Nonostante la recente ondata di proteste, motivata dall’arresto del leader dell’opposizione parlamentare, Ousmane Sonko, sembri aver raggiunto un punto di stallo, il momento storico che attraversa il Senegal è simbolico di tutte le contraddizioni incarnate dalla “democrazia più stabile” dell’Africa occidentale.
Il 3 Marzo 2021, una folla di manifestanti occupa le strade di Dakar, davanti al palazzo del tribunale in cui il leader dell’opposizione, Ousmane Sonko, dovrebbe recarsi per affrontare un processo che lo vede accusato di molestie e minacce verbali contro una giovane massaggiatrice; un giovane impiegato dell’ufficio fiscale centrale del Senegal, divenuto attivista e dirigente politico di PASTEF – Les Patriots, formazione populista orientata per certi aspetti genericamente a sinistra, dopo aver rivelato una serie di importanti segreti sull’elite finanziaria dominante in Senegal, nel 2016, Sonko è stato arrestato quest’anno per “disturbo della quiete pubblica”, proprio quel 3 Marzo in cui si stava recando ad affrontare l’accusa principale di molestie; la peculiarità dell’arresto viene immediatamente colta dall’opinione pubblica nella sua reale natura: l’ultima accusa-fantoccio, in una catena di manovre repressive volte a mantenere intatta l’autorità del presidente in carica Macky Sall.
Il Senegal di Macky Sall e il mito della “democrazia più stabile dell’Africa”
Fior fior di analisti si è speso, nel corso degli ultimi decenni, ad elogiare il progresso politico-sociale del Senegal. Nel quadro africano, per molti pauperisti del mondo liberal-democratico, ha rappresentato un “modello d’eccezione”, per il suo sviluppo economico stabilmente ascendente, l’alto grado di alfabetizzazione (figlio di una serie di politiche sociali volte alla valorizzazione dell’educazione pubblica dei governi della socialdemocrazia trainata dal Partito Socialista Senegalese di Leopold Senghor, rimasto al potere fino al 1993), oltre che a una stabilità politica contraddistinta dal grottesco primato di non essere caduto vittima di colpi di Stato (ufficiali) dal 1960 (anno dell’indipendenza) ad oggi, nell’Africa Occidentale. Eppure, sotto la facciata di un paese diretto verso un progresso sociale benefico per il 99% della popolazione, e dietro al mito di sviluppo economico “da eccellenza”, troviamo una storia fatta di accumulazione, sfruttamento, e favoreggiamento di un’elite inesorabilmente e irrimediabilmente avvantaggiata dal legame a doppio filo dell’economia senegalese al paese che l’ha dominata colonialmente per quasi un secolo, ovvero la Francia: questo legame è una delle condizioni politiche che ha scudato il Senegal dal fattore più importante di destabilizzazione per tanti suoi corrispettivi continentali, ovvero l’intervento occidentale diretto o indiretto a favore di forze funzionali agli interessi neo-coloniali francesi nell’area. Basti pensare, infatti, a nazioni come il Congo o il Burkina Faso, dove tentativi di distanziamento ed indipendenza reale sono stati incontrati con feroce e brutale intervento di milizie favorevoli al mantenimento dei rapporti coi paesi dominatori, creando i presupposti per situazioni politiche frastagliate, repressive e vulnerabili al giogo dello sfruttamento occidentale che, oggi, ancora rende impossibile anche il minimo slancio verso un percorso emancipativo per i lavoratori di questi paesi.
La questione del controverso (e recentemente discusso anche in Italia) sistema economico senegalese, e della valuta usata attualmente in Senegal, il Franco CFA, è certamente un affare complesso ed intricato, ma, come afferma Ndongo Samba Sylla sul Review of African Political Economy (una rivista accademica di intellettuali africani anti – imperialisti), si tratta di una dinamica monetaria “ancora governata da meccanismi di età coloniale”, “un soggetto considerato tabù per anni, invisibile ai media e al lavoro accademico occidentali, finito per imporsi sempre più nel dibattito pubblico grazie alla significativa mobilitazione di organizzazioni pan-africane ed intellettuali post-coloniali, sia attivi nel continente, sia figli e figlie della diaspora, lungo il corso di questi ultimi cinque anni”.
