L’importanza del movimento contro la riforma delle pensioni in Francia ha alimentato, oltralpe, una crescente discussione rispetto al rapporto delle lotte in corso con una più complessiva strategia anticapitalista. Nelle settimane passate abbiamo tradotto vari contributi in questo senso scritti da membri della nostra organizzazione sorella, Révolution Permanente. Il ruolo molto dinamico giocato dai compagni all’interno della mobilitazione ha attirato, da un lato, l’attenzione della stampa mainstream, dall’altro, quella di settori di estrema sinistra vicini a una prospettiva di sostanziale appoggio al progetto politico di Melenchon.

In questo contesto, si inserisce un articolo di Ugo Palheta, sociologo e condirettore di Contretemps – Revue de Critique Communiste. Il pezzo, intitolato “Undici tesi politiche sul movimento di Gennaio-Marzo 2023” dedica una parte importante a criticare le posizioni espresse dal dirigente di RP Juan Chingo. In particolare, l’autore sostiene la necessità di focalizzarsi sul rafforzamento istituzionale de la Nouvelle Unione Populaire Ecologiste et Socialiste – NUPES, invece di impegnarsi in sforzi “volontaristi” per coordinare le lotte dal basso e mostrare la possibilità di un’alternativa alla strategia a perdere delle burocrazie sindacali nazionali. L’articolo di Palheta è stato tradotto la settimana scorsa da Potere al Popolo [leggilo QUI]; un’operazione meritoria, visto lo spirito da tifosi con cui si è soliti trattare i processi di lotta che avvengono all’estero (ma non solo, come ha dimostrato il caso della GKN, a partire dal quale sono veramente in pochissimi ad aver cercato di muovere per riflettere su questioni strategiche e di costruzione politica). Proponiamo qui la versione in italiano della risposta di Juan Chingo e Paul Morao a Ugo Palheta.


Undici sfumature di scetticismo ed elettoralismo. Risposta a Ugo Palheta

Leggendo su Internet, “qua e là”, così è scritto, Ugo Palheta si è imbattuto in testi firmati da esponenti dell’estrema sinistra che, a suo dire, tenderebbero a rendere la situazione di mobilitazione in Francia “più rossa” di quanto in realtà non sia. Gli articoli che hanno provocato la reazione del condirettore di Contretemps rifletterebbero essenzialmente le posizioni di “correnti o organizzazioni molto deboli […]”; questa osservazione non ha però impedito all’autore di elaborare una lunga risposta, articolata su “undici tesi”, quante quelle di Marx contro Feuerbach (scusate se è poco). Poiché siamo convinti, come sottolinea Daniel Bensaïd, che “non solo la lotta di partito [e il dibattito tra le correnti] non sia un ostacolo alla democrazia nel movimento, ma ne sia la condizione, se non sufficiente, almeno necessaria” [1], abbiamo cercato di abbozzare alcune riflessioni in reazione a queste ‘undici sfumature di grigio’, che dovrebbero rispondere a chi – come noi e qualche manciata di scioperanti francesi – dipingerebbero la situazione usando un po’ troppo rosso.

 

Un movimento debole, un regime intatto, ma una vittoria a portata di mano?

L’intera lettura di Ugo Palheta mira a riportare l’analisi della mobilitazione in corso durante questi mesi a quella che egli considera una lettura equilibrata. Per far ciò, il sociologo sottolinea l’importanza del movimento attuale, pur insistendo sul suo carattere assolutamente non rivoluzionario. In questo solco, la principale preoccupazione è quella di “sfumare” tutti gli aspetti della situazione, mettendo in evidenza una serie di mancanze che la caratterizzano e che invece noi avremmo “sminuito” tramite “trucchi retorici”.

Secondo il testo, solo “alcuni settori dell’economia [stanno] sperimentando una vera e propria attività di sciopero”, o addirittura “solo una piccola parte della classe [ha] manifestato”. Per sostenere la sua analisi, l’autore ricorre all’arma argomentativa della comparazione con il Maggio 1968. All’epoca “si stima che ci fossero […] fino a 7,5 milioni di scioperanti (e 10 milioni di persone mobilitate), in un Paese che aveva un numero di salariati molto inferiore a quello di oggi (circa 15 milioni contro gli oltre 26 milioni di oggi)”. Il paragone non regge e, ovviamente, il movimento attuale non è in alcun modo analogo alla “Rivoluzione di maggio”, né all’Autunno caldo italiano, i movimenti di sciopero più intensi del movimento operaio occidentale.

Tuttavia, basta osservare l’estensione nazionale, la densità e la composizione dei cortei delle giornate d’azione che hanno caratterizzato l’ultima tornata della mobilitazione in Francia per rendersi conto quanto parlare di una “piccola frazione della classe” sia ben lontano dalla realtà, come d’altro canto concorda la maggior parte degli analisti. Un solo esempio: la regione della Bretagna occidentale, praticamente mai al centro di conflitti negli ultimi anni, a parte il movimento dei Berretti rossi nell’autunno 2013. Eppure, nel 2023, abbiamo visto grandi cortei scendere nelle strade di Brest, ma anche e soprattutto a Quimper e Morlaix, così come a Carhaix, Quimperlé, Douarnenez, Châteaulin e Crozon, per il Finistère, a St-Brieuc e Lannion, per le Côtes d’Armor; così a Dinan, Guingamp, Lamballe, Paimpol, Plaintel e Bégard. Queste manifestazioni, che vanno da poche centinaia di persone a, il più delle volte, diverse migliaia nelle città medie o piccole, non si spiegano con la semplice presenza di qualche manipolo di insegnanti sindacalizzati o di lavoratori del servizio pubblico in sciopero [2]. Sistematicamente, a mobilitarsi sono stati l’industria agro-alimentare e alimentare, l’edilizia e le costruzioni, i pescatori, i dipendenti del settore terziario privato, oltre ai battaglioni del settore pubblico e para-pubblico, forse in proporzione ancora più massiccia che nelle grandi città, in considerazione delle specificità demografiche locali. A memoria dei manifestanti, non si vedeva una cosa del genere dal 1995… o addirittura dal 1968. In ogni caso, la densità di queste manifestazioni nell’ovest della Bretagna che ha caratterizzato le ultime settimane non è affatto un’eccezione regionale; potremmo infatti moltiplicare gli esempi a dimostrazione che il movimento ha coinvolto ampi settori della classe operaia.

