Il 27 novembre, giornata internazionale contro la violenza di genere si avvicina, e come collettivo Il Pane e le Rose ci arriveremo preparate! In una serie di 5 articoli sulla violenza di genere, vogliamo guardare con la lente d’ingrandimento alle diverse sfaccettature con cui il patriarcato perpetua questa violenza.

Abbiamo già cercato di approfondire come il sistema perpetua la violenza di genere sia in modo strutturale che con continui attacchi ai diritti delle donne, della comunità lgbtq e de* migrant*, attacchi che non ci lasciano impassibili ma a cui rispondiamo prendendoci il nostro spazio nella storia come protagoniste della lotta di classe.

Oggi, invece, proviamo a leggere il fenomeno della violenza di genere da un punto di vista più culturale, o meglio come questa cultura sia proprio il frutto di un sistema economico che sfrutta e o opprime come quello patriarcale e capitalista.


Ruoli culturali e stereotipi sono integrati in un sistema sociale
Sin da quando nasciamo, la cultura che ci circonda ci abitua a incasellare il prossimo e noi stessi in una serie di ruoli. Si inizia affibbiandoci un sesso, un genere, una religione, un’educazione e così via, a seconda della parte del mondo in cui nasciamo, della classe sociale a cui apparteniamo, del nostro colore della pelle. Ma tutte queste categorie spesso ci vengono legate addosso senza consenso o coscienza, ben prima che possiamo sviluppare un livello di coscienza tale che ci permetta di comprendere il significato reale di questi ruoli e soprattutto dell’influenza che avranno nel nostro futuro ,sia come strumento o meno di socializzazione, sia come definizioni di noi stessi che possiamo utilizzare o meno.

Questi ruoli ci permettono così quanto meno di ambientarci nel sistema sociale e culturale dentro il quale ci troviamo a vivere come individui e, al tempo stesso, queste categorie, integrate in un sistema, permettono di stabilire chi sia conforme al sistema stesso, e chi no. Permettono di istituire valori e veri e propri dogmi sociali verso cui le persone sono spinte, in varie forme coscienti e incoscienti, ad attenersi.

Questo meccanismo funziona anche nella società borghese e, anzi, ha a disposizione oggi di mezzi di creazione e diffusione di cultura, ideologia, consenso, pratiche comuni che sono incomparabili rispetto a quelli del passato.
Molti sociologi, in particolare tra gli anni Sessanta e Settanta – fase in cui questi valori e ruoli venivano messi sistematicamente in discussione-, hanno studiato proprio come da queste dinamiche si sviluppi il concetto di stereotipo.
L’influenza che uno stereotipo ha sulla collettività si concretizza prima di tutto attraverso la discriminazione, ma non si limita ad essa.

 

Lo stereotipo di genere, uno strumento patriarcale di oppressione delle donne

Uno stereotipo culturalmente diffuso e integrato in un sistema sociale ha la capacità di riscrivere la storia passata e presente pur di accomodarla e renderla coerente rispetto a sé steso. Basti pensare alla narrativa storica che si è costruita sullo stereotipo di genere rispetto la storia che sin dalla nascita delle prime collettività di ominidi il lavoro si divideva nettamente tra le donne, che si occupavano esclusivamente della cura dei figli, e gli uomini “cacciatori”, quindi senza i quali non si poteva mangiare. Questo stereotipo è stato smentito dagli stessi studi archeologico-antropologici, che non ci dicono solo che addirittura nel Neolitico esistevano donne cacciatrici, ma soprattutto che i ruoli nelle prime collettività non erano definiti in gerarchie, e che spesso la prima fonte di sostentamento del gruppo non era ciò che l’uomo aveva cacciato, ma il raccolto di frutta ed erbe che procuravano le donne. Però questa narrativa, che è stata costruita ad immagine di una società come quella attuale, che vuole dirci che le donne senza gli uomini che “portano a casa la pagnotta” non possono sopravvivere, oggi è ancora molto radicata all’interno dell’immaginario comune.