Per leggere di più: Franco-CFA: l’ombra monetaria del colonialismo francese in Africa
Il sistema economico – monetario del Senegal non è l’unica eredità lasciata in carico al paese dalla fase del colonialismo ufficiale francese: un modello politico a forte trazione presidenziale, figlio dell’ispirazione arrecata dalla Quinta Repubblica francese (1958), così come l’adesione al Patto Atlantico, sono alcuni degli elementi che a lungo hanno creato una divergenza nella tradizione istituzionale senegalese, una tradizione radicata nella repressione e nella tortura dei movimenti anti – imperialisti che a lungo hanno reclamato la fine reale dei modelli di dominazione che ancora oggi permettono le disuguaglianze e la sottomissione che affliggono la maggior parte della popolazione. Araldo di questa concezione collaborazionista nei confronti del mondo occidentale, francese ma non solo (basti pensare allo scandalo legato alla multinazionale British Petroleum di alcuni anni fa, in cui un versamento di dieci miliardi di sterline del colosso britannico all’imprenditore Frank Timis suscitò non poca attenzione nazionale ed internazionale) è il presidente in carica Macky Sall.
Emerso nella storia politica recente del Senegal come membro di spicco del Partito Democratico Senegalese, la formazione facente storicamente capo al terzo presidente Abdoulaye Wade, fonda la sua organizzazione Alliance pour la République nel 2008, e si incammina verso una prima vittoria elettorale alle elezioni presidenziali del 2012; nello stesso anno, la sua coalizione “Uniti per la Speranza” (in cui, a dimostrazione della continuatività del percorso di supporto alla direzione liberista e collaborazionista del Senegal, figurano anche il Partito Socialista e l’Alleanza delle Forze del Progresso, un partito minoritario di ispirazione social-democratica), trionfa alle politiche e conquista la maggioranza dei seggi nel parlamento senegalese. L’egemonia di questo partito liberale (e del suo leader, che, a discapito dell’etichetta, non si fa remore nell’utilizzare le tattiche repressive del suo predecessore Wade, permettendo il dilagare della corruzione endemica alle forze di sicurezza senegalesi e chiudendo occhio più di una volta verso gli abusi portati avanti dalla polizia e dalle guardie carcerarie, da Dakar fino alla complicata regione di Casamance) viene confermata sia alle elezioni politiche del 2017 che alle presidenziali del 2019, in cui Macky Sall si riconferma alla guida del paese; i governi guidati da Sall e da personaggi come Abdoul Mbaye (un banchiere scelto appositamente per promuovere famigerati “Accordi di Partnership Economica”) si fanno portatori al tempo stesso di politiche crescentemente liberalizzatrici di settori strategici dell’economia, come nel caso del petrolio, approfondimento di legami con paesi europei ed occidentali (non è un caso che, nel 2020, l’allora segretario di Stato americano, Mike Pompeo, avesse scelto proprio il Senegal di Sall come prima tappa del suo “tour” continentale sub-sahariano), e promesse di politiche populisteggianti per mantenere l’appoggio della base dei partiti social-democratici, come ad esempio un ambizioso piano di estensione della sanità pubblica, il quale ancora viene contestato dalle opposizioni come nient’altro che una vuota promessa, mandata avanti per colmare un vuoto di fiducia crescente di una ampia parte della popolazione senegalese.