L’autore, evocando la situazione facendo attenzione alle sue reali sfaccettature, arriva fino al punto di minimizzare la crisi di regime. Così, se la mobilitazione ha “accentuato la crisi dell’egemonia”, non c’è stato alcun cambiamento qualitativo, non essendosi verificate “crepe nell’apparato statale e, più in generale, nella classe dirigente”. Certo, l’apparato statale e la borghesia non si sono divisi negli ultimi mesi. Tuttavia, se non ci sono “crepe”, dovremmo essere tutti d’accordo sul fatto che ci sono alcune gravi incrinature, non solo nel sistema politico macroniano – che fa acqua da tutte le parti – ma anche nel quadro istituzionale più generale della Quinta Repubblica. I meccanismi ben oliati di quest’ultima, pensati per resistere, “a destra” come “a sinistra”, a qualsiasi eruzione politica o sociale, si sono infatti quasi inceppati nelle ultime settimane, come dimostra lo stallo parlamentare tra il 49,3, la mozione di censura e un governo che ha rischiato di cadere a pezzi [3] e che, oggi, può reggersi solo grazie ai manganelli, non avendo riacquistato alcuna legittimità attraverso la decisione del Consiglio costituzionale.

Per quanto riguarda la classe dirigente, per il momento non c’è stata alcuna defezione esplicita, così come non ce ne furono nel maggio-giugno 68, per inciso. Ma nelle ultime settimane i portavoce dei media della borghesia non si sono risparmiati di riportare le parole di chi invita Macron a smettere di ostinarsi- un atteggiamento considerato troppo pericoloso – e a trovare una via d’uscita onorevole. Se Macron abbia o meno una scelta rispetto alla traiettoria da portare avanti è un’altra questione; certo è lo sgretolamento del suo sostegno popolare che mette in discussione la sua capacità di governare tranquillamente per altri 4 anni [4]. Far apparire il nemico più potente di quanto non sia non equivale ad avere un approccio più sfumato e raffinato, ma contribuire al disarmo dei propri ranghi.

Il paradosso è tuttavia che, nonostante gli enormi limiti che l’autore identifica nella portata degli eventi, egli ritiene possibile un ritiro di Macron, arrivando persino a considerare tale risultato come “il minimo indispensabile”. L’Eliseo si impunta sulla riforma, non solo per cecità ma anche perché un arretramento dell’esecutivo aprirebbe una crisi di grandi proporzioni in un contesto in cui i margini di manovra della borghesia si riducono e in cui le concessioni alle leadership sindacali, anche quelle più riformiste, appaiono sempre più inaccettabili. Ecco che arriva Ugo Palheta e offre una visione illusoria delle dinamiche in atto, che alimenta la speranza di una facile vittoria su Macron. Questa premessa rappresenta in fondo la chiave di volta della sua analisi, ovvero l’idea che per vincere non ci sarebbe bisogno di un piano di battaglia un po’ più incisivo della strategia erratica dell’Intersindacale, poiché quest’ultima starebbe attuando l’unica politica possibile nelle condizioni date.

 

Dalla parte dell’Intersindacale o dalla parte della vittoria della nostra classe?

I limiti dell’analisi di Ugo Palheta non possono essere ridotti a discussioni su questo o quell’aspetto del movimento attuale. Sono il prodotto di una logica complessiva, segnata da un oggettivismo che esaspera i limiti della situazione senza mai provare a pensare alle condizioni per superarli. Il movimento operaio rivoluzionario ha la tradizione di cercare di elaborare una o più strategie che gli permettano di conquistare la leadership del movimento di massa, quando entra in azione, e di orientarlo verso il rovesciamento del capitalismo. Al contrario, l’autore sembra cercare di ridurre la mobilitazione al “realismo” di prospettive strettamente istituzionali.

Questo approccio si appoggia sulla descrizione dei limiti, a volte reali, del movimento – come la debolezza della sua auto-organizzazione o l’assenza di alcuni settori della classe operaia – rifiutandosi tuttavia di pensare tali limiti come qualcosa di diverso dall’espressione di debolezze intrinseche, considerandoli perciò assolutamente insuperabili. La conseguenza centrale di un prospettiva del genere è che ogni critica alla politica dell’Intersindacale viene liquidata e associata alle farneticazioni di piccoli gruppi che mirerebbero solo alla propria “auto-costruzione”. Per l’autore, “l’ipotesi di leadership traditrici nei confronti del movimento operaio, che impediscono la trasformazione del movimento in un vero processo rivoluzionario” non ha più una “base oggettiva” a causa dell’indebolimento delle organizzazioni del movimento operaio stesso.

Un’osservazione del genere spinge Palheta a ignorare tutta una serie di discussioni indubbiamente centrali, come quelle rispetto alla strategia delle giornate isolate dell’Intersindacale. Dal 19 gennaio, quest’ultima ha abbracciato una logica volta non tanto a costruire un rapporto di forza attraverso gli scioperi, quanto a cercare di fare pressione sulle istituzioni: prima l’Assemblea Nazionale – con Laurent Berger che ha addirittura cercato di appoggiarsi sulla destra – poi il Senato e, più recentemente, il Consiglio Costituzionale; i risultati sono sotto gli occhi di tutti. In questo contesto, le giornate inter-professionali sono state concepite come manifestazioni simboliche e non come un mezzo per paralizzare l’economia, facendo si che l’appello a “bloccare la Francia” divenisse una parola d’ordine molto artificiale, giusto per dare il contentino a una base che aspirava all’inasprimento del confronto dopo i primi giorni.

Pur evocando l’assenza di un vero e proprio blocco dell’economia come un aspetto centrale della situazione, Palheta minimizza totalmente la serietà del dibattito rispetto a come avanzare in questo senso e riprende la stessa giustificazione delle centrali sindacali; se dunque una “politica più combattiva dell’Intersindacale – il rifiuto di giornate isolate, un chiaro invito a rinnovare lo sciopero e a partecipare alle assemblee generali, ecc… – avrebbe permesso una mobilitazione più offensiva tra alcuni settori dove i sindacati sono ben radicati”, questo sarebbe stato in contraddizione con i “limiti del quadro della mobilitazione attuale che costituisce anche uno dei suoi punti forti: l’unità mantenuta dal fronte sindacale, senza la quale è dubbio che il movimento avrebbe preso questa ampiezza, oltre a raccogliere un grande consenso tra la popolazione”.

