Si è diffusa ieri la notizia della liberazione di Patrick Zaki, studente all’Università di Bologna, dalle carceri egiziane in cui si trovava in carcerazione preventiva da quasi due anni. Perché non possiamo dire che Patrick sia già “libero”?
Patrick Zaki, dopo 668 giorni di carcere, è stato finalmente liberato, ma paradossalmente non è libero, poiché tutti i capi d’accusa contro di lui sono ancora in piedi e a febbraio dovrà presentarsi davanti a un giudice.
Era stato rinchiuso in uno dei carceri di massima sicurezza in Egitto e proprio qualche giorno fa i suoi avvocati e la famiglia si erano detti preoccupati del suo trasferimento.
Patrick, studente egiziano all’università di Bologna, era stato arrestato nel febbraio di due anni fa dopo essere tornato in Egitto per una breve vacanza. Le accuse erano quelle che il regime repressivo del Generale al-Sisi riserva agli oppositori politici nel paese: gli è stato imputato un articolo nel quale denunciava i soprusi che la comunità copta subisce nel paese. Un articolo che non era andato giù alle autorità egiziane, poiché nello stesso si criticava l’operato del governo nell’alimentare la discriminazione contro i cristiani copti.
Un’accusa infamante che di fatto definiva in modo netto la volontà del governo di tracciare quella linea rossa che nessun attivista deve oltrepassare all’interno del paese.
Linea rossa che tuttavia resta molto arbitraria e poco definita. Patrick durante tutta la sua carcerazione ha dovuto sopportare il meccanismo del ‘tadwir’ ovvero della rotazione. Un meccanismo che prevede il rinnovo del carcere preventivo ad ogni udienza; un rinnovo che poteva variare, almeno nel caso di Zaki, dai 15 ai 45 giorni.
Ogni udienza è stato un continuo rinnovo di detenzione che non faceva altro che aumentare la frustrazione del detenuto stesso.
In Egitto ci sono 60.000 prigionieri politici, quasi tutti sottoposti al regime del tadwir e quasi nessuno condannato in via definitiva.
Molti prigionieri oggi presentano, secondo le denunce delle associazioni della società civile egiziana, gravi problemi psicologici che hanno portato negli ultimi anni a suicidi e morti sospette. Pensiamo ad esempio alla compagna Sara Hejazi che, dopo essere uscita dal carcere e rifugiatasi in esilio in Canada, si è tolta la vita. O come il regista Shady Habbash, morto nel 2020 in carcere, il quale più volte aveva denunciato le precarie condizioni psichiche.
Non ultimo, il noto attivista e protagonista di Piazza Tahrir, Alaa Abd al-Fattah, che proprio in questi giorni ha lamentato un generalizzato malessere. Malessere che ha denunciato più e più volte la sorella di Alaa, Mona. Una famiglia rivoluzionaria, quella dei Seif-Abd al-Fattah. Ad oggi sia Alaa che la sorella minore Sanaa si trovano in carcere, mentre la madre, Laila e la succitata Mona si battono quotidianamente per i diritti e la libertà dei prigionieri politici.
La liberazione di Zaki è in questo contesto una boccata d’ossigeno che lascia speranza per un allentamento da parte del regime egiziano sugli oppositori, ma non è sufficiente.
Non è abbastanza poiché Patrick non sarà del tutto libero fino a che non cadranno tutti i capi d’accusa e considerando, soprattutto, l’arbitrarietà del regime egiziano sotto il punto di vista giudiziario.
Arbitrarietà che è ben presente agli occhi di chi oggi, tra i politici della borghesia italiana, esulta per la liberazione e invita al silenzio come il ministro degli esteri Luigi di Maio.
Un silenzio assordante se si considera che la liberazione di Zaki arriva in un momento d’oro per gli affari tra Italia ed Egitto.
Lo denuncia bene Paola Caridi, docente e giornalista, sul suo blog Invisible Arabs, la quale fa notare di come la liberazione di Patrick arriva in un momento nel quale l’Italia si presenta in Egitto come unico sponsor di EDEX, la fiera internazionale degli armamenti che si sta tenendo in Egitto e nella quale la nostra Fincantieri risulta essere lo sponsor principale.
Si sa, gli affari tra Italia ed Egitto vanno a gonfie vele da diversi anni con commesse da miliardi di euro in armamenti, sistemi di sorveglianza e cooperazione tra aziende.
Una partnership che, per dirla con le parole di Di Maio, è ineluttabile a cui non si può rinunciare: sono gli ‘interessi italiani’. Interessi che vanno dal commercio, al blocco della migrazione irregolare e alla stabilizzazione della Libia.
Peccato che questi interessi sono legati a quelli della grande borghesia industriale e alle grandi compagnie energetiche che proprio in Egitto hanno trovato la fortuna. Si pensi a ENI e alle scoperte gasiere nel mediterraneo orientale, oppure agli interessi della stessa compagnia nella vicina Libia. Profitti che con gli anni non hanno portato a nulla se non ad ingrossare le tasche dei padroni e ad alimentare l’instabilità nella regione.
Interessi che non hanno mosso di una virgola la ricerca della verità e della giustizia di Giulio Regeni, rapito, torturato e assassinato al Cairo dal regime egiziano.
Sì, a quanto pare e da quanto emerge dalle carte della Commissione parlamentare sull’assassinio del giovane ricercatore italiano, il regime egiziano è complice del fatto.
Carte che dicono molto su come l’Italia abbia fatto poco o nulla nel metter pressione all’Egitto sia durante i giorni della sparizione – quando Giulio era ancora vivo – e sia dopo il suo assassinio.
Dai documenti emerge infatti che la ripresa delle relazioni – semmai fossero state interrotte – non hanno portato ad una maggior collaborazione, ma ad una continua presa in giro da parte del regime egiziano.
Di fronte alla passività italiana nel chiedere giustizia e verità, vi è stata l’attività incessante dei grandi gruppi industriali nel portare avanti diverse iniziative in Egitto.
Attività che sono strettamente legate all’impianto sovrastrutturale del capitalismo italiano. Lo dimostra la partecipazione di diversi politici italiani al documentario farsa che ricostruisce il ‘caso’ Regeni’ e di come gli stessi, a difesa degli interessi della grande borghesia, sposano tesi complottiste e informazioni che di fatto sono state confutate più e più volte – a partire dall’appartenenza di Giulio ai servizi segreti, fino ad arrivare alle fake news sul conto della sua tutor a Cambridge.
Oggi la borghesia italiana, tramite i suoi portavoce, si dice soddisfatta per la liberazione di Zaki e sul processo ai quattro agenti della National Security egiziana per l’omicidio di Giulio. I grandi media elogiano l’operato del governo, ma, nonostante le parole, Patrick Zaki non è ancora un cittadino italiano e i quattro imputati se ne stanno al Cairo -forse in pensione anticipata- e il regime di al-Sisi compare come il buon padre che perdona i figli birichini.
Aspettiamo Patrick in Italia, esigiamo che gli sia data la cittadinanza e aspettiamo la liberazione di 60.000 prigionier* politici che sono rinchiusi nelle patrie galere egiziane, magari torturati e osservati proprio da tecnologie italiane.
Mat Farouq
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