Inoltre, i governi di Macky Sall si sono fatti esecutori e garanti degli Accordi di Partnership Economica, accordi pianificati tra governi dell’area africana, caraibica e del Pacifico e quelli europei, volti ad aumentare gli introiti sui beni d’importazione della parte europea, togliendo imposizioni fiscali da parte dei paesi ACP (Afro-Caribbean-Pacific). Questi accordi, secondo l’attivista Guy-Marius Sagna e la coalizione No to EPAs, nel caso specifico del Senegal, andranno a privare il paese di quasi 75 miliardi di franchi all’anno per i primi vent’anni, e 240 miliardi all’anno in seguito a questi vent’anni. Accordi come quello pensato per il Senegal, promosso da Macky Sall, sono parte di un piano di intervento strategico per recuperare il terreno perso nelle economie “in via di sviluppo” da parte dei paesi europei: stati come il Benin o la Costa d’Avorio (altro paese che ancora fa uso del franco – CFA) sono i bersagli di queste politiche, e, sotto la falsa promessa di più alti potenziali di esportazione dall’Africa all’Europa, la realtà materiale degli accordi si traduce in un maggior potere delle multinazionali europee in paesi che hanno, invece, drasticamente bisogno di mantenere il controllo dei propri interessi e delle proprie economie. Economie che, sia ben chiaro, già vengono controllate da una sfera ristretta di affaristi “nazionali” immischiati con la politica locale, borghesie predatorie che, col placet delle potenze imperialiste, hanno potuto espandere i propri profitti già da prima delle proposte EPA.
Il controllo, quindi, dell’economia del Senegal e della sua direzione è al centro del caldo dibattito politico che contraddistingue un paese che ha sempre visto forme di repressione del dissenso verso organizzazioni militanti anticapitaliste e antimperialiste; a questo, possiamo aggiungere un grave problema di diseguaglianze che non hanno riflesso i prospetti idilliaci delineati dai tassi di crescita identificati dal WTO (che, se abbiamo imparato qualcosa dall’inizio degli anni 2000 e dalla fine degli anni ‘90, ancora usa termini di paragone completamente inesatti per categorizzare i reali livelli di prosperità di un paese). Cosa è successo, quindi, nel mese che abbiamo appena passato?
Ousmane Sonko e la scia di arresti politici nei governi APR
Nato a Thies il 15 Luglio del 1974, Ousmane Sonko ha cominciato la sua carriera nell’amministrazione pubblica dopo aver conseguito un Master in Gestione delle Finanze Pubbliche all’Istituto Superiore di Finanza del Senegal, nel 2003. Ispettore principale delle Imposte, e revisore interno alla Direzione di Controllo Interno (organo di sorveglianza della Direction Générale de Impôts et Domaines), si afferma come figura di rilievo nella burocrazia statale senegalese e fonda il Sindacato Autonomo degli Agenti delle Imposte (di cui sarà segretario fino al 2012, quando assumerà il ruolo di “segretario onorario”). In questa fase comincia una scalata ai vertici dell’attenzione pubblica, che culmina nelle accuse di illeciti fiscali ai governi di Macky Sall, esponendo i legami sospetti, quando non direttamente fraudolenti, tra esponenti dei governi APR (come nel caso dell’attenzione portata al caso del ruolo del fratello di Macky, Aliou Sall, nel colosso petrolifero locale Petro-Tim), o trasformando in più di un’occasione le sue accuse “legali” in vere e proprie dichiarazioni politiche, come nel caso della frase “[Macky Sall]… è un buon prefetto dei nostri antenati Galli”, proferita in occasione della visita del presidente francese Emmanuel Macron nel 2018; chiara implicazione è quella di una prosecuzione dello sfruttamento coloniale della regione attraverso cricche politiche liberali, proprio come quella di Sall.