L’autore – che prima citava il novembre-dicembre 1995 come metro di paragone – dimentica tuttavia un po’ in fretta che all’epoca la leadership della CFDT [Confederation Francaise Democratique du Travail, sindacato cristiano-sociale maggioritario ndt], impersonata da Nicole Notat, non faceva parte dell’Intersindacale; questo non ha però impedito l’ondata sociale che conosciamo e la ribellione, alla base, di diverse federazioni cedetiste. Il vero problema è allora vedere il fronte unico attraverso il prisma del cartello dei burocrati e non alla luce della pressione risoluta della base. In effetti, Berger [attuale segretario CFDT ndt] è rimasto nell’Intersindacale non solo perché il movimento lo ha spinto a farlo, ma anche perché, già al congresso della confederazione tenutosi a dicembre, era stato messo in minoranza dalle sue stesse truppe quando aveva discusso l’ipotesi di sostenere un’eventuale riforma Borne-Macron. Per quanto riguarda la dirigenza della CGT [Confederation Generale du Travail, sindacato storicamente legato al Partito Comunista, ndt], l’ultimo congresso di Clermont e i burrascosi dibattiti di cui è stato teatro parlano chiaro: è la prima volta nella storia della centrale che la dirigenza uscente viene messa in minoranza e deve accordarsi con l’opposizione per tenere insieme il cerchio e la botte. Non è stata l’Intersindacale a creare questo stato d’animo generalizzato di anti-macronismo e di sostegno al movimento; è stato il mondo del lavoro esso stesso a spingere i dirigenti ad assumere la leadership e a impedire che se ne sottraessero per tutto un periodo.

Allo stesso modo, se il fatto che una parte dei lavoratori sia rimasta “con le armi abbassate” costituisca per l’autore “un grande problema strategico per il movimento” che noi tenderemmo a ignorare o a considerare “risolto”, egli si guarda bene dall’abbozzare l’inizio di una risposta in questo senso. Per altro, fin dall’inizio della mobilitazione abbiamo sollevato il modo in cui il rifiuto di ampliare la lista delle rivendicazioni del movimento abbia indebolito la sua capacità di dialogo con i settori più precari della classe. Questi ultimi hanno comunque dimostrato negli ultimi anni la propria capacità di lottare e di condurre scioperi emblematici, si pensi alle addette alle pulizie di Onet, a quelle degli hotel Ibis, ad esempio. Per loro, infatti, il semplice ritiro dell’attuale riforma e il mantenimento dell’obbligo di 43 anni di servizio risolve poco o nulla.

In questo senso, l’integrazione, ad esempio, delle rivendicazioni salariali, che sono emerse ovunque nelle manifestazioni e hanno dato luogo a scioperi durante tutto il conflitto – dal sub-fornitore aeronautico Sabena ai sub-fornitori di Air France della Samsic – avrebbe probabilmente permesso di portare nel movimento nuovi battaglioni del mondo del lavoro, ma anche di evitare che gli scioperi contro la riforma delle pensioni in alcuni settori si risolvessero localmente con accordi strettamente economici sulle retribuzioni… Eppure l’Intersindacale e Berger alla sua testa hanno sistematicamente rifiutato qualsiasi allargamento della piattaforma rivendicativa.

Possiamo quindi avanzare l’idea che un’altra politica per il movimento fosse possibile, contribuendo ad alzare l’asticella del conflitto in base a coordinate differenti. Non si tratta di un semplice pensiero, poiché non sono pochi i settori che hanno cercato di costruire un’alternativa. È il caso, ad esempio, delle federazioni petrolchimiche, ferroviarie o dell’energia, che hanno subito scaglionato lo sciopero secondo un calendario progressivo per preparare una mobilitazione riconvocabile fino al 7 marzo. Se questa politica fosse stata quella di tutta l’Intersindacale, sarebbe stato possibile coinvolgere altri settori proponendo, per cominciare, un appello a incrociare le braccia per 24 ore, seguito da un appello per uno sciopero di 48 ore, poi uno sciopero di 72 ore e così via, secondo un calendario più serrato, piuttosto che dodici giorni di azione e manifestazione distanziati. Senza dubbio i datori di lavoro avrebbero considerato una siffatta sequenza con maggiore preoccupazione. Tuttavia, sembra proprio inconcepibile per Ugo Palheta un tale calendario di scioperi, ben diverso da un calendario ‘a salto di rana’, come quello dell’intersindacale, il quale non è comunque riuscito a smorzare la determinazione degli scioperanti

Se un’opzione come quella che abbiamo proposto non è si è nemmeno tentata, è perché l’unità sindacale, di cui l’autore delle “undici tesi” si compiace, era guidata dalla CFDT e si basava sul rifiuto di politicizzare la mobilitazione e di far propri tutti gli slogan che essa portava con sé (salari, inflazione, lavoro, democrazia, ecc.), pur rappresentando, fin dall’inizio, una battaglia eminentemente politica.

Da questo punto di vista, la gestione delle tempistiche degli scioperi da parte dei burocrati sindacali nazionali esprime la loro crescente integrazione nei meccanismi istituzionali di cogestione del sistema, in barba al fatto che il governo li tratti sempre come dei fazzoletti da buttare. Come ci ricorda Bensaïd in un testo che l’ “autore delle 11 tesi” dovrebbe conoscere, “l’unità non ha valore in sé, indipendentemente dai suoi obiettivi e contenuti. L’unità è unità per qualcosa, per l’azione, per gli obiettivi. Così, quando l’unità è stata raggiunta nel 1935 sotto forma di Fronte Popolare e di patto tra le leadership socialista e comunista, o quando è stata ricostituita nel 1981 sulla base dell’accordo di governo, si è trattato di un’unità burocratica contro la mobilitazione e la democrazia del movimento di massa. La questione chiave diventa allora ‘fertilizzare il fronte unico con un contenuto rivoluzionario’ (Trotsky) [5]”. In contrasto con questa prospettiva, il testo di Palheta legittima invece l’esistente, accogliendo tutte le argomentazioni della burocrazia, fino alla critica dei piccoli gruppi di sinistra colpevoli di aspirare a uno sciopero generale per far piegare Macron.

