Nonostante i riflettori della geopolitica e delle relazioni internazionali siano concentrati nel quadrante orientale dell’Europa a seguito della crisi ucraina, la Tunisia sta riempiendo sempre più le pagine dei principali quotidiani italiani. In questo articolo ricostruiamo il significato politico dei recenti accordi tra il paese nordafricano, l’Italia e l’UE, collocandoli nelle strategie dell’imperialismo e di come esse si intreccino con le dinamiche di lotta di classe e crisi politica che hanno animato la Tunisia nell’ultimo decennio. Meloni & Co vogliono davvero “aiutarli a casa loro”? Qual’è la portata del “ricatto migratorio” di Kais Saied? Qual’è il ruolo dei sindacati e della sinistra tunisina nella crisi in corso?


A luglio, una delegazione guidata dall’Unione Europea nelle vesti dalla Presidente della Commissione Ursula Von der Leyen, da Giorgia Meloni e dal premier olandese Mark Rutte si è recata per la seconda volta in pochi mesi in Tunisia per firmare un memorandum di intesa che a quanto è circolato sui media (visto che il testo rimane riservato) avrebbe come obiettivo una cooperazione che va dal piano del commercio e degli investimenti, a quello del sostegno finanziario, fino alla gestione dei flussi migratori. Tali impegni sono stati confermati ieri in occasione della conferenza sul Mediterraneo, svoltasi a Roma, riunendo esponenti UE – tra cui ancora Ursula von der Leyen e Meloni – e vari capi dei regimi della sponda sud del Mediterraneo.

Tutto ciò avviene in un contesto in cui il regime tunisino, capeggiato dall’uomo solo al comando, Kais Saied, è ormai da più di un anno impegnato nelle trattative per un prestito da 1,9 miliardi di dollari con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) per far fronte al pericolo di un tracollo finanziario. Con l’aumento dei generi alimentari legato alla guerra in Ucraina (la Tunisia importa oltre il 50% del grano) e l’impennata dei prezzi delle materie prime energetiche (nel paese la produzione di idrocarburi è in stallo da tempo), il deficit commerciale ha raggiunto il livello record di quasi 3 miliardi di euro (circa il 10% del pil). Nel frattempo, per evitare il crollo del dinaro e scongiurare fughe di capitali di fronte alla stretta monetaria della BCE, da un lato, la banca centrale tunisina ha dato fondo alle riserve di valuta estera (che possono ormai coprire solo 3 mesi di importazioni), dall’altro, ha aumentato i tassi d’interesse, con l’effetto di deprimere la crescita, molto debole, attorno al 2% negli ultimi 3 anni, dopo il crollo dell’8% del 2020.

La difficoltà per il raggiungimento di un accordo sta nelle riforme che l’istituzione finanziaria richiede, come sempre, ai paesi che vi fanno ricorso. Si tratta soprattutto di tagli al numero e ai salari dei dipendenti pubblici, e alle sovvenzioni sui generi alimentari e la benzina; necessari, almeno in teoria, a ridurre il fardello del debito e a incentivare una ripresa degli indicatori macroeconomici, ma che di fatto hanno come unico obiettivo quello di creare le migliori condizioni di investimento (si legga: sfruttamento) per il capitale nazionale e, soprattutto, internazionale. Come vedremo, la crisi – sia economica che politica – che attanaglia il paese è per altro molto legata alle stesse politiche dell’FMI portate avanti nell’ultimo decennio.

 

L’accordo Meloni-Von der Leyen-Saied: aiutiamoli a casa loro?

Come abbiamo già raccontato in un articolo del quinto numero di Egemonia, l’Unione Europea (e le potenze che ne fanno parte, in primis l’Italia) gioca un ruolo imperialista egemone all’interno della regione nord-africana, nonostante l’inserimento di nuovi attori come la Turchia, la Cina e le Monarchie del Golfo. Solo alla luce di questa constatazione è possibile giudicare il significato dell’accordo tra Saied-Meloni-Von der Leyen e Rutte.