Questa visione della storia viene percepita come “scientifica”, anche perché ancora in molte scuole è quello che viene fatto studiare nei primi anni dell’infanzia. e ciò ha fatto sì che si sviluppasse un substrato culturale che ha permesso la solidificazione di questo stereotipo e la conseguente giustificazione storica della disparità tra uomini e donne che si è riversata a cascata per secoli su tutti gli ambiti della società: dal mondo del lavoro, a quello intellettuale, delle scienze, della famiglia, eccetera.
Lo stereotipo di genere ha dato vita a diverse narrative distorte rispetto il ruolo della donna: ad esempio, la narrativa che le donne sono emotive ha giustificato per anni l’estromissione di queste dal mondo intellettuale, ritenute troppo ingenue o passibili di sentimentalismi per poter studiare fenomeni scientifici, per poter essere parte integrante di processi politici. Stereotipo che tutt’oggi è ancora così forte da far produrre posizioni oggettivamente paternalistiche, legate a un approccio riformista verso l’oppressione patriarcale, anche a figure intellettuali nettamente progressiste della nostra epoca, come abbiamo visto recentemente con le dichiarazioni del professor Barbero sul patriarcato risolvibile con qualche generazione di maschi meglio educati. La stessa storia dei partiti moderni di sinistra e comunisti non ha rappresentato sistematicamente una rottura con gli stereotipi di genere: prima del femminismo della seconda ondata, hanno avuto posizioni molto discutibili sul ruolo delle donne nella politica e nella collettività, ed ancora oggi non è per niente scontato a sinistra un livello “minimo” comune di femminismo, figuriamoci un femminismo classista. Lo stesso partito comunista dell’Unione Sovietica, dopo aver promosso le più avanzate e audaci riforme sui diritti delle donne già nel 1918, capitolò anche s questo fronte alle pressioni controrivoluzionarie, restaurando diverse premesse materiali e giuridiche del ruolo di genere della donna nel patriarcato. Il PCI, nella sua eterna rincorsa ai democristiani sul loro terreno, è stato responsabile di un enorme depotenziamento del movimento femminile come spinta anticapitalista e classista nella società italiana, dando anche su questo fronte una conferma del carattere politico conservatore dello stalinismo nelle sue diverse varianti nazionali, e trovandosi “a destra” su diversi temi anche rispetto ai partiti liberaldemocratici, come sulla questione del divorzio, dove solo una pressione dal basso e dall’esterno portò il PCI ad appoggiare la lotta per rompere il carattere “sacro e inscindibile” del matrimonio.
Lo stereotipo di genere, oltre ad avere false radici storiche, si basa anche, se non soprattutto, sulla concezione che le differenze biologiche tra uomini e donne definiscano il ruolo sociale che questi debbano avere; infatti, le donne “predisposte” all’accudimento dei figli, alla cura, devono restare a casa a prendersi cura di bambini, anziani e uomini, e gli uomini che sono “portati” per la prestanza fisica, l’uso dell’intelletto e un funzionale distaccamento emotivo da ciò che non gli permette di raggiungere lo scopo, come l’emotività “femminile”, sono portati invece al lavoro manuale e/o intellettuale, a ricoprire posizioni di potere sia all’interno del nucleo familiare che sociale. Questo spiega, almeno in modo sovrastrutturale, la grande assenza delle donne dal mondo del lavoro. Però, questo è il risultato strutturale di una società patriarcale-capitalista che, per permettere lo sfruttamento ed il profitto sulla forza-lavoro, limitava l’inserimento nel mondo del lavoro delle donne così da riproporre nell’ambito familiare il rapporto capitalistico di controllo – in questo caso economico – dell’uomo sulla donna, da cui poi si rafforzano gli episodi di violenza e discriminazioni che le stesse donne subiscono all’interno dell’ambito familiare e/o di intere comunità.
Addirittura la narrativa sulla violenza di genere è dettata da questo stereotipo. Il fatto che le donne vengano puntualmente descritte dai grandi apparati mediatici, dai telegiornali, alle campagne di sensibilizzazione sul tema portate avanti da personaggi istituzionali, come delle “vittime”. spesso implica la vittimizzazione di chi ha subito violenze, lasciando aleggiare nel pensiero questa sensazione di soggetti fragili, incapaci di difendersi o reagire – ovviamente questo non vale in aula di tribunale, perché lì si parla di legge e davanti alla legge si è “tutti uguali” anche se, se sei povero, vai punito più duramente per imparare meglio dal tuo errore; se sei donna sei poco credibile e se sei queer non sei una persona affidabile, i tuoi sono problemi poco importanti e l’affossamento del DDL Zan ne ha dato conferma pratica.