 

Sul momento “pre-rivoluzionario”

Tutti questi elementi spiegano perché sia difficile per Ugo Palheta cogliere la nozione di “momento pre-rivoluzionario” che abbiamo utilizzato per caratterizzare il cambio di sequenza operato dal 16 marzo. In risposta, l’autore invoca in modo sorprendentemente ortodosso le quasi-leggi che dovrebbero definire i contorni di una situazione “pre-rivoluzionaria”: “un conseguente blocco dell’economia, un livello significativo di auto-organizzazione, l’inizio della centralizzazione e del coordinamento nazionale dei movimenti in lotta, nonché crepe nell’apparato statale e, più in generale, nella classe dirigente”. Alla luce di questo ideal-tipo totalmente massimalista, che è simile alla definizione leninista di “situazione rivoluzionaria” [7], l’autore può squalificare l’idea di un “momento pre-rivoluzionario” evocando, ad esempio, l’attuale grado di auto-organizzazione (effettivamente piuttosto debole). Tale approccio lo porta però di fatto a rompere con la tradizione da cui proviene, poiché, per lo stesso motivo, riduce il maggio-giugno ’68 a una “situazione con elementi pre-rivoluzionari” [8]

Sviluppata da Trotsky, la nozione di situazione “pre-rivoluzionaria” non può essere intesa alla stregua del condirettore di Contretemps. In “Ancora una volta: dove va la Francia?” del marzo 1935, il rivoluzionario russo descrive una situazione che “è rivoluzionaria fino al punto in cui può essere rivoluzionaria con la politica non rivoluzionaria dei partiti operai. Il modo più corretto per dirlo è dire che la situazione è pre-rivoluzionaria. Affinché questa situazione maturi, è necessaria una mobilitazione immediata, coraggiosa e instancabile delle masse sotto le parole d’ordine della conquista del potere in nome del socialismo”. Solo a questa condizione la situazione pre-rivoluzionaria si trasformerà in una situazione rivoluzionaria. La nozione è quindi inseparabile dall’idea che la rivoluzione sia possibile, dall’esame delle sue condizioni, anche soggettive, e da un lavoro concreto per pensare e attuare politiche in grado di sviluppare le potenzialità rivoluzionarie di un contesto dato. Come nota Juan Dal Maso in un commento a questa citazione, “la situazione pre-rivoluzionaria non precede necessariamente una situazione rivoluzionaria, ma costituisce l’espressione delle difficoltà di quest’ultima a svilupparsi pienamente a causa del ruolo delle leadership sindacali e politiche dei lavoratori integrate nello Stato”.

Da questo punto di vista, c’è effettivamente motivo di ritenere che lo scatenamento dell’articolo 49-3 abbia aperto un “momento” o una “congiuntura” con caratteristiche pre-rivoluzionarie, che avrebbe potuto aprire la strada al consolidamento di una situazione di questo tipo. In sintesi, questo momento ha mostrato i seguenti elementi da considerare per la nostra discussione:

1/ la combinazione della portata di massa del movimento con la radicalizzazione di ampi settori della classe. Ciò si è espresso nelle manifestazioni spontanee che hanno permesso l’entrata in scena dei giovani ma anche la mobilitazione di molti lavoratori; un’altra manifestazione di potenzialità esistenti per un salto qualitativo sono stati alcuni scioperi come quello degli operai del settore petrolifero della Normandia che hanno deciso di fermare gli impianti della più grande raffineria di Francia, o nell’ampia partecipazione operaia conosciuta dai cortei sindacali in numerose città del paese il 23 marzo.

2/ l’apertura di una forte crisi dall’alto, di cui la mozione di censura evitata per 9 voti è stata l’espressione; così come dal terrore dell’esecutivo di un ritorno dello spettro dei Gilet Gialli, di cui abbiamo potuto leggere molti echi sulla stampa; o l’enorme intensificazione della repressione poliziesca, scatenata in risposta alle manifestazioni spontanee, con centinaia di arresti preventivi e brutali violenze poliziesche, nonché la precettazione dei netturbini o dei raffinatori in sciopero.

3/ Una politica di sistematica acquiescenza da parte dall’Intersindacale, la quale ha cercato di contenere le tendenze di cui sopra, rifiutandosi di chiamare alla mobilitazione contro il 49-3, quindi evitando di mobilitarsi durante l’approvazione della mozione di censura per evitare (proprio nel momento in cui la pressione sarebbe stata più efficace) di apparire intenzionati a far sentire il fiato sul collo all’Assemblea, nell’ottica di un rovesciamento del governo; non parliamo del fatto che i burocrati nazionali non hanno detto una parola sulla violenta repressione.

Di fronte a questa politica scandalosa delle direzioni sindacali, la debolezza degli elementi di auto-rganizzazione, caratteristica su cui abbiamo ampiamente insistito fin dall’inizio del movimento [si legga qui, e qui, ndt], non ha permesso l’emergere di una politica alternativa di dimensioni tali da consentire una reale apertura di una situazione pre-rivoluzionaria; ad esempio approfittando delle condizioni create dal 49-3 per lanciare iniziative nella direzione di rendere più duro lo sciopero. Peraltro, questa possibilità si è posta più che mai a partire dal 16 marzo e dal 23, vero picco del movimento.

Piuttosto che interrogarsi su come si sarebbero potute concretizzare le potenzialità del movimento e discutere su cosa si sia fatto e cosa si sarebbe potuto fare per andare oltre, per risolvere le contraddizioni di cui abbiamo parlato, l’analisi oggettivista di Palheta le invisibilizza e liquida, in generale, i limiti che hanno impedito al movimento di ribaltare la i rapporti di forza come testimonianza dell’immaturità della situazione in quanto tale. Egli concepisce quindi i momenti di una parabola di lotta in modo lineare e meccanico, senza possibili salti o rotture. Nelle “undici tesi”, un testo che rivendica una certa filiazione bensaïdiana [i], il tempo è piatto e i burocrati lo controllano dall’inizio alla fine senza che mai vi si verifichino momenti di svolta e opportunità, o possibilità di rottura e incrinature. In questo quadro, l'”analisi concreta della situazione concreta”, frutto delle contraddizioni nei rapporti di forza derivanti dalla lotta di classe, diventa un cliché – quello dei rapporti di forza concepiti come statici; un luogo comune che può andar bene al massimo come sotto-prodotto dell’analisi relativa alle meccaniche parlamentari…