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Il Team Europe, così lo ha rinominato la presidentessa della commissione UE, si è posto l’obiettivo di sostenere il paese nordafricano con circa un miliardo di euro. Essi non arriveranno però ‘gratis’, ma sono vincolati alla conclusione degli accordi con il Fondo Monetario Internazionale e alle conseguenti politiche di ristrutturazione. Soltanto 150 milioni del miliardo promesso verranno elargiti ‘senza condizionalità’, insieme ad altri 105 per finanziare le attività di controllo delle migrazioni, per cui si configura un modello di gestione ‘a là libica’, con lager e rimpatri forzati dall’UE verso la Tunisia, e da qui in direzione di paesi africani con i quali non c’è nessun accordo, quindi condannando migliaia di persone alla morte nel deserto.

In altri termini, i soldi arrivano solo a garanzia che Saied riesca a portare a termine gli attacchi ai lavoratori e alle masse marginalizzate tunisine, nonché ai migranti dell’Africa sub-sahariana che transitano per la Tunisia con la speranza di arrivare in Europa. Licenziamenti di massa nel settore pubblico e più restrizioni alle migrazioni significano infatti aumento dell’esercito industriale di riserva, quindi della “manodopera a basso costo”, grazie alla quale la Tunisia è una piattaforma di esportazione privilegiata per i capitalisti delle confezioni tessili italiani e delle componenti automotive elettriche ad alta intensità di lavoro per quelli tedeschi e francesi. Creazione di nuovi lager in Nordafrica e maggiori possibilità di espulsione dall’UE, di contro, rendono più ricattabili i lavoratori maghrebini e subsahariani che lavorano nelle campagne e nelle fabbriche europee.

L’accordo contiene in effetti anche l’impegno a nuovi investimenti, soprattutto nel settore delle energie rinnovabili, per le quali il Nord Africa sembra essere una zona cardine nella messa a punto della nuova svolta green UE. Una svolta fondata, come alcuni studi dimostrano, in uno sperpero di energie primarie come l’acqua (la Tunisia è uno dei paesi che più sta soffrendo per carenze idriche ricorrenti) e il consumo di suolo, con l’effetto di peggiorare il deterioramento dell’agricoltura locale e quindi la dipendenza alimentare. A guadagnarci sarebbero insomma soltanto i paesi imperialisti europei e una manciata di grandi gruppi UE come l’ENI. Il grosso dell’energia verrebbe infatti esportata e gli elevati costi dell’energia continuerebbero a essere un ostacolo per la bilancia dei pagamenti e l’industria tunisine, contribuendo a riprodurre la dipendenza dai finanziamenti esteri e dall’esportazione di merci a basso valore aggiunto nelle filiere dominate dalle multinazionali italiane, francesi e tedesche.

In sintesi, con la scusa di risolvere la grande ‘emergenza’ migratoria si riescono a combinare gli interessi dell’imperialismo con le esigenze di legittimazione dei governi europei. Non è un caso che molti giornali della borghesia, così come molti analisti, in Italia hanno applaudito il governo Meloni per la sua azione in chiave migratoria all’interno dell’impalcatura europea, parlando dell’accordo come un modello da seguire. Ma se in questo quadro la Tunisia sembra perdere su tutti i fronti, a che gioco sta giocando Saied?

 

Saied contro le “ingerenze esterne”: ideologia anti-imperalista o dividi et impera bonapartista?

Molti analisti internazionali, soprattutto statunitensi, quando descrivono la politica interna tunisina e le azioni del governo Saied, sono estremamente convinti che il suo rifiuto ad accordarsi col Fondo Monetario Internazionale sia frutto di un atteggiamento ideologico contro una forma di “ingerenza esterna”.

La realtà è che il potere di Saied si appoggia sugli apparati repressivi, su settori di burocrazia nostalgici dello Stato forte – e particolarmente compiacente nei confronti del capitale internazionale – del dittatore pre-2011 Ben Ali, oltre che sul sostegno implicito della borghesia tunisina. Per quest’ultima, il Presidente non è certo la carta privilegiata (si tratta di un outsider rispetto all’elite economica), ma non ci sono alternative nell’ottica di riportare il paese alla stabilità, quindi a un “clima di affari normale”, dopo dieci anni di mobilitazione sociale ininterrotta. Si tratta però solo di una faccia della medaglia: l’anziano ex-professore di diritto costituzione è infatti riuscito nel suo colpo di mano del luglio 2021 anche grazie al sostegno di strati popolari insofferenti nei confronti dei vari governi, spesso a guida islamista, che dal 2011 in poi hanno cercato di portare avanti l’agenda dell’FMI.

