Si è concluso il primo turno delle elezioni presidenziali e parlamentari in Brasile. Lula raccoglie il 48,4% dei voti, mentre il presidente uscente Jair Bolsonaro il 43,2%. Un recupero della destra che ha smentito tutti i sondaggi. Si andrà quindi al ballottaggio il 30 ottobre: cosa possiamo aspettarci?

 

Il mancato trionfo della coalizione larga di Lula

Lo scorso 2 ottobre si sono tenute le elezioni generali in Brasile, che comprendevano l’elezione del presidente e del governo centrale, dei governatori statali (il Brasile è una repubblica presidenziale federale con 26 Stati più il distretto della capitale Brasilia), dei parlamenti statali, della Camera federale e di un terzo del Senato federale.

Un ritorno di fiamma: Lula (Luiz Inácio da Silva), ex sindacalista, fondatore del Partido dos Trabalhadores (PT, “Partito dei Lavoratori”) e già presidente tra 2003 e 2011, è riuscito a ottenere la maggioranza relativa dei consensi. Almeno per ciò che riguarda le presidenziali, la coalizione che sostiene Lula si mette in ottima posizione per prendere le redini del paese dopo i cinque devastanti anni dell’amministrazione Bolsonaro. Non si tratta, tuttavia, della vittoria a mani basse che tant* si aspettavano, nelle settimane antecedenti il voto: lo scenario previsto dai sondaggi è stato smentito dal recupero di Bolsonaro, del Partito Liberale e della coalizione che sostiene il presidente uscente. 

L’allargamento della coalizione di centrosinistra ha incluso forze provenienti da quel largo bacino di partiti che forma il Centrão, che si caratterizza non tanto per essere un’area di “centro politico”, quanto una serie di partiti concentrati sulla conquista di posizioni di potere statale a tutti i livelli e sulla conservazione di reti clientelari. La candidatura dello storico esponente di centro-destra Geraldo Alckmin a vicepresidente è il segno più evidente di questo compromesso con diversi partiti borghesi, alcuni dei quali hanno persino appoggiato il golpe giudiziario del 2016 e il successivo governo Temer, che portò alla proscrizione di Lula per le elezioni 2018 e alla vittoria di Bolsonaro. Nonostante tutto ciò, la coalizione Brasil da Esperança (“Brasile della Speranza”) non è riuscita a conquistare la vittoria al primo turno.

A maggior ragione se teniamo conto che anche le terze classificate (con solo il 4,16%), Simone Tebet del MDB e la vice Mara Gabrilli del PSDB, appartengono al Centrão, è innegabile che nell’ultimo quinquennio il baricentro politico brasiliano sia  spostato drasticamente a destra, nonostante l’ascesa di una serie di movimenti sociali di portata rilevante, a partire dal movimento transfemminista nei giorni della proclamazione di Bolsonaro, ma anche il movimento antirazzista e quello ecologista, i quali si sono più volte intersecati su questioni quali il disboscamento dell’Amazzonia e la violenza sistemica perpetrata a danno delle comunità indigene che la vivono. 

Jair Bolsonaro è stato in grado di catturare il consenso di gran parte dell’elettorato storico del centro-destra, in passato rappresentato soprattutto dal Partito Social Democratico Brasiliano, il quale ha deciso di porre le proprie speranze in una maldestra coalizione con il Movimento Democratico Brasiliano e ha perso gran parte delle sue roccaforti storiche, a partire dall’area metropolitana di São Paulo. In questo contesto, nonostante la vittoria al ballottaggio non sia certa, il lavoro politico di Lula e del PT si può dire comunque un parziale successo: dalla condanna al carcere al ritorno sulla scena politica dopo l’assoluzione in via definitiva dei reati dei quali era accusato nel 2016, Lula e la sua candidatura sono stati il perno della resurrezione del PT. Una resurrezione che si è retta interamente sullo sforzo elettorale di quest’anno, tanto che, al fine del successo elettorale stesso, il partito ha praticamente svolto da pompiere in tutti i movimenti sociali citati, che si sono sviluppati in opposizione alle politiche predatorie attuate da Bolsonaro. La compiacenza da parte della CUT (la principale federazione sindacale brasiliana) alle privatizzazioni che hanno avuto luogo in importanti settori economici del paese (ultimo caso, ma non per importanza, quello della società Eletrobras) è solo un riflesso di quanto affermato da Lula in campagna elettorale alla CNN: non si vuole cercare di annullare le privatizzazioni bolsonariane, semmai “potenziare” quei settori a partecipazione pubblico-privato che hanno contraddistinto la stagione amministrativa di Lula in passato, con particolare rispetto e attenzione verso la borghesia nazionale disillusa dall’esperienza del governo Bolsonaro. 