Nel 2014, è uno dei fondatori del partito PASTEF – Les Patriotes (Patriotes du Senegal pour le Travail, l’Ethiques et la Fraternitè), partito di orientamento populista di sinistra con forti spinte giustizialiste. Un profilo simile ad altre formazioni giustizialiste – populiste che abbiamo visto nel mondo (alta partecipazione di “esterni” alla politica tradizionale, richiami alla lotta alla corruzione, vaghezza preoccupante su temi come uguaglianza di genere, riconoscimento e tutela della comunità LGBTQIA*, richiami alla represnibilità “morale” delle malefatte dei governi in carica), ma in grado di costruire una base d’appoggio abbastanza larga da permettere, proprio a Sonko, di accedere al Parlamento alle elezioni del 2017, dove diventa una delle principali voci dell’opposizione al liberalismo economico senegalese sul piano istituzionale, in particolare esprimendosi più volte a sostegno dei movimenti contro gli EPA e il mantenimento del CFA come moneta di scambio. Assieme al Mouvement pour la reforme et le developpement social (MRDP) e al Rassemblement National Democratique (RND), PASTEF si schiera in una coalizione elettorale creata esplicitamente per porsi da contraltare all’APR di Sall, ovvero l’Alternative du Peuple (AP); pur ottenendo solo l’1,17% dei consensi alle elezioni, tanto basta per dare alla figura carismatica di Ousmane Sonko lo spazio per creare una dinamica dialettica conflittuale tra lui stesso ed il presidente.
Alle presidenziali del 2019, la coalizione che appoggia Sonko lo fa balzare al 15% dei consensi, dietro soltanto all’ex-presidente Idrissa Seck e all’eventuale vincitore Macky Sall. Sono elezioni controverse, sia per le limitazioni caratteristiche ai diritti democratici del sistema elettorale senegalese (come una cauzione fissa a 30.000.000 di franchi-CFA per presentarsi come candidati), sia per una catena di controversie e violenze che circonda la data delle elezioni, come nei casi delle svariate e mai comprovate accuse delle forze vicine al presidente di “sabotaggio del processo elettorale” a sostenitori delle opposizioni (sia vicine a PASTEF, che, ad esempio, a sostenitori di Abdoulaye Wade, che invita al boicottaggio del voto), o quando, durante un comizio, due oppositori di Sall restano uccisi nel mezzo di risse e disordini tra le parti, a Tambacounda. L’alto livello di conflittualità raggiunge una fase critica quando vengono annunciati i risultati, prematuramente, di una vittoria di Macky Sall tale da impedire un secondo turno: nonostante il risultato sarebbe stato confermato settimane dopo dalla corte costituzionale del paese, la diatriba non avrebbe giovato in alcun modo sui livelli di fiducia nelle istituzioni del paese africano.
Gli anni che seguono vedono un montare delle attività repressive degli organi statali, sia contro PASTEF che contro il FRAPP, il Fronte per una Rivoluzione Popolare e Pan-Africana, così come delle violenze in carceri statali come nel caso della prigione di Cape Manuel, in cui, per i detenuti politici “non cooperativi […] la regola è che, per via delle condizioni detentive, il risultato della permanenza in cella diventi il suicidio”, per stessa ammissione del direttore del carcere, Khididiatou Ndiouck Faye. Questa impennata di violenza arriva in un momento cruciale come quello della crisi pandemica, in cui tutta la pressione delle diseguaglianze già citate stavano cominciando a far sentire fiato sul collo al gabinetto Sall. Ragion per cui è stato necessario intervenire tatticamente per mantenere relativa quiete e garantire quella tanto favolata “stabilità” cara ad investitori esteri e borghesia nazionale.
Arriviamo così all’evento scatentante delle rivolte del mese scorso: nella notte del due Febbraio, una giovane lavoratrice di un centro massaggi di Dakar deposita una denuncia al dipartimento di polizia locale contro Sonko per violenza e minacce. Un’accusa pesante e con un carico politico considerevole, in un paese che, recentemente, ha potuto vedere da vicino i profondi legami tra accuse giuridiche e istanze politiche, in ben più di un aspetto, da quando Macky Sall ha preso il potere: una recente serie di misure contro la violenza di genere, sospinta da un fiorente movimento femminista, è stato al centro del dibattito dell’ultimo anno in Senegal, e il peso dell’accusa contro Sonko, necessariamente, ha creato importanti controversie tra le opposizioni (composte non solo da figure a favore di questi provvedimenti, ma anche veri e propri reazionari e nazionalisti, anche all’interno di PASTEF stesso), timorose di risultare indebolite da un eventuale sostegno ufficiale a progetti di legge proposti dalla maggioranza.