 

Ma perché il capitalismo ripropone lo stereotipo di genere?

Il capitalismo si è sviluppato anche a partire dal sistema patriarcale già esistente, che prevedeva una gerarchia economica e sociale strettamente legata alle concezioni e ai rapporti delle società precapitalistiche con le diverse religioni – come sottolineò Max Weber – , che pone le donne al di sotto degli uomini nella scala sociale, e dipendenti da essi economicamente. Ciò significa che, con l’affermarsi del capitalismo, ci si è trascinati dietro anche questo assetto, cercando però di modernizzarlo e renderlo più funzionale a questo nuovo sistema. In particolare, a partire da necessità strutturali, come quella di fare profitto e consolidare forme di controllo sociale diretto e indiretto, tipiche di questa nuova forma sociale che è il capitalismo, si è iniziato a dotare di organismi che permettessero di riprodurre in modo capillare la dicotomia sfruttato/sfruttatore, caratteristica del capitalismo stesso, quindi attraverso la famiglia, le scuole, i luoghi di lavoro e così via in cui si ripropone parallelamente il rapporto dicotomico -uomo,donna- tipico del patriarcato.
Inizialmente, questo ha significato la mancata immissione delle donne all’interno del mondo del lavoro produttivo, in particolare di quello industriale, più avanzato, costringendole o al lavoro in campagna o alla cura domestica dei figli e mariti, che in quel sistema invece erano stati inseriti con orari anche di 12 ore al giorno. Con l’avvento della moderna tecnologia industriale, delle macchine, l’impiego via via più largo delle donne in settori ritenuti più adatti alla forza-lavoro femminile si accompagnava a paghe da fame, ben più basse di quelle maschile, poiché si partiva dall’assunto che gli uomini soltanto dovessero ricevere paghe per poter sostenere una famiglia intera.

Ciò rappresentò un enorme guadagno aggiuntivo per i capitalisti, ma sul lungo periodo permetteva l’inserimento delle donne nel movimento operaio organizzato, lo sviluppo della coscienza di classe e l’intreccio tra l’emancipazione femminile e quella della classe lavoratrice in una medesima lotta.