La nomina a vicepresidente di Geraldo Alckmin, storico esponente del PSDB liberale (candidato presidenziale alle elezioni del 2006 e 2018 per l’allora principale partito del centro-destra, approdato da appena un anno tra le fila del PSB, Partito Socialista Brasiliano) è in linea con questo progetto, ed è una mossa di chiara intelligenza politica al fine di sancire l’appoggio della maggioranza della classe dominante brasiliana, e dei Democratici al governo negli USA, alla coalizione di Lula. La sponda storica del centro-destra, in sostanza, sembrerebbe pronta a scendere a patti con Lula in nome di un’ipocrita “difesa della democrazia”. A perderne, come sempre in questo caso, sono sfruttat* e oppress* del Brasile, che si troveranno a fronteggiare o politiche di conciliazione nazionale a tutto svantaggio loro, o un acuirsi della violenza reazionaria che contraddistingue il progetto politico bolsonariano.

 

Bolsonaro “non vince ma non perde”: cosa significa questo ballottaggio per la destra?

Le ricadute terrificanti a seguito dei processi di privatizzazione dell’economia, la gestione tardiva e complottistica della diffusione del COVID-19, il progressivo disboscamento dell’Amazzonia: questi e tantissimi altri fattori hanno contribuito a rendere il governo Bolsonaro progressivamente più impopolare per fasce sempre più larghe della popolazione. Alla fine del suo mandato, l’ex-presidente aveva un tasso del 43% di disapprovazione del suo operato di governo, ma nei mesi precedenti aveva raggiunto anche picchi del 56%, stando ad alcuni sondaggi. Sembrava che il trend andasse nella direzione di una conferma per acclamazione popolare di Lula, in questa elezione: la realtà si è presentata in maniera ben diversa. Con il 43,6% dei consensi, Jair Bolsonaro si è assicurato un secondo tentativo per l’assalto alla presidenza, e oggi si trova paradossalmente ad avere l’iniziativa. Nei mesi di campagna è stato in grado di radunare attorno a se diverse organizzazioni di destra, ma il vero e più importante strumento di manipolazione che si trova a disposizione del candidato del PL è quello dell’accusa di un conteggio falsato dei voti. Una strategia appresa ed elaborata in coordinamento con altre forze della reazione a livello mondiale (il “blueprint” è quello di Trump, il quale prima del primo turno aveva registrato un apposito messaggio di supporto); già da mesi Bolsonaro agitava lo spettro del controllo dei militari sul voto, al fine, a suo dire, di garantire la regolarità del processo elettorale. Si tratta però, chiaramente, di un tentativo di utilizzare i profondi legami stabiliti durante la sua carriera politica col fine di limitare i diritti democratici e mettere in un angolo l’opposizione: più il gap con Lula tende a restringersi, più si sentirà legittimato ad utilizzare la minaccia di una seconda conta per invocare l’intervento dei militari, i quali già hanno presidiato le urne in diverse parti del paese durante la prima tornata. L’intimidazione delle fasce più esposte della popolazione, e soprattutto di quelle più inclini a dare il proprio sostegno a Lula, il quale non ha mai perso di popolarità in maniera sostanziale nemmeno durante la fase della sua prigionia, è uno strumento classico nell’arsenale reazionario di Bolsonaro ed è perfettamente in linea con le strategie del neoconservatorismo che ci troviamo da diversi anni a fronteggiare in tutto il mondo: anche per questo è necessario organizzare la classe operaia in maniera combattiva e lungo linee politiche chiare di rottura con i padroni ed il proprio governo. La borghesia sa scegliersi molto bene i suoi alleati, e qualora Bolsonaro dovesse effettivamente riuscire ad attirare a se sufficient* elettor* al ballottaggio, la necessità di un movimento operaio forte, in grado di coordinare la risposta ad una rinnovata ondata di violenza di Stato sarà ancora più importante che nei mesi che ci hanno preceduto. Tuttavia, il PT sembra di altri auspici.