In effetti, l’ultimo decennio è stato caratterizzato da pressioni costanti provenienti dalle istituzioni finanziarie internazionali. Esse – scontrandosi con una forte opposizione, animata soprattutto dalle masse marginalizzate e dai dipendenti statali organizzati dall’UGTT (Unione Generale Tunisienne du Travail) – non sono state in grado di colpire in maniera diretta le sovvenzioni ai generi alimentari e gli stipendi pubblici. Come contro-partita, l’FMI è però riuscito ad ottenere politiche di svalutazione del dinaro, in teoria volte ad aumentare le esportazioni e ridurre i deficit commerciali, quindi a rendere più sostenibile il debito estero, ma in pratica devastanti a causa dell’enorme dipendenza del paese dalle importazioni e dal credito internazionale. L’effetto è stato infatti un’erosione dei salari reali a causa dell’aumento del prezzo dei beni importati, ma anche un incremento esponenziale debito pubblico (ora pari al 100% del PIL) denominato per la maggior parte in euro. Tutto ciò ha dettato un forte peggioramento della crisi delle finanze pubbliche e di conseguenza una tendenza al deterioramento e alla privatizzazione dei servizi pubblici, in particolare della sanità e dell’istruzione.

Per fare gli interessi delle frazioni dominanti della burocrazia di Stato, della borghesia e dell’imperialismo, Saied deve quindi fare i conti le aspirazioni che egli ha incarnato agli occhi dei settori popolari (il cui sostegno è però sempre meno assicurato, come attesta il 20% di affluenza alle legislative dello scorso dicembre, tenutesi sulla base di una riforma costituzionale antidemocratica voluta da Saied stesso). Questo, non un’opposizione ideologica di principio, la spiegazione della retorica demagogica contro le istituzioni finanziarie internazionali, accompagnata da una campagna d’odio razzista nei confronti degli immigrati subsahariani che minaccia di favorire l’esodo verso l’Europa. Alla luce delle condizioni del patto con il Team Europe, più che un vero e proprio “ricatto migratorio”, tale aspetto deve essere però letto come un tentativo di guadagnare un po’ di tempo prima di affondare con le contro-riforme volute dall’FMI e magari ammorbidirle quel tanto che basta per assicurarsi la complicità delle burocrazie sindacali dell’UGTT; complicità che non è mancata nell’ultimo periodo, in cui l’organizzazione dei lavoratori è rimasta completamente passiva di fronte al vero e proprio pogrom nei confronti dei subsahariani avvenuto a Sfax alcune settimane fa.

Saied risulta insomma – alla pari di altri dittatori nella regione – un attore chiave per favorire gli interessi dell’imperialismo occidentale sia dal punto di vista strettamente economico che da quello più politico del controllo dei flussi migratori (leggasi: della svalorizzazione della forza-lavoro razzializzata in Europa e in nordafrica). Insistere su questo punto è importante, poiché rigira completamente la narrativa attorno al presidente tunisino secondo cui esso potrebbe in qualche modo tenere sotto ricatto l’Europa, oltre a minacciare di aumentare l’influenza nel Mediterraneo di potenze come Russia e Cina (sia detto di passata: se è vero che la Tunisia è recentemente entrata a far parte della banca di sviluppo dei BRICS, anche l’istituzione finanziaria dominata da Pechino vincola i suoi prestiti ad accordi preventivi con il Fondo Monetario Internazionale a guida USA).