Sono proprio i grandi cicli di lotta, insieme a enormi e tragici eventi come la Prima Guerra Mondiale, a consolidare le donne come una parte della classe lavoratrice che non si poteva in alcun modo ignorare, nonostante rimanesse il fortissimo pregiudizio – anche fra le donne stesse – che gli uomini fossero in qualche misura il soggetto da cui dipendere.
Il fatto sociale che donne siano state e siano ancora convinte di dover rispondere a un ruolo di supporto e/o sudditanza agli uomini non può essere spiegato solamente con quello che i sociologi definiscono “profezia autoavverante”, che consiste in azioni che il soggetto discriminato mette in atto confermando uno stereotipo proprio perché vive in una condizione di stress rispetto la consapevolezza di essere un soggetto discriminato. La radice va ricercata nella trasmissione di questa concezione, che non viene sradicata automaticamente con l’entrata delle donne nel mercato del lavoro – non è un caso, che ancora oggi mediamente, in Europa, il gender gap salariale si aggiri intorno al 29,6%.
La necessità strutturale del capitalismo di sussumere il patriarcato per questi e diversi altri fattori economici di convenienza, ha ovviamente fatto sì che i valori promossi dal patriarcato venissero innestati anche nella cultura, nella dottrina politica e sociale di questo sistema, fino a riprodurlo all’interno della sua educazione familiare e scolastica, facendoli diventare un pilastro di quella che Marx chiamerebbe l’ideologia dominante – in barba a tutti quelli che oggi urlano alla diffusione incontrollata della “ideologia gender”.
Proprio Marx nei manoscritti economici-filosofici del ‘442, quando parla dello sfruttamento degli operai nel processo produttivo industriale, coglie l’importanza che, in questo fenomeno di sfruttamento, assume la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e di come questa divisione danneggi l’operaio, in quanto lo rende maggiormente schiavo del padrone che detiene non più solo i mezzi di produzione, ma anche la conoscenza e la competenza del sistema produttivo complessivo su cui l’operaio lavora a una soltanto delle fasi che sono necessarie alla realizzazione della merce vendibile sul mercato; così, possiamo pensare alla divisione dei ruoli di genere all’interno del capitalismo. Alla donna, considerata l’operaio della famiglia, viene data la possibilità di avere un solo ruolo all’interno della società che invece è composta da diversi ruoli per poter essere compresa nel suo insieme, diventando ancora maggiormente dipendente dal padrone, che in questo caso è l’uomo, in quanto non solo economicamente, proprio come l’operaio, ma soprattutto per poter leggere il mondo. Inoltre, rispetto l’operaio, la donna viene privata dell’istruzione, della socializzazione, l’organizzazione in classe, dei progressi sociali che l’uomo aveva conquistato con il passare del tempo e questo fa si che ancora tutt’oggi alle donne viene insegnato di essere sottomesse, docili, accondiscendenti all’autorità prima paterna poi degli insegnati, poi del datore di lavoro. Che ancora tutt’oggi ci viene detto di non contestare un apprezzamento di troppo o quelle piccole molestie quotidiane che subiamo per il solo fatto di camminare per strada; anzi, ci si invita ad andarne fiere perché significa che siamo appetibili prede per i maschi; che ancora tutt’oggi gli è permesso insegnarci ad avere paura delle ripercussioni, a sentirci inferiori e non abbastanza intelligenti per raggiungere un obiettivo, ma di ricercare le nostre soddisfazioni in un uomo, un figlio e una casa “ben amministrata”.
Però, nonostante i secoli di addomesticamento, di conformismo, di indottrinamento patriarcale, noi non ci siamo mai arrese e la nostra condizione di doppiamente sfruttate ci ha sempre insegnato a dover lottare il doppio per conquistare ciò che ci spetta… e noi non siamo da meno! Non ci sono religioni, insegnamenti, violenze, abusi o ideologie che ci fermeranno, perché noi sappiamo chi è il nostro nemico.
Non siamo solo stanche di tutta questa cultura maschilista e sessista e siamo pronte a distruggerla, ma soprattutto siamo pronte a continuare a lottare contro il sistema che l’alimenta, unite fianco a fianco. Perché, seppure ripudiamo le vostre imposizioni sull’essere una brava madre, figlia, moglie, ci sentiamo in dovere verso le nostre vite, e quelle delle sorelle che verranno, di essere le progenitrici di un mondo nuovo, libere dallo sfruttamento e dall’oppressione.

Perché non ci bastano più le briciole, perché noi vogliamo il pane ma anche le rose!

 

Scilla Di Pietro

Note

1. “L’accumulazione del capitale aumenta la divisione del lavoro, la divisione del lavoro aumenta il numero degli operai, e reciprocamente, il numero degli operai aumenta l’accumulazione dei capitali Con questa divisione del lavoro da un lato e con l’accumulazione dei capitali dall’altro, l’operaio dipende in modo sempre più netto dal lavoro, e da un lavoro determinato, molto unilaterale e meccanico. E quindi, come egli viene abbassato spiritualmente e fisicamente al livello della macchina e trasformato da un uomo in una attività astratta e in un ventre, così si trova in condizioni di sempre maggior dipendenza da tutte le oscillazioni del prezzo del mercato, dell’impiego dei capitali e del capriccio dei ricchi. […] Questa situazione dell’operaio tocca il suo punto culminante nell’industria” [Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844. Salario, 1844, disponibile online sul MIA].

Nata a Napoli il 1997, già militante del movimento studentesco napoletano con il CSNE-CSR. Vive lavora a Roma. È tra le fondatrici della corrente femminisa rivoluzionaria "Il Pane e Le Rose. Milita nella Frazione Internazionalista Rivoluzionaria (FIR) ed è redattrice della Voce delle Lotte.