 

La strategia del PT è la conciliazione di classe, non la difesa della classe lavoratrice

Fiumi di inchiostro virtuale sono stati spesi per descrivere la traiettoria politica del Partito dei Lavoratori, dagli anni della sua costituzione, all’era di Lula e Dilma Rousseff, fino alla debacle di Haddad e ad oggi. Un partito che nel tempo è stato in grado di ergersi a principale esponente politico della classe lavoratrice brasiliana, il risultato di un lungo lavoro di radicamento nelle principali strutture sindacali del paese (strutture sindacali da cui è emersa, infatti, la più solida fascia di dirigenti storici del partito), si ritrova ancora una volta a un passo dalla nomina di un suo leader a presidente. Il ritorno di Lula è stato accolto con grande entusiasmo anche fuori dal PT, con il principale partito alla sua sinistra, il PSOL (Partido Socialismo e Liberdade, in cui in passato hanno partecipato diverse anime della sinistra anticapitalista) che ha subito colto l’opportunità, in occasione di queste elezioni e di quelle locali per il sindaco di São Paulo, di rinsaldare vecchi legami recisi durante la fase della scissione dal PT nel 2004. 

La coalizione di Lula ha alla base la premessa della “conservazione della democrazia”, in una chiave di governismo progressista-populista non dissimile dall’ondata che ha coinvolto diversi paesi dell’America Latina negli ultimi anni. Tuttavia, proprio come in altri casi, le assi che scricchiolano nel pavimento del progetto sono il lascito di una politica storica di conciliazione di interessi di alcuni settori della borghesia nazionale e dell’imperialismo americano, sulla base della quale, poi, si è andato a costruire un sistema di tutele a vantaggio delle classi popolari effettivamente migliore di ciò che lo ha preceduto. Il PT non ha mai osato sfidare il sistema capitalista oltre quanto gli permettessero questi limiti stringenti: i governi di Lula hanno applicato tutti i dettami stabiliti dal Fondo Monetario Internazionale nei primi anni 2000, aprendo la strada a privatizzazioni di settori strategici, compromessi con il PSDB e partecipazioni pubblico-privato in molte aziende, volte a finanziare una serie di programmi sociali che hanno avuto successo, in un certo modo, ad alzare il tenore di vita di milioni di persone nel breve periodo. Lula stesso ha ammesso più volte di non aver mai voluto tentare di percorrere la via rivoluzionaria, come ad esempio si evince dal documentario del 2019 dal titolo The Edge of Democracy (diretto da Petra Costa, figlia di alcuni dei primi attivisti intellettuali che si organizzarono intorno a quel che sarebbe diventato il PT durante la dittatura militare). 

Un riformismo in salsa brasiliana che, per molt*, ancora oggi rappresenta il migliore avanzamento sociale dai tempi dell’indipendenza del paese. Se nel breve periodo i programmi implementati dalle amministrazioni di Lula hanno effettivamente aumentato il tenore di vita delle fasce popolari, però, hanno poi anche costruito l’impalcatura principale per un processo di svendita del paese che oggi si trova alla base dell’impoverimento di quegli stessi ceti bassi: il capitale viene sempre a chiedere il conto quando c’è da pagare le sue crisi cicliche. Si tratta di un passaggio importante per capire uno dei problemi cardinali del programma elettorale del PT: non soltanto oggi appare chiaro che c’era una situazione circostanziale, limitata a una congiuntura, che ha permesso al Brasile di Lula di uscire dalla fossa del debito pubblico nei primi 200, e ad avere un surplus nei propri conti pubblici; ma soprattutto i presupposti di ciò che Bolsonaro ha fatto in Brasile avevano le proprie radici nei progetti di “modernizzazione” economica imposti da Lula e da Dilma. Anche volendo cercare di attuare scelte come il famoso abbassamento dei tassi di interesse proposto dall’allora ministro delle finanze, Guido Mantenga, le premesse politiche del PT gli negano di fatto un ritorno ai “fasti” di vent’anni fa: se, infatti, già da prima delle elezioni, Lula aveva garantito il sostanziale mantenimento delle privatizzazioni del quinquennio Bolsonaro, oggi si trova a dover elemosinare al PSDB i voti necessari per vincere al ballottaggio, e questo vuol dire accettare di scendere a patti con quello stesso centrodestra (oggi “anti-bolsonariano”) che prima veniva sconfitto nelle urne. 

In questo senso, la vittoria della coalizione del PT non rappresenta in nessun modo una vittoria della classe lavoratrice contro la destra: non solo perché parte della vecchia destra è in coalizione col PT, ma perché già prima non c’era nessun programma e nessuna prospettiva di indipendenza di classe e di mobilitazione attiva contro i capitalisti e Bolsonaro.