Al netto di ciò, e a fronte delle proteste del deputato, il 26 Febbraio il Parlamento vota quasi all’unanimità un provvedimento per rimuovere l’immunità parlamentare a Sonko, in modo tale da mandarlo a processo per le accuse rivolte all’inizio del mese. Alcuni, nell’opposizione, parlano di “processo ingiusto e viziato”, ma non basta a fermare, nelle aule del Parlamento, il processo cui si dovrà sottoporre. Quando, tuttavia, finalmente Sonko si rassegna ad affrontare il processo, il tre di Marzo viene arrestato mentre si dirige verso il tribunale, con l’accusa di “disturbo dell’ordine e incitazione di manifestazione non autorizzata”. La reazione è quasi immediata: le strade vengono invase da manifestanti, e Place de la Nation, a Dakar, diventa un punto di ritrovo quotidiano per organizzare la mobilitazione. Nell’arco di tempo tra il tre e l’undici Marzo, rimangono uccise 10 persone dalla violenza repressiva dell’apparato statale; nei social, con l’hashtag #freeSenegal, si chiede giustizia per i feriti e le famiglie che hanno perso i propri cari durante la sommossa. I paragoni con il movimento #endSARS in Nigeria, dove si chiede ancora a gran voce lo smantellamento della famigerata unità speciale di Polizia Special Anti-Robbery Squad, sono chiari a tutt* l* coinvolt*: l’episodio dell’arresto di Ousmane Sonko diventa un pretesto ideale per l’espressione legittima di una rabbia fomentata per decenni, e che nella sua incarnazione ancora primordiale è tuttavia in grado di dar voce a una lunga lista di rivendicazioni, che trascendono il caso Sonko e riguardano la natura intrinseca di disposizioni e strutture applicate per mantenere lo Status Quo in Senegal (e, in una certa maniera, in tutta l’Africa Occidentale). Anche per questo, per il linguaggio transnazionale di una serie di proposte che emergono dalle piazze di Dakar e di tutto il paese, è fondamentale seguire ciò che accade da più di un mese a questa parte.
Problemi in Paradiso: il futuro del movimento e le lezioni del Marzo
Per quanto possano essersi momentaneamente calmati i moti di piazza dello scorso mese, in Senegal si sono tracciate delle linee potenzialmente invalicabili sul piano dello scontro politico: il punto cardine della questione, difatti, non è (e alcuni argomentano che non sia mai stato) la condanna o l’assoluzione di quello che, nei fatti, è un burocrate statale mosso in parte da pulsioni che guardano all’antimperialismo e al pan-africanismo, ma si muovono tuttavia entro un quadro di riferimento legalitario e giustizialista funzionale a un modello di “stato-etico” utopistico nel capitalismo (specie in paesi “in via di sviluppo”, o, per dirla in maniera più corretta, maggiormente oberati dal peso dell’asservimento di rappresentanti statali ad interessi speculativi di tipo neo-coloniale). Per non parlare, poi, dell’accusa originaria di molestie: sarebbe uno schiaffo in faccia alle vittime di tutto il Senegal cercare di negare potenzialmente la voce di una vittima di abusi, specie dopo tanta fatica spesa per arrivare al riconoscimento dell’abuso sessuale come violazione vincolante legalmente, e che rischierebbe quindi di mettere a repentaglio conquiste che potrebbero garantire maggiore sicurezza in un paese che per lungo tempo ha dovuto sopportare manifestazioni estreme di violenza e silencing di stampo patriarcale.
Il punto, però, è che il caso delle molestie (per cui ancora non c’è stata un’udienza in tribunale) non è la goccia che ha fatto traboccare il vaso della lotta contro la repressione, quanto lo è stato arresto per “disturbo alla quiete pubblica”.