Quello che realmente interessa all’autore sono infatti gli esiti strettamente istituzionali del movimento, che lo portano a minimizzare tutte le iniziative a favore dell’auto-organizzazione in maniera inversamente proporzionale all’esaltazione per “l’ascesa al potere e la maggiore combattività della sinistra parlamentare, in particolare dei 74 deputati della LFI [La France Insoumise, ndt]che hanno contribuito a politicizzare e radicalizzare fortemente [la] mobilitazione (…)”[9]. Il dibattito sul ruolo di LFI, che a nostro avviso ha espresso i suoi limiti strategici, esula dallo scopo di questo articolo. Ma va notato che questo è probabilmente l’unico elemento della situazione di cui l’autore è disposto ad rendere più rosso di quanto in realtà non sia… Pur dichiarandosi anti-capitalista, alla fine della fiera, Palheta propone come unica prospettiva per l’enorme rabbia espressa negli ultimi mesi la coabitazione Macron-NUPES [Nouvelle Unione Populaire Ecologiste et Socialiste, l’alleanza della sinistra neo-riformista egemonizzata da LFI] [ii] accompagnata da un appello alla militanza sindacale e a un “lavoro politico-culturale che ci permetta di passare dall’odio per Macron alla critica del sistema nel suo complesso” posticipando però sine die i compiti pratici di costruzione politica. L’intera undicesima tesi è quindi dedicata all’elaborazione di un’ipotesi che presenta una vittoria parlamentare come unico esito politico dell’enorme mobilitazione degli ultimi mesi.

 

Costruire una leadership alternativa o eleggere un governo di sinistra?

Non possiamo che rammaricarci del fatto per cui nessuna leadership alternativa o corrente di opposizione sia riuscita a vedere la luce e a costruirsi una reale legittimità e una platea nazionale. Parliamo di dirigenti sindacali legati alle basi nei settori che hanno attuato lo sciopero riconvocabile; delle sindacalisti che a livello di luogo di lavoro o federazione di dipartimento hanno accompagnato gli scioperi al di là delle giornate nazionali. Tutto ciò non è però colpa dell’insufficiente “coscienza anticapitalista” delle masse o dell’arretramento reale (ma relativo) della soggettività operaia dopo decenni di schiacciamento neoliberista, nonostante le lotte di resistenza e alcune vittorie (1995 e 2006). Si tratta piuttosto dell’espressione dell’incapacità, se non del rifiuto, da parte delle organizzazioni e delle correnti che si dichiarano favorevoli alla trasformazione rivoluzionaria della società, di lavorare per la creazione di organismi che permettano l’emergere di una tale alternativa. Questo, sia a causa di un atteggiamento atono e attendista, sia per via di scelte politiche consapevoli. È questo che ha permesso all’Intersindacale e ai riformisti in parlamento di svolgere il pessimo ruolo che hanno svolto senza mai essere ostacolati in alcun modo, né dai due POI-POID [Parti Ouvrière Internationaliste e Parti Ouvrière Indipendente Democratique, organizzazioni trotskiste-lambertiste, ndt] ora integrati in LFI, né dall’NPA di Besancenot-Poutou, a cui Palheta appartiene, né da LO [Lutte Ouvrière, allo stato attuale, numericamente la principale organizzazione trotskista in Francia, caratterizzata da un forte operaismo e adattamento alle burocrazie sindacali nello stile di Lotta Comunista in Italia, ndt].

Coloro che hanno invece cercato di percorrere una strada diversa – e noi ne facciamo parte attraverso la creazione della Rete per lo sciopero generale e dei Comitati d’azione – non hanno peccato di anti-sindacalismo primitivo. È infatti in relazione ai settori più combattivi del movimento sindacale che queste iniziative sono state prese. In tutti i momenti in cui è stato possibile, abbiamo scelto di dispiegare le nostre forze militanti nei punti nevralgici del conflitto, dove la posta in gioco era più visibile e concentrata, dove gli sbirri davano di manganello per precettare i lavoratori in sciopero. Solo un esempio tra gli altri: durante lo schieramento solidale a fianco degli scioperanti della più grande raffineria francese, il 24 marzo, la Rete per lo Sciopero Generale non ha fatto altro che far rivivere il meglio della tradizione del movimento operaio, il “picchetto volante” caro all’IWW americano all’inizio del secolo scorso, alle squadre militanti dei teamters di Minneapolis nel 1934, o ancora ai militanti che – dalle proprie fabbriche, luoghi di lavoro o di intervento – accompagnarono con la propria solidarietà il grande sciopero della Fiat di Torino del 1980, dove si giocò il destino di un mese di Maggio durato 12 anni (il ciclo di lotte cominciato nel 68-69). Questa volta, a Gonfreville-l’Orcher – con centinaia di persone davanti ai cancelli della raffineria a difendere i lavoratori dalla polizia – ha quindi avuto luogo una piccola dimostrazione che un’altra politica fosse possibile. Se le persone fossero state migliaia, l’impatto avrebbe potuto essere maggiore su scala nazionale e cambiare la situazione durante l’utilizzo del 49.3, mentre l’Intersindacale rimaneva silente di fronte alla precettazione e agli attacchi violenti al diritto di sciopero, che si stavano abbattendo su settori come le raffinerie, i depositi di petrolio, ma anche gli inceneritori per il trattamento dei rifiuti e i garage dei netturbini.

Per noi, il ruolo di un’organizzazione rivoluzionaria è proprio quello di lavorare incessantemente per creare, a partire dalle condizioni date, organismi di auto-organizzazione delle masse in lotta, qualunque sia il nome congiunturale che essi ricevono (assemblee interprofessionali, comitati d’azione, consigli, ecc.), così da permettere alla classe di dispiegare tutta la sua combattività, la sua capacità di scontro, e di porsi come leadership alternativa, sia rispetto alle direzioni burocratiche esistenti sia rispetto al potere politico della borghesia. Con le parole di Trotsky, riteniamo che i compiti dei rivoluzionari nella lotta di classe siano “orientarsi criticamente in ogni nuova fase e lanciare le parole d’ordine che sostengono la tendenza operaia verso una politica indipendente, approfondire il carattere di classe di questa politica, distruggere le illusioni riformiste e pacifiste, rafforzare il legame dell’avanguardia con le masse e preparare la presa rivoluzionaria del potere”.

Per Ugo Palheta, invece, l’idea stessa di una “sostituzione di una leadership veramente rivoluzionaria alle leadership sindacali (riformiste)”, un compito “classico” del movimento operaio rivoluzionario, non è più attuale. Poiché una ritirata di Macron sul “suo progetto di controriforma” non implicherebbe in alcun modo “l’apertura di una situazione rivoluzionaria” [10], l’unico orizzonte possibile e auspicabile sarebbe una vittoria di Mélenchon come sottoprodotto del movimento. L’autore, mentre fa sfoggio di equilibrio e raffinatezza, oppone al “massimalismo verbale e al feticismo delle formule del passato” una proposta “che articola il ritiro immediato della controriforma, lo scioglimento dell’Assemblea nazionale e l’indizione di nuove elezioni”, che sembra essere l’unica “all’altezza della posta in gioco” [11], rafforzata dal pericolo dell’estrema destra. Dando più credito ai recenti sondaggi che a un serio studio delle reali dinamiche della nostra classe nel movimento attuale, Ugo Palheta lega infatti la sua prospettiva al rischio dell’arrivo al potere di Marine Le Pen, il cui partito “potrebbe essere la forza politica che più beneficerebbe del rifiuto della controriforma delle pensioni”.