 

Il compromesso col Centrão a danno delle masse popolari

Di fronte allo scenario che aspetta il Brasile, il 30 ottobre, ci sono altri, importanti attori che possono determinare l’esito del voto: la coalizione MDB-PSDB (oltre che a una serie di più piccole organizzazioni liberal-conservatrici) esce frastornata dal primo turno a seguito dell’emorragia di elettori che ha subito verso il Partito Liberale. Si tratta di un momento quasi “ricostitutivo” per le strutture storiche del centro-destra brasiliano, in cui a costo di non schierarsi con Jair Bolsonaro sembra quasi appetibile venire a compromessi con l’odiato rivale del PT. Ciò avviene per effetto di una disillusione montata nel tempo da parte di alcuni settori della borghesia brasiliana, che paradossalmente sono gli stessi che fomentarono l’evoluzione dell’inchiesta “Lava Jato” in un golpe giudiziario, e colpirono Lula tramite i vari procedimenti giudiziari che lo hanno escluso per un periodo dalla vita politica del paese. Tra i capifila di questa coalizione troviamo Sergio Moro in persona, il giudice che condannò Lula nel 2017 e che da quel momento capitalizza (con discreto successo) la visibilità ottenuta in un momento in cui il giustizialismo era alle stelle in ampi strati della popolazione. I compromessi presi da Lula con la borghesia e la corruzione dilagante anche nel PT non sono assolutamente inventati, per quanto in parte distorti da Lava Jato; strumentale fu, invece, l’isteria manettara che emerse in una fase in cui alcuni interessi sembravano essere toccati per la prima volta in maniera rilevante. Nella sua circoscrizione, Sergio Moro è stato uno degli unici eletti della sua coalizione alla posizione di Senatore – e come lui, tanti altri che elevarono a simbolo le manette verso un presidente che, alla fine dei conti, non aveva fatto niente più e niente meno di quanto già non facciano centinaia di capi di Stato in nome della tutela della stabilità del sistema economico dei propri paesi, tant’è che, preso atto del carattere arbitrario dell’inchiesta, è stato del completamente prosciolto. Tuttavia, questo non sembra preoccupare Lula, il quale gioca da una posizione di vantaggio: chi andrà a pagare il prezzo di questi compromessi tra partiti e poteri istituzionali sarà la classe lavoratrice e l* oppress* di tutto il Brasile, e Lula è disposto a prendersene la responsabilità. Anche perché, in termini di sponde a sinistra, lo scenario è abbastanza gramo: il principale avversario nel centrosinistra non inquadrato nella coalizione del PT, ovvero il Partito Democratico del Lavoro di Ciro Gomes (che, lungi dal replicare l’exploit del 2018 in cui prese il 12% dei consensi, si è fermato solo al 3%) è storicamente stato in favore di processi di liberalizzazione dell’economia, criticando anzi in diversi momenti il percepito “lassismo” del PT negli sforzi di “modernizzazione” dell’economia. Di fronte alla possibile vittoria a sorpresa di Bolsonaro, il PDT non ha potuto che garantire il proprio sostegno al PT durante il secondo turno.

La capitolazione più grave avvenuta a sinistra, però, è quella del PSOL. Quello che era nato come un partito contrapposto al PT, che rivendicava un’orientazione classista e in senso ampio anticapitalista, si è mano a mano convertito in un partito di potere, disposto a ampie alleanze con settori “democratici” borghesi pur di vincere le elezioni a vario livello… esattamente come il PT. In questo senso, costituisce una perfetta spalla “di sinistra” del progetto politico lulista, anche perché non è mai riuscito a sfondare l’elettorato del PT. Uno dei momenti cardinali di questa convergenza (che sa, per l’appunto, di un ritorno all’ovile) è stata la campagna elettorale per il sindaco di Sao Paulo di Guilherme Boulos, uno dei volti pubblici più popolari del PSOL, alla quale partecipò anche il PT. In quell’occasione, la coalizione arrivò al ballottaggio ma perse contro Bruno Covas, il candidato del centrodestra, ma ciononostante quella del 2020 si trattò di una campagna in grado di attirare grande attenzione, e la coalizione di allora ha fatto da apripista a quella di oggi. Da sempre uno dei rappresentanti dell’ala dei conciliatori pro-PT, Boulos ha senz’altro abbracciato al 100% la prospettiva di fronte democratico esposta dal PT all’inizio delle elezioni, e ci si può aspettare un approfondimento ulteriore di questa collaborazione oltre il momento elettorale (momento elettorale in cui, nonostante un netto ridimensionamento delle preferenze, Boulos è riuscito ad aggiudicarsi uno scranno da deputato federale), anche alla luce della rivendicazione di una linea di “fronte popolare” da parte di alcune aree della sinistra interna del PSOL, e dell’uscita del settore più apertamente opposto al PT attorno al professore di economia Plínio de Arruda Sampaio Jr. In tutto ciò, vengono deluse importanti aspettative che stavano maturando negli strati più attivi dell* oppress* in Brasile: a partire dal movimento operaio, che a più riprese ha tentato di far fronte alle politiche di privatizzazione intraprese da Bolsonaro, solo per vedersi limitato nei suoi sforzi da una burocrazia sindacale forte e radicata che ha sempre smorzato qualsivoglia richiamo allo sciopero generale (sotto l’egida politica del PT), anche i movimenti ecologista e transfemminista dovranno affrontare l’enorme freno che la direzione del PT e dei suoi soci politici e sindacali costituiscono per il rilancio e la radicalizzazione dei movimenti sociali, favorendo la svendita del paese al grande capitale, a partire da quello americano. Non è possibile dimenticare, in nome di una conciliazione storica sempre più probabile, l’impatto devastante apportato dai governi Lula e Dilma al disboscamento dell’Amazzonia, alla repressione delle comunità indigene e alle iniziative prese in campo di concessione di spazi naturalistici sensibili per mega-progetti, come avvenne nel 2014 con il campionato mondiale di calcio. Anche su questo terreno, la “alternativa” al bolsonarismo sarà ben più sfumata di quanto sostengono i fan di Lula in patria e all’estero. 