La ragion d’essere politica delle proteste del mese scorso fa chiaramente luce sulla natura profondamente anti-democratica della “democrazia modello” senegalese, ricordando gli arresti di oppositori ai partiti del neoliberismo quali Khalifa Sall (ex-sindaco di Dakar) o Ousmane Sonko stesso, ma anche di esponenti meno ostili al modello di sviluppo attuale, come nel caso di Karim Wade, figlio di Abdoulaye Wade, che nel 2017 avrebbe potuto tentare un assalto alla presidenza in qualità di candidato del Partito Democratico Senegalese. Da un lato, stiamo assistendo al consolidamento di potere di una cosca di tecnocrati facenti capo a Macky Sall, che attraverso un abile uso intercambiabile di retorica liberista e populista (come quando fece passare un provvedimento per ridurre il mandato presidenziale a cinque anni, dai precedenti sette, andando contro alla volontà del suo stesso raggruppamento politico) riesce a mantenersi saldamente al potere con l’appoggio di una rete transnazionale di multinazionali, ben contente di approfittare di un’economia tecnicamente “in crescita”, ma di cui le conseguenze naturali sono l’ampliamento delle diseguaglianze e la dipendenza del Senegal alle remore dei mercati europei. D’altro canto, si stanno delineando chiare potenzialità per una rinascita in attività del movimento operaio senegalese che nelle sue strutture organizzative “ufficiali”, per quanto in forma limitata (alle proteste è arrivata la sola adesione formale del Sindacato Autonomo dei Medici del Senegal, che ha organizzato uno sciopero di quarantotto ore tra il 15 e il 17 Marzo), trova gambe su cui poggiare e braccia da incrociare con la gioventù precarizzata del paese. Tuttavia, la spinta maggiore arriva, appunto, dai lavoratori precari, oltre che da alcuni sindacati autonomi, con la CNTS (Confederation National de Travailleurs du Senegal, il sindacato più corposo del Senegal) intenta attivamente a chiedere, durante tutto il mese di Marzo, la cessazione “delle violenze e della distruzione”, di fatto dimostrandosi funzionale sia alla repressione statale, sia alle politiche anti-operaie di Macky Sall.
Lo stesso Ousmane Sonko, dall’alto della sua morale “limpida”, ora gioca a fare il pompiere, e chiede a gran voce di “posare le armi”, in uno scenario idilliaco di ricomposizione sociale e fiducia nei rami giudiziari dello Stato, per quel che riguarda il suo caso in tribunale. Il punto è che, sfortunatamente per lui, un burocrate convertitosi in politico istituzionale, il suo caso potrebbe presto diventare il dettaglio meno rilevante della vicenda politica senegalese. Il futuro è imprevedibile, per ogni paese in cui si muova qualcosa nei substrati oppressi della società: ciononostante, possiamo trarre da questo mese di Marzo lezioni importanti sul ruolo di figure carismatiche individuali, che si fanno portatrici di messaggi radicali fino a quando non arriva il momento di darvi seguito politico reale; sulle menzogne di think-tank, istituti e organizzazioni no profit in merito a supposte fiabe di “sviluppo” nei paesi del sud del mondo, sempre tenendo a mente che per ogni persona che guadagna, qualcuno dovrà sempre necessariamente andare a perdere; e sul potenziale radicalmente trasformativo che possono avere rivendicazioni politiche che guardano a fondo nelle contraddizioni sociali che affliggono innumerevoli realtà, specie quando si interconnettono con contesti di lotta oltre i confini, esprimendo progetti potenziali di sommossa tali da poter mandare nel panico i potenti della terra e i loro affaristi, ovunque si trovino.
Luca Gieri
Nato a Toronto nel 1998, studente di scienze politiche all'Università di Bologna presso il campus di Forlì, militante della FIR e redattore della Voce delle Lotte. Cresciuto a Bologna, ha partecipato ai movimenti degli studenti e di lotta per la casa della città.