo “pensiero forte” una simile organizzazione non avrebbe timore di riconoscere che nelle periferie c’è un problema di criminalità, per poi spiegare che, a differenza di quanto dicano le destre, la “criminalità” non ha etnia né religione e non è
inscritta in nessuna cultura o DNA. L’organizzazione in gang violente è invece il diretto risultato della disperazione e della miseria in cui proletari (e sottoproletari) sono costretti a vivere a causa degli stessi (le destre, appunto, per conto dei padroni) che prima gli tolgono il pane e poi vogliono bastonarli se cercano di riprenderselo.
Per dirlo in altre parole, la mentalità dei Socialdemocratici, se applicata in contesti come quello italiano, ad esempio, è la stessa di coloro che negherebbero l’esistenza della Camorra in Campania pur di salvare, di facciata, l’economia e il turismo.
3. Durante il corteo Black Lives Matter lo scorso giugno a Gothenburg, alcuni negozi di lusso erano stati danneggiati. Anche se nessuno ha osato dirlo apertamente, è innegabile che chi c’era e ha visto, ma anche solo chi ha studiato i video, avrà notato che a esprimere la rabbia di piazza in quell’occasione, come accade in ogni vero corteo degli oppressi e degli sfruttati, non erano certo ragazzi bianchi e borghesi del centro città.
I media mainstream svedesi, difficile dire fino a che punto l’abbiano fatto consapevolmente o no, si adoperarono in fretta per far sì che l’attenzione venisse dirottata dalle ragioni di quella rabbia (e del perché fossero, guarda caso, proletari di periferia, perlopiù immigrati i protagonisti) alla ricerca dell’”immigrato buono” da opporre all’”immigrato cattivo” (leggi qui per approfondimenti sulla vicenda).
È vero che ammettere ciò che, fino a prova contraria, corrisponde al vero, e cioè che coloro che spaccarono le vetrine erano perlopiù immigrati di periferia, comporta il rischio di facili strumentalizzazioni, ad esempio, da parte delle destre e dei razzisti, ma al tempo stesso rimuovere un dato che rappresenta un parte della verità preclude la possibilità di una analisi politica più corretta e più completa: se per la destra le vetrine valgono più della miseria delle vite umane, e per la sinistra ”riformista” i problemi non ci sono oppure si possono risolvere cambiando una virgola, i marxisti non dovrebbero aver paura di dichiarare che quelli che hanno spaccato le vetrine hanno espresso una rabbia giusta, che la loro miseria vale più delle vetrine e che essa è dovuta all’oppressione della classe dominante, oppressione moltiplicata dalla loro condizioni di emigrati.
4. Avevo scritto poc’anzi di una “infantilizzazione” e de-responsabilizzazione di certi gruppi. L’obiettivo, di fatti, è proprio assoggettare (per quanto possibile) i gruppi in questione (di solito minoranze) al pensiero dominante e, nel caso in cui, ciò non fosse possibile, fare di tutto per ignorare la loro stessa esistenza. In questo senso il “politically correct” è l’opposto dell’idea che le classi oppresse debbano e possano auto-organizzarsi, auto-rappresentarsi e divenire protagonisti della Storia.
Un esempio dell’infantilizzazione e de-responsabilizzazione è quello del modo in cui il governo svedese interpretò lo scorso marzo 2020 un dato che mostrava che tra i morti per Covid nella regione di Stoccolma moltissimi appartenevano alla comunità somala.
Come avevamo già segnalato, in quell’occasione il governo finse di prendere a cuore questo dato e affermò che è per mancanza di conoscenza della lingua svedese e quindi carenza di informazione circa la pericolosità del virus e gli atteggiamenti di distanziamento sociale da adottare, che la comunità somala fu colpita più degli autoctoni (l’organo filogovernativo Dagens Nyheter gli fece da eco). In realtà, come avevamo già segnalato, era soprattutto la crisi degli alloggi ciò che aveva fatto sì che nei quartieri proletari si morisse di più. Il governo, però, mancando della volontà politica di ledere gli interessi dei capitalisti al fine di risolvere il grande problema degli alloggi da un lato, e non potendo giocarsi troppo apertamente la carta razzista della cultura inferiore dall’altro lato, si è giocato la carta “politically correct” della formalità linguistica: “ci scusiamo per il disagio, da ora in poi investiremo più soldi in traduzioni”. Ancora una volta, è da notare l’enfasi sul linguaggio come motore dei cambiamenti, la stessa che emerge dal modus pensandi della Björkman, nominata prima.
Soluzioni vere e radicali ai problemi delle masse esistono. Ma questo può essere compreso solo con le armi del marxismo, perché le soluzioni di cui scrivo sono inevitabilmente socialiste e anticapitaliste. Una volta adottato quest’orizzonte politico, il “politicamente corretto” apparirà come il sintomo che si manifesta quando si è impotenti di fronte a dilemmi generati dall’assenza di un armamentario teorico. Il vuoto teorico, infatti, è assenza di possibilità di rinnovamento della prassi, la quale è, in altre parole, cecità di fronte a ciò che potrebbe essere fatto.
Matteo Iammarrone
Note
1. Al fine di comprendere come e perché il filone di ricerca analitico, ad esempio, dominante nei paesi anglo-sassoni e in Scandinavia manchi di “senso della Storia” e in che senso questo filone di ricerca sia espressione del neopositivismo che denuncio, vedi: De Libera, A. (2016), L’archéologie philosophique, Vrin: Paris.
Nato a Torremaggiore, in Puglia, nel 1995, si è laureato in filosofia all'Università di Bologna. Dopo un master all'Università di Gothenburg (in Svezia), ha ottenuto un dottorato nella stessa città dove tuttora vive, fa ricerca e scrive come corrispondente de La Voce delle lotte.