 

Lo spettro della rivoluzione del 2011 e la crisi della sinistra radicale tunisina

La forte crisi economica dell’ultimo decennio, nonché gli effetti della pandemia e della guerra in Ucraina hanno contribuito a un graduale impoverimento della popolazione e soprattutto della classe lavoratrice. Combinato alla disillusione dopo 10 anni di lotte senza cambiamenti reali, il peggioramento delle condizioni di vita delle masse ha favorito un clima crescente di passività politica negli ultimi due anni. Se nell’aprile 2019 le proteste contate dall’ONG FTDES (Forum Tunisien pour les Droits Economiques et Sociaux) erano nell’ordine del migliaio, nello stesso mese del 2023 la cifra è di soli 270 eventi recensiti. Nel frattempo, il presidente e gli apparati repressivi ne hanno approfittato per unire il bastone alla carota e arrestare centinaia tra sindacalisti, giornalisti e attivisti politici e sociali.


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Nel dare conto di questa spirale negativa, non possono essere trascurati gli errori di una sinistra radicale focalizzata più sulla partecipazione senza principi all’arena elettorale, che sul sostegno attivo alle masse marginalizzate e dei lavoratori in lotta nell’ultimo decennio. Parliamo del Partito Comunista dei Lavoratori Tunisino – stalinista con aspirazioni “euro-comuniste” che l0 hanno condotto a cambiare il proprio nome in Partito dei Lavoratori, dopo il 2011 – e del Partito dei Patrioti Democratici – di origine maoista e caratterizzato da un’impostazione particolarmente tappista, per cui prima della rivoluzione socialista sarebbe necessario allearsi con la borghesia per sbarazzarsi dei residui feudali e della borghesia compradora, rappresentati dagli islamisti e principali alleati del capitale internazionale.

Un tale approccio, ha condotto il Partito dei Patrioti Democratici a sostenere più volte nell’ultimo decennio il partito secolare Nidaa Tounes – che ha gestito la transizione democratica con gli islamisti di Ennadha – fingendo che i capitalisti industriali in esso rappresentati non fossero subalterni al capitale internazionale (vice-presidente di questa organizzazione era Faouzi Elloumi, uomo più ricco del paese e fornitore di cavi e fasci di cavi, assemblati da forza lavoro super-sfruttata, per l’industria auto tedesca e francese). I maoisti sono stati inoltre una delle pochissime organizzazioni a partecipare alle elezioni farsa volute da Saied nel dicembre scorso; e questo non certo in una logica bolscevica volta a non perdere l’opportunità di ritagliarsi una tribuna politica, ma all’interno di una ‘tattica’ di sostegno critico al presidente.

Il fatto più grave è però che l’opportunismo della sinistra radicale tunisina abbia screditato l’idea stessa di organizzarsi politicamente agli occhi di molti potenziali leader delle masse marginalizzate e dei lavoratori. In questo modo, si è creato il terreno propizio per la cooptazione di un’intera generazione di attivisti in ONG, spesso finanziate dall’occidente, che hanno incentivato un approccio burocratico alla partecipazione politica, oltre a porre non di rado veri e propri vincoli in termini di agenda politica (tutta all’interno della logica liberale della “transizione democratica”).

Oggi, i fronti di lotta aperti nel paese restano comunque molteplici e vanno dalla crisi economica, fino alla lotta contro la discriminazione dei migranti subsahariani. La base dell’UGTT mantiene ancora settori di attivisti radicali, mentre l’ottobre dello scorso anni i giovani proletari e marginalizzati delle periferie di Tunisi hanno fatto vedere tutto il loro potenziale in termini di mobilitazione dopo l’assassinio di un coetaneo da parte della Polizia. In questo solco, la classe lavoratrice potrebbe ancora giocare un ruolo centrale per unire le varie istanze e respingere in maniera netta l’agenda politica, economica e finanziaria dell’imperialismo occidentale. La lotta dei lavorator* e delle masse marginalizzate tunisine è quindi la stessa dei giovan* e dei lavorator* italiani, preda degli attacchi da parte degli stessi governi che opprimono la ‘sponda sud’ del Mediterraneo.

 

Mattia Giampaolo

Django Renato

Laureato in storia contemporanea dei paesi arabi alla Sapienza di Roma, nel 2018 ha conseguito il master in Lingue e Culture orientali alla IULM University.
Dottorando alla Sapienza presso il Dipartimento di Scienze Politiche, con una tesi su Gramsci, la rivoluzione passiva e la Primavera Araba.

Ricercatore indipendente, con un passato da attivista sindacale. Collabora con la Voce delle Lotte e milita nella FIR a Firenze.