In questo contesto, l’autore difende due opzioni. A breve termine, tutto ciò che possiamo fare è sperare di “riuscire ad attirare i lavoratori a una prima giornata di scioperi e manifestazioni […], a farli partecipare a un’assemblea generale per decidere collettivamente le modalità di azione, ecc.”. Poiché c’è già stata “una prima giornata”, seguita da una seconda e da una terza, e poiché eravamo alla decima il giorno della pubblicazione delle “undici tesi” e siamo alla dodicesima, il 13 aprile, questa “linea politica” può essere intesa solo come un invito a seguire il calendario e i metodi dell’Intersindacale. Questo è quanto chiarisce il resto della dichiarazione: “in questa prospettiva, lo slogan meccanico e astratto di denunciare la ‘gestione traditrice’ [che, come tutti sappiamo, non lo è] non solo è una falsa pista, ma il più delle volte un ostacolo”.

Il resto del ragionamento dell’autore è un collage più o meno felice e ben articolato di posizioni a cui ci ha ormai abituato la dirigenza della LCR [Ligue Communiste Revolutionaire – principale corrente trotskista-mandelista in Francia, vedi nota ‘i’, ndt] e poi dell’NPA in tema di governi “di sinistra”: “qualsiasi governo di sinistra con un programma di rottura si troverebbe sotto l’enorme pressione della classe dominante (…) – ci avverte Palheta, lucidamente – solo una vasta mobilitazione popolare permetterebbe di controbilanciare, di evitare una capitolazione in campo aperto. Lo scontro sociale che si metterebbe in moto porterebbe con sé una dinamica fondamentalmente anticapitalista, nella misura in cui porterebbe inevitabilmente, in tempi più o meno brevi, a sollevare la questione del potere del capitale”. In questa logica che prevede una sorta di ‘decollo a tappe’, il primo step necessario sarebbe un governo Mélenchon basato su “una dialettica di confronto collaborativo tra il movimento sociale e la sinistra”. Il problema è che quella che viene presentata come la più rilevante, lucida e raffinata delle “ipotesi di potere” non è altro che un rimaneggiamento di quanto ci è stato servito quando Alexis Tsipras e Syriza sono andati al potere in Grecia nel 2015, o in relazione a Podemos in Spagna, o a Boric, il primo presidente di sinistra dopo Allende, con i successi che conosciamo. Una posizione del genera veniva difesa dalla LCR già in relazione governo Jospin, poco più di 25 anni fa, dopo il secondo turno elettorale successivo alla dissoluzione. Se cambiassimo i termini “novembre-dicembre 1995” con “gennaio-aprile 2023”, “la destra” con “Macron” e “la sinistra” con la “NUPES”, potremmo quasi credere che l'”undicesima tesi” sia un copia e incolla della dichiarazione dell’Ufficio politico dell’ELEC del 5 giugno 1997 [12].


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Strategia e partito

In un bell’articolo che rende omaggio alla percorso militante di Daniel Bensaïd pubblicato nel 2010, Stathis Kouvélakis sottolineava quanto il “tempo della politica”, il tempo dell’organizzazione per fare politica rivoluzionaria, potremmo aggiungere, “sia un tempo complesso: è il tempo breve, il tempo della decisione, dell’istante in cui tutto cambia. […] Ma è anche il tempo lungo, dell’azione quotidiana, spesso ingrata, della costruzione lenta, dove è necessario resistere e lottare contro la corrente [13]. Eppure le questioni del carattere realmente dirompente della lotta di classe (che non è una semplice forza ausiliaria per la politica parlamentare o governista dei riformisti) della centralità della temporalità nella politica rivoluzionaria (non tutto è uguale, né in termini di calendario, durante uno sciopero, né in termini di momenti e parole d’ordine) e della politica rivoluzionaria come capacità di trasformare le coordinate dell’esistente, sono tre questioni paradossalmente assenti dalle “undici tesi”. Più che una riflessione sulla strategia anticapitalista e come dovrebbe essere declinata oggi, si tratta di un atto di fedeltà – ancora ipotetico, perché non portato fino in fondo nei suoi impliciti organizzativi – al melenchonismo.

Queste “undici tesi” pongono tra le righe la questione dell’organizzazione: essa deve essere un’appendice del ‘riformismo del possibile’, che a sua volta utilizza il movimento della nostra classe come ulteriore appendice delle sue combinazioni politiche? O, al contrario, l’organizzazione dovrebbe essere una forza al servizio della classe, la cui importanza si misura, come direbbe Gramsci, dal suo contributo in termini di capacità di auto-organizzazione, auto-rappresentazione e lotta per i propri interessi in completa autonomia e in vista di un progetto radicalmente distinto – l’unico possibile e necessario in questi tempi di catastrofe capitalistica ed ecologica – il socialismo? Dopo aver difeso queste posizioni, rivolgendoci a tutta l’estrema sinistra, all’interno dell’NPA, oggi portiamo avanti questa lotta come organizzazione indipendente, senza però considerarci autosufficienti e interessati alla mera “autocostruzione”, bensì cercando modestamente di dare un contributo alla nostra classe e alle sue lotte, nella prospettiva di porre le basi di una sinistra rivoluzionaria all’altezza della situazione che stiamo vivendo.

Piuttosto che recitare la parte dei portabandiera blu-bianco-rosso di Mélenchon o riecheggiare la Marsigliese cantata a squarciagola dai deputati della NUPES, preferiamo dire – come i manifestanti accorsi a Berlino da tutta Europa contro la guerra del Vietnam nel febbraio 1968, accusati di essere degli agitatori marginali – “« wir sind eine kleine, radikale Minderheit ! » [14]”, con buona pace dell’etichetta di “piccoli gruppi” attribuitaci da Palheta. “Tornati a Parigi – osserva Bensaïd in Une lente Impatience – questa ‘piccola minoranza radicale’ raddoppiò il suo ardore [15]”. Nei mesi e negli anni successivi, la storia gli ha dato ragione. L’attuale generazione di lavoratori e attivisti messasi in moto questa primavera 2023 sta vivendo una delle esperienze più avanzate, che confermano l’ingresso della Francia in un nuovo ciclo internazionale di confronto con il capitale. Spetta a loro perseguire la strada della rivoluzione con la stessa radicalità delle generazione passate; questa volta cercando però di trovare la capacità di arrivare fino in fondo. È a questo che, modestamente, ma con determinazione militante, vogliamo contribuire insieme a coloro che vogliono unirsi alla lotta.

 

Juan Chingo

Paul Morao

Traduzione da Révolution Permanente

NOTE

[1] Daniel Bensaïd, Elogio della politica profana, Parigi, Albin Michel, 2008, p. 353.

[2] Ciò è tanto più vero in quanto la gioventù liceale è stata, in tutta la prima fase del movimento, molto in secondo piano in queste località che, per la maggior parte, non hanno una facoltà universitarie o proprio un’università. Pertanto, il grosso delle truppe era costituito da cortei di adulti e non di giovani o giovani adulti.

[3] Va ricordato che il 49.3 e la mozione di censura sono stati concepiti da Michel Debré per per “far finta” che il Parlamento, se voleva giocare a fare il parlamentare, potesse dire la sua, ma condannandolo, attraverso questi meccanismi di “parlamentarismo razionalizzato”, a essere una mera camera di registrazione. Ecco perché, con la sola eccezione del 1962, nessun governo è mai stato sconfitto da una mozione di censura. Questa volta, però, Borne e Macron hanno sentito seriamente il colpo. Come se la molla del meccanismo gollista si fosse rotta, riflettendo un po’ di più la crisi egemonica che la borghesia esagonale sta attraversando.

[4]vSin dall’inizio del suo primo mandato, e ancor più con la riforma delle pensioni, Macron si è dimostrato un democratico procedurale, svuotando di sostanza i meccanismi tradizionali della democrazia borghese. Si accontenta di essere “entro i limiti costituzionali”, più che occuparsi di essere legittimo o addirittura convincente. L’ultima vicenda lo dimostra ancora una volta, con il progetto di riforma delle pensioni presentato in appendice al disegno di legge sul finanziamento della previdenza sociale 2023, l’uso dell’articolo 47.1 per limitare il tempo dei dibattiti, il voto bloccato al Senato e poi l’articolo 49.3 in Parlamento, il tutto completato dal manganello dei celerini (sempre a norma di legge) per arginare il dissenso tracimante. A livello legislativo, questa tendenza potrebbe addirittura aggravarsi se – come spera – l’esecutivo riuscisse a “passare la nottata”: a Macron non resterebbe così che una governance tecnica, in mancanza di una vera governabilità, che presuppone, come minimo, un consenso e un blocco sociale che vadano al di là di un ristretto corpo elettorale, senza una narrazione, un respiro e un progetto che non sia la difesa di testi di legge frammentati che la presidenza potrebbe far passare in modo contingente grazie a maggioranze ad hoc.

[5] Daniel Bensaïd, Stratégie et parti, Montreuil, La Brèche, 1987.

[6] L’autore avrebbe potuto menzionare anche la questione del ruolo del partito rivoluzionario, ben distinto dalla semplice “vera sinistra” che egli invoca. Un’omissione tutt’altro che banale.

[9] Ricordiamo che per Lenin essa è caratterizzata dall’articolazione di tre elementi: “1) Impossibilità per le classi dominanti di mantenere il loro dominio in forma immutata; crisi del “vertice”, crisi della politica della classe dominante, che crea una fessura attraverso la quale trovano spazio il malcontento e l’indignazione delle classi oppresse. (…) 2) Aggravamento, più del solito, della miseria e dell’angoscia delle classi oppresse. 3) Marcata accelerazione, per le ragioni sopra indicate, dell’attività delle masse, che si lasciano tranquillamente saccheggiare nei periodi ‘pacifici’, ma che, nei periodi di tempesta, sono spinte, sia dalla crisi nel suo insieme che dal ‘vertice’ stesso, verso un’azione storica indipendente.”

[8] Un dibattito sulla caratterizzazione del maggio-giugno ’68 esula ovviamente dagli scopi di questo articolo. Per noi – ma l’analisi è condivisa, storicamente, da tutta una frangia della sinistra rivoluzionaria – nonostante l’assenza di quadri auto-organizzati e di un partito rivoluzionario, il maggio-giugno ’68 ha rappresentato, per la forza dello sciopero, i metodi impiegati, la mobilitazione di tutta la classe operaia e della gioventù, una situazione rivoluzionaria che ha messo alle corde la borghesia e il suo grande uomo, il generale DeGaulle. Nonostante il risultato immediato – che non può essere limitato, come fa Palheta, all’elezione, poche settimane dopo, della maggioranza più a destra della storia della Quinta Repubblica – il processo di maggio-giugno ha coinciso con l’apertura dell’ultimo ciclo internazionale di contestazione dell’ordine costituito, in Occidente come in Oriente o nel Sud globale; un ciclo di contestazione, un’insorgenza operaia e popolare, che sarebbe durato più di un decennio e mezzo, tra il 1968 e il 1984, e per il quale paghiamo ancora oggi il peso della sconfitta incarnata dalla “rivoluzione neoliberale” e da quella che chiamiamo “restaurazione borghese”. Ciò che è vero su scala internazionale è vero anche su scala nazionale, poiché la spinta di maggio si esprimerà per tutti gli “anni del 1968” e si concluderà solo con Mitterrand e l’austerità. In Francia, è stata la socialdemocrazia, con l’appoggio del PCF, a svolgere il ruolo di Reagan e Thatcher nei primi anni Ottanta.

[9] Nel suo ruolo di intermediario tra la sinistra più o meno estrema e la sinistra riformista più o meno radicale, in questo caso tra la LFI-NUPES e l’NPA di Besancenot-Poutou, l’autore avanza l’idea che ci siano stati, proprio come nell’estrema sinistra, attivisti che hanno combattuto all’interno del PCF per “la necessità di una rottura rivoluzionaria”. Qualunque sia il bilancio critico che possiamo trarre dall’estrema sinistra esagonale degli anni Sessanta, in particolare dai trotskisti (PCI-OCI, VO-LO e PCI-JCR-LC-LCR), è altamente improprio metterla sullo stesso piano dei cosiddetti settori che all’interno del PCF avrebbero lottato per una simile prospettiva. Attraverso la sua leadership e i suoi quadri, durante e dopo il 1968, come altri partiti comunisti dell’Europa occidentale dell’epoca, in Italia, nello Stato spagnolo o in Portogallo, il PC francese è un partito d’ordine. Optare per una narrazione diversa significa mascherare la storia per mascherare meglio il presente, ovvero: dipingere di rosso le correnti (e senza dubbio i loro deputati e quadri) che all’interno di LFI difendono la necessità di una rottura rivoluzionaria e a cui la tendenza dell’NPA sostenuta dall’autore non ha ancora deciso di aderire completamente.

[10] Anche se così fosse, la scommessa dell’autore, che chiede un governo di sinistra, non cambierebbe comunque di una virgola. Invocando indirettamente Nicos Poulantzas e riprendendo da Bensaïd solo la sua analisi del democratismo borghese come orizzonte quasi insuperabile, ci sarebbe, in caso di processo rivoluzionario, secondo l’autore, una dualità “tra lo Stato borghese e le forme di potere popolare al di fuori dello Stato, ma anche all’interno dello Stato stesso” [corsivo aggiunto]. Inoltre, “nei Paesi con una tradizione parlamentare più che centenaria, dove il principio del suffragio universale è saldamente stabilito, [non] si può immaginare un processo rivoluzionario se non come un trasferimento di legittimità che dia la preponderanza al ‘socialismo dal basso’, ma nell’interferenza con le forme rappresentative”, in questo caso parlamentari se si legge tra le righe. Senza una maggioranza parlamentare NUPES, con o senza un processo rivoluzionario, non c’è salvezza, secondo Ugo Palheta.

[11] È sorprendente che l’autore riprenda così quella che fu la linea politica di Jacques Chirac dopo l'”inverno dello scontento”, il grande movimento del novembre-dicembre 1995: il presidente sospese il Piano Juppé, sciolse l’Assemblea il 21 aprile 1997 e la sinistra andò al potere. L’idea era quella di servire su un piatto d’argento a un “governo di sinistra” (in questo caso “plurale”, integrando il PS, gli Chevénementistes, gli ecologisti, il PCF e… Mélenchon) la missione che la destra non era stata in grado di svolgere, in que.l caso essere il governo più privatizzatore e “riformatore” della Quinta Repubblica. Sappiamo come è andata a finire, nell’aprile 2002, con l’eliminazione di questa stessa sinistra dal secondo turno e l’accoppiata Chirac-Le Pen, prima espressione della crisi di egemonia che, da allora, ha continuato ad aggravarsi per la borghesia francese e i suoi rappresentanti.

[12] Ecco un lungo ma illuminante estratto: “Ci siamo riuniti per sconfiggere la destra. Questa vittoria, la nostra vittoria, è innanzitutto la rivincita della grande mobilitazione del novembre e del dicembre 1995! La sinistra, che ha appena ottenuto un’ampia maggioranza, deve rispondere alle aspirazioni del popolo e rompere con le politiche della destra. I disastri del passato non possono essere ripetuti. Non dimentichiamo che il Front National ha confermato di essere in agguato, cercando di recuperare la disperazione in cui il liberalismo e Maastricht stanno facendo precipitare milioni di uomini e donne. Nuove delusioni a sinistra gli aprirebbero un viale. Aspettare, rimandare le misure di emergenza necessarie per allentare la morsa del liberismo di Maastricht, darebbe al padronato e alla finanza il tempo di riprendersi, di speculare per fare pressione sul nuovo governo. Correremmo il rischio di distruggere la speranza che è appena nata. Nessuno immagina che si possa fare tutto in una volta. Ma un cambio di rotta deve manifestarsi nelle prossime settimane e riflettere chiaramente la volontà di attuare una politica diversa che risponda alle aspettative dell’elettorato popolare. (…) Solo la mobilitazione di tutti potrà superare la resistenza al cambiamento di domani. Un governo di sinistra senza mobilitazione sociale è destinato al fallimento. Nel 1981, fu la mancanza di un grande movimento popolare a permettere la svendita delle speranze del mondo del lavoro. Oggi, come in passato, le misure autentiche di lotta alla disoccupazione, ai privilegi e alle disuguaglianze si scontreranno con interessi potenti. La nostra unica garanzia risiede quindi in un movimento ancora più potente di quello del novembre-dicembre 1995, che associ lavoratori e disoccupati, settore pubblico e privato”. Questo è, a grandi linee, ciò che la tendenza Besancenot-Poutou dell’NPA difende oggi e ciò che Palheta declina, con toni diversi, su Contretemps: un appello per un governo LFI-NUPES eventualmente allargato “alla sua sinistra”.

[13] Stathis Kouvélakis, “La dialectique du temps et de la lutte”, Ligne n°32, 2010, p.66.

[14] “Siamo una piccola minoranza radicale”.

[15] Daniel Bensaïd, Une lente impatience, Paris, Stock, 2004, p.79.

Note alla traduzione

[i] Riferimento a Daniel Bensaid, principale dirigente della Ligue Communiste Revolutionaire, organizzazione storica del trotskismo francese associata a Livio Maitan e Ernest Mandel, da cui è stato lanciato nel 2009 l’NPA – Nouveau Parti Anticapitaliste, alle cui posizioni Palheta è vicino. Al netto delle differenze politiche tra questa tradizione e Revolution Permanente, che ha rotto nel 2021 con l’NPA in seguito alla campagna di perscuzione interna che la maggioranza del gruppo dirigente aveva scatenato per blindare i suoi cedimenti al riformismo di Melenchon, i compagni riconoscono a questa figura (scomparsa prematuramente nel 2010) la statura di intellettuale raffinato.

[ii] In Francia il presidente della repubblica può esercitare il suo ruolo anche con un governo di diverso colore, risultato di una maggioranza parlamentare differente da quella del capo dello Stato. Tale situazione è appunto denominata “coabitazione”.

Membro della redazione di Révolution Permanente, giornale online francese. Autore di numerosi articoli e saggi sui problemi dell'economia internazionale, della geopolitica e delle lotte sociali dal punto di vista della teoria marxista. È coautore con Emmanuel Barot del saggio "La classe ouvrière en France: Mythes & réalités. Pour une cartographie objective et subjective des forces prolétariennes contemporaines" (2014) ed autore del saggio sui Gilet Gialli "Gilets jaunes. Le soulèvement" (2019).

Vive a Parigi ed è membro della redazione di Révolution Permanente, giornale online