Durante la crisi dovuta alla gestione della pandemia da Coronavirus centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici precarie hanno perso il proprio lavoro, l’utilizzo massivo di contratti a tempo determinato ha permesso alle aziende di aggirare il blocco dei licenziamenti.

Quali sono le motivazioni che spingono le aziende a servirsi tanto spesso di contratti precari? Quali le rivendicazioni da portare avanti per combattere tale pratica? Quali le lotte che hanno ottenuto risultati nell’ultimo anno?


Precari, nero e falsi indipendenti: cosa dicono i dati

Secondo i dati Istat più recenti, quindi quelli relativi al terzo trimestre dell’anno 2020, i lavoratori dipendenti in Italia sono 17 milioni e 779mila, di questi 2 milioni e 744 mila sono assunti con contratti a tempo determinato: sono, insomma, precari e stagionali. Le percentuali, che non andremo comunque ad analizzare in profondità in questo articolo se non in alcuni casi specifici, utili a comprendere alcune questioni, parlano di una percentuale di precari rispetto alla totalità di lavoratori più bassa nelle regioni del nord e più alta man mano che ci si avvicina al Mezzogiorno o se si prendono in considerazione i lavoratori immigrati (20% contro il 14% dei lavoratori autoctoni).

C’è comunque da considerare che in questi dati non sono conteggiati i milioni di lavoratori dipendenti assunti a nero (secondo le stime Istat qualcosa come due milioni e settecentomila lavoratori) che subiscono una precarietà lavorativa e esistenziale terrificante, ovviamente, non potendo contare su nessun tipo di contratto ed essendo esposti più di tutti gli altri alla possibilità di perdere l’impiego in qualsiasi momento. Come pure non sono considerati precari i lavoratori “indipendenti” o della gig economy, altri centinaia di migliaia (219.000 secondo i dati dell’anno passato) che risultano indipendenti pur senza esserlo di fatto, sottoposti a paghe spesso collegate al cottimo (come i riders, per intenderci: più consegni, più guadagni) e condizioni di lavoro ferocemente precarie e instabili. Si parla insomma di diversi milioni di proletari giovani e meno giovani, che non contano su nessun tipo di stabilità lavorativa e quindi di vita.

 

Contratti precari: abbassare il costo del lavoro e colpire i diritti

I contratti precari e, come abbiamo visto, interinali, falsi autonomi, lavoro nero, hanno il primo immediato riflesso di colpire la stabilità economica dei lavoratori, delle lavoratrici e delle loro famiglie. Ma quali sono le motivazioni che spingono le aziende ad utilizzare tali mezzi, formalmente leciti o illeciti che siano? Ne esistono senza dubbio due, una più immediata e riscontrabile nell’abbassare il costo del lavoro e massimizzare i profitti (quindi un motivo

economico), un altro meno visibile ma assolutamente centrale per le aziende che potrebbe definirsi del tutto politico.

Il mercato ovviamente segue delle oscillazioni che in diversi settori sono ampiamente prevedibili; la possibilità per le aziende di assumere un’eccedenza di forza lavoro solo in determinati periodi è una modalità per non avere mai un “eccesso” di forza lavoro, mantenendo quindi i ritmi alti anche quando c’è una fase congiunturale “di stanca”. Un esempio su tutti può essere facilmente riscontrabile nel settore della logistica e trasporto merci che, nel periodo natalizio (circa tre mesi a fine anno, ottobre, novembre e dicembre) vede la quantità di merce smistata moltiplicarsi rispetto ai mesi precedenti. In questi tre mesi si utilizzano lavoratori con contratti precari o assunti con contratti interinali (o nelle situazioni più estreme anche lavoratori senza contratto). A gennaio, con il calo fisiologico dei colli da movimentare, l’eccedenza di lavoratori verrà espulsa dal ciclo produttivo senza nessun rischio né problematica particolare per le aziende. È palese a chiunque che, se un’azienda dovesse assumere a tempo indeterminato tutti i lavoratori che servirebbero nel momento di maggior mole di lavoro (nell’esempio preso in considerazione il trimestre ottobre-novembre-dicembre), nel resto dei mesi i carichi di lavoro si ridurrebbero drasticamente per tutti i magazzinieri, essendo il numero di lavoratori fisso e il volume di merce movimentata inferiore. Ora, è chiaro e facilmente documentabile da ogni organizzazione sindacale, che l’oscillazione del mercato del lavoro invoglia le aziende ad assumere una parte della propria forza lavoro con contratti a tempo determinato: questo accade infatti, anche perché un lavoratore o una lavoratrice a tempo determinato si sentono meno stabili e sicuri e sono quindi maggiormente ricattabili.