 

Che vinca Lula o Bolsonaro, serve una sinistra anticapitalista della classe lavoratrice e dell* oppress*

La violenza terrificante del governo Bolsonaro contro pover*, lavorator*, donne, persone queer e persone razializzate sta alla base della sua sconfitta al primo turno, questo dato è innegabile: la paura di altri quattro anni di amministrazione reazionaria è comprensibile e totalmente legittima. Lo è, poi, soprattutto alla luce della pesante tradizione della dittatura militare e dell’utilizzo sfrenato della violenza nelle operazioni di polizia ufficiali o compiute tramite paramilitari e squadracce, fino al palese omicidio politico, come nel caso di Marielle Franco. Ma tutto ciò ha forti tratti di continuità con le politiche precedenti della borghesia brasiliana, anche quando ha gestito il paese con l’aiuto del PT. In questo senso, la vittoria di Lula non significherà una rottura con le politiche liberali, anche se interromperebbe il consolidamento di un bonapartismo di destra, reazionario, come quello di Bolsonaro. La lotta contro il carattere antidemocratico e antioperaio dello Stato brasiliano è per questo strutturale, e non si risolverà minimamente col governo del PT e della sua coalizione larga. 

In tal senso, la nostra organizzazione sorella in Brasile, il Movimento Revolucionário de Trabalhadores (MRT, “Movimento Rivoluzionario dei Lavoratori), si batte per l’indipendenza della classe lavoratrice e dei movimenti sociali dalla classe dominante e dai suoi partiti, contro il collaborazionismo del PT e del PSOL, e per la formazione di un partito effettivamente indipendente, anticapitalista di sfruttat* e oppress*, che possa dirigere la lotta di classe, la lotta politica. Per questo, l’MRT ha partecipato al Polo Socialista Rivoluzionario, lanciato dal PSTU (un’altra organizzazione che si richiama al trotskismo ed è concentrata nel sindacalismo di base della confederazione CSP-Conlutas) insieme ad altre componenti dell’estrema sinistra brasiliana. Dopo la presentazione elettorale (resa ancora più difficile requisiti estremamente esigenti della burocrazia statale), è fondamentale che si torni il prima possibile nelle strade, per la difesa dell’ambiente, contro l’estrattivismo delle grandi aziende energetiche e depredatrici del territorio, contro i rappresentanti del capitalismo finanziario che da decenni tentano di affamare il popolo brasiliano (e che oggi non si fanno problemi a tenere incontri ed accordi con Lula, come nel caso del presidente della FEBRABAN, Isaac Josè Sidney) e contro la violenza sistemica che vittimizza donne, persone queer e persone razializzate, specie se tentano di organizzarsi per combattere la propria oppressione. Per dare una soluzione dalla parte della classe lavoratrice, anticapitalista, alla situazione del paese.

Non è possibile aspettarsi che questa risposta arrivi dal PT, che più di una volta ha specificato la sua posizione riformista e conservatrice dell’impianto sociale che regola il funzionamento del paese: la via d’uscita dev’essere rivoluzionaria, e deve partire da quei settori che hanno pagato e pagheranno di più le crisi dei capitalisti, dei settori più oppressi della società brasiliana.

 

Luca Gieri

 

Nato a Toronto nel 1998, studente di scienze politiche all'Università di Bologna presso il campus di Forlì, militante della FIR e redattore della Voce delle Lotte. Cresciuto a Bologna, ha partecipato ai movimenti degli studenti e di lotta per la casa della città.