La rivolta di massa in corso in Kazakistan chiama in causa le relazioni economiche e politiche del sistema imperialista con questo paese.


La prima settimana dell’anno è stata segnata dalla rivolta di massa in Kazakistan, dove la classe operaia – soprattutto nel settore petrolifero – ha giocato un ruolo d’avanguardia, forte di un decennio di esperienza di lotta, come ha ben documentato Yuri Colombo.

In questo articolo ci soffermeremo brevemente sulle radici economiche della mobilitazione, cercando di sgomberare il campo dalle tentazioni di derubricarla come qualcosa di estraneo ai giovanə, ai lavoratorə e agli attivistə in Italia, o peggio come un processo esclusivamente legato allo scontro tra l’“Occidente” e un presunto consolidato asse Mosca-Pechino.

La causa immediata delle proteste è rappresentata dalla decisione da parte del governo di liberalizzare il prezzo del gas a partire da capodanno, conducendo a un’impennata dei costi di butano e metano con cui soprattutto le fasce più povere della popolazione riforniscono i loro mezzi di trasporto. Si è trattato però della goccia che ha fatto traboccare il vaso di una situazione economica estremamente difficile a causa della discesa del prezzo del petrolio cominciata nel 2014, responsabile del tracollo di oltre un terzo del pil pro-capite nel giro di pochi anni, dopo il boom conosciuto nel primo decennio degli anni 2000. Il Kazakistan è infatti un paese fortemente dipendente dalle esportazioni di greggio, pari al 56% del totale. Il 13% di tali esportazioni sono dirette verso la Cina (OEC 2019), un dato che – insieme alla partecipazione del paese centro-asiatico alla Via della Seta e ai suoi rapporti diplomatici e militari con Mosca – ha indotto gli osservatori di area campista e sovranista a speculare sulla natura fondamentalmente geopolitica delle mobilitazioni. Se un’informazione del genere ci insegna qualcosa, è invece soprattutto che il rafforzamento dei legami economici tra il Dragone e paesi periferici come il Kazakistan va nella direzione di riprodurne la dipendenza da poche materie prime e con essa la subordinazione nelle gerarchie dell’economia mondiale. Tuttavia, sarebbe sbagliato pensare che il paese possa essere considerato semplicisticamente all’interno dell’area d’influenza Pechino (o di Mosca, nonostante gli stretti legami diplomatico-militari). Le privatizzazioni dell’era post-sovietica, infatti, hanno letteralmente segnato la svendita del paese a un pugno di oligarchi locali (ex burocrati del PCUS) e alle multinazionali occidentali che monopolizzano l’estrazione e le esportazioni di petrolio. Interessante, a tal proposito, dare un’occhiata alla ripartizione per paese dei flussi di capitale in entrata, in cui si vede bene che Cina e Russia hanno un ruolo marginale.

Figura 1: flusso entrante di investimenti diretti esteri in Kazakistan, fonte: Central Asian Bureau for Analytical Reporting.

 A farla da padrone USA, Svizzera e Olanda, alla cui quota va però sottratta quella di fatto ‘italiana’, dato che l’ENI opera in Kazakistan tramite tre controllate con sede ad Amsterdam [1] e detiene la maggioranza relativa del più grande giacimento offshore del paese (a Kashagan nel mar Caspio).

Nel complesso, la presa dell’imperialismo sull’economia kazaka è davvero impressionante: lo stock di investimenti esteri equivale al 70% del PIL nel 2012, mentre i profitti rimpatriati dalle multinazionali ammontano a circa 20 miliardi nel 2019 (pari a oltre il 12% del reddito nazionale). Significativo come questo dato tenda ad aumentare nonostante la riduzione del prezzo mondiale del petrolio avvenuta negli ultimi anni, segnalando le crescenti concessioni fiscali operate dal governo locale nei confronti del capitale internazionale.

 

Figura 2: il “reddito netto primario”, cioè la differenza tra i redditi entranti riferibili a cittadini residenti all’estero e i redditi uscenti associati a cittadini stranieri residenti nel paese considerato. Tale indicatore può essere utilizzato per approssimare il rimpatrio dei profitti da parte delle multinazionali: maggiore è il valore negativo del reddito primario netto, maggiore è il rimpatrio di capitale. Il dato è calcolato in rubli fino al 1999, poi in dollari americani. Fonte: Banca Mondiale.

La stessa decisione di liberalizzare i prezzi del gas va peraltro inquadrata negli interessi di quest’ultimo; da quando la Cina ha bandito i bitcoin dalla sua giurisdizione, infatti, il Kazakistan è diventato la seconda piattaforma mondiale per l’estrazione di criptovalute, un’attività estremamente energivora che ha dettato un aumento considerevole della domanda locale di idrocarburi. Dal punto di vista degli oligarchi locali e dell’imperialismo, il paese centro-asiatico non è dunque ora interessante solo in quanto base per l’esportazione di gas e petrolio, ma anche come mercato, situazione che rende sempre meno sopportabili i controlli governativi sui prezzi (e non “oggettivamente insostenibili”, come recitano i media mainstream).


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Non sorprende, dunque che – diversamente da testate complottiste come l’Antidiplomatico – la stampa liberale nostrana e occidentale non parli di “rivoluzionare arancione”, ma metta in evidenza l’aspetto violento ed economico delle mobilitazioni (pur deprecando l’intervento armato di Mosca e Minsk). Nel frattempo, nessuna condanna ufficiale dell’operazione diretta dal Cremlino è arrivata dai governi europei – e men che meno da quello USA. Detto questo, è innegabile che i centri imperialisti abbiano un interesse oggettivo a favorire l’ascesa di un governo apertamente filo-occidentale in un contesto di interesse strategico nel quadro dello scontro con Russia e Cina. Tuttavia, anche volendo, non sembrano esistere opzioni credibili in questo senso, come mostra la reticenza a tornare in Kazakistan di Abyazov (oligarca in esilio a Londra e leader del principale partito liberale di opposizione): “vorrei ritornare, ma la gente non capisce quanto sia difficile farlo, dato che ho una condanna a 15 anni in Russia e a vita in Kazakistan”, ha dichiarato venerdì 7 gennaio a Reuters. Di conseguenza, per Washington (ma anche Roma e Parigi) l’azione armata voluta da Putin e Lukashenko rimane l’opzione migliore a tutela degli interessi delle proprie multinazionali di riferimento. Questo, anche nella misura in cui le rivendicazioni anti-imperialiste – come l’espropriazione delle imprese straniere agitata dagli operai del petrolio – sembrano estremamente importanti nelle mobilitazioni. Le masse e gli operai kazaki combattono insomma contro le stesse multinazionali che sfruttano e distruggono l’ambiente in Europa e in Italia, perciò far conoscere e solidarizzare con la loro lotta è perciò dovere di tutti i giovanə, ai lavoratorə e agli attivistə anticapitalisti in Italia.

 

Lorenzo Lodi

 

Note

1. Come si apprende dal sito dell’ENI, si tratta della Agip Caspian Sea, della Agip Karachaganak BV (attive nel settore petrolifero) e della Eni Energy Solution Holding, in espansione nel settore delle rinnovabili.

Nato a Brescia nel 1991, ha studiato Relazioni Internazionali a Milano e Bologna. Studioso di filosofia, economia politica e processi sociali in Africa e Medio Oriente.