Cosa comporta una maggiore ricattabilità? Sicuramente la possibilità di assegnare al suddetto lavoratore o lavoratrice carichi di lavoro eccessivi, turni e orari più scomodi, una maggiore flessibilità generale. Anche qui un dato su tutti fa luce su questa problematica: nonostante la parzialità e la difficoltà nell’elaborare stime se non precise almeno tendenti alla realtà, il numero di lavoratori precari sindacalizzati è enormemente più basso di quelli assunti a tempo indeterminato. Evidentemente l’essere lavoratori a tempo determinato riduce sui grandi numeri la possibilità che ci si sindacalizzi e quindi che si diventi maggiormente consapevoli delle proprie problematiche.

Che la stabilità dei lavoratori sia considerata un pericolo e non certo una risorsa dalle aziende, comunque, è anche facilmente riscontrabile nella riforma del Jobs Act e nello smantellamento dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che rendono più semplice licenziare anche i lavoratori a tempo indeterminato e diviene più difficoltoso per questi ottenere un esito positivo in causa, oltre ad escludere in molti casi anche il reintegro, che prima era previsto per legge nel caso di accertamento di licenziamenti senza giusta causa.

Ovviamente questa parcellizzazione delle tipologie di contratto ha un’altra conseguenza sul corpo dei lavoratori tutti: dividendoli formalmente in questa maniera, spesso i lavoratori si dividono anche quando si parla di lottare e scioperare per i propri diritti, lavoratori sindacalizzati e non sindacalizzati si ritrovano separati e spesso hanno difficoltà a vedersi come un corpo unico con obiettivi comuni.

 

Combattere la precarietà: questione vertenziale e questione politica

Ma quindi, come lavoratori e lavoratrici, come si combatte la precarietà? Esistono ovviamente una selva di regole con cui la precarietà (o i contratti autonomi) possono essere limitati legalmente, ma non si tratta tanto di discutere delle varie irregolarità attaccabili (e ce ne sono, dalla percentuale massima di lavoratori precari che dovrebbe sussistere in ogni posto di lavoro, alle limitazioni poste dopo il primo anno di contratto precario e altre ancora) ma di come la classe operaia e le sue organizzazioni dovrebbero e potrebbero rispondere ad una pratica che è ormai dilagata in tutti i settori e che distrugge il tessuto della classe, divide i lavoratori rendendoli più deboli.

Innanzitutto si tratta di non accettare le regole che impone il nemico, ovvero la borghesia. Sì, esistono leggi che sdoganano i contratti precari, i contratti interinali e altre forme di lavoro discontinuo, ma queste vanno combattute.

Non importa quanto la legalità dei tribunali del lavoro permetta ad aziende che fatturano milioni o miliardi di euro all’anno di tenere una massa sempre crescente di lavoratori nell’instabilità e nel ricatto, i lavoratori possono e devono lottare per limitare l’utilizzo di tali contratti.

La prima cosa da chiarire è che non è utile a nessuno, nemmeno ai lavoratori più “stabili”, che esista una fascia tanto ampia di loro compagni di classe sociale sotto ricatto, è evidente quindi che alla divisione imposta formalmente dai padroni va contrapposta l’unità di tutti i lavoratori.

Non sono frequentissime, ma comunque ce ne sono e ce ne sono state anche in tempi recenti, mobilitazioni di lavoratori precari e indeterminati, uniti, che hanno lottato per limitare l’utilizzo di contratti svantaggiosi per una parte dei lavoratori.

Gli operai Zara di tutta Italia hanno lottato per non far entrare nei magazzini del colosso dell’abbigliamento i contratti interinali (respingendoli a Roma e Milano) in luogo di contratti a tempo indeterminato; nei magazzini della logistica si è lottato spesso negli anni per prolungare i contratti a tempo determinato; alla Fedex di Milano per esempio, nella quale 6o lavoratori stavano perdendo il lavoro per cessazione di contratto interinale; i 150 lavoratori agricoli della Ambruosi e Viscardi a cui l’azienda stava facendo scadere il contratto come ritorsione antisindacale e ancora alla SDA di Roma più recentemente, in cui continue agitazioni hanno scosso i magazzini che chiedevano tutele per i lavoratori precari, inizialmente minacciati di licenziamento per via di un fantomatico esubero.

Le rivendicazioni di molte delle lotte dei rider delle multinazionali del delivery, ugualmente, hanno posto in cima alle priorità una maggiore stabilità oltre ad una lunga lista di obiettivi.

In tutti i casi elencati la lotta si è basata su due pilastri inamovibili: la solidarietà tra tutti i lavoratori a prescindere del tipo di contratto e la pratica dello sciopero, arma preziosa e proprio per questo messa in discussione e perseguitata dalle organizzazione datoriali e dallo Stato, evidente alleato delle grandi multinazionali e aziende.

Un innescarsi più frequente e continuo di lotte di questo genere, che uniscano nel conflitto lavoratori con diverse forme contrattuali, porterebbe come prima cosa una maggiore ritrosia dei padroni nell’utilizzo allegro di queste forme di lavoro e, contemporaneamente, remerebbe contro la distruzione del tessuto stesso della classe operaia, renderebbe più sicuri i lavoratori e, probabilmente, faciliterebbe la sindacalizzazione e la capacità anche di singoli lavoratori di difendersi e di non soggiacere a logiche di ipersfruttamento sotto ricatto.

Non basta semplicemente avere una posizione genericamente contraria alla precarietà: bisognerebbe costruire campagne politiche, il più frequentemente possibile, a sostegno di tutte le iniziative di mobilitazione dei lavoratori su questo tema, collegarle tra di loro e proporre di farne una battaglia generalizzata contro i padroni. La precarietà, in qualsiasi forma essa si presenti, rappresenta uno dei problemi fondamentali da affrontare da un punto di vista di classe, e l’impatto che ha sulla vita e la potenziale attività sindacale e politica dei lavoratori stessi è evidente e confermato da dati e fatti.

Vincere singole battaglie su questo piano è possibile come pure incoraggiare l’unità e la radicalità dei lavoratori.

È chiarissimo che a fronte di una quantità tanto alta di tipologie contrattuali precarie o comunque instabili il blocco dei licenziamenti portato avanti (e sbandierato come un grande risultato!) dal governo nel periodo di crisi sanitaria che stiamo vivendo è pura fantasia: secondo i dati 500.000 posti di lavoro sono stati “bruciati” in questi mesi difficili, mezzo milione in tutto di cui la stragrande maggioranza dovuti a cessazioni di contratti a tempo determinato, quasi 400.000 lavoratori sacrificati sull’altare dei profitti delle aziende. Davanti a uno scenario simile la rivendicazione più progressiva è sicuramente quella della stabilizzazione di tutti i lavoratori precari, riducendo la giornata lavorativa a 6 ore giornaliere e 30 settimanali a parità di paga. È

chiaro che questa rivendicazione, ovvia di fronte alla condizione contingente che di certo non si esaurirà in pochi mesi, per tenersi in piedi e svilupparsi dovrebbe camminare sulle gambe di migliaia di lavoratori, che si sviluppi all’interno e si generalizzi a partire dalle esperienze vittoriose delle lotte che ci sono state e ci saranno ancora. E per ultimo, ma non per importanza, è necessario che questa rivendicazione si leghi ai processi di autorganizzazione non solo sindacale, ma anche politica dei lavoratori e delle lavoratrici.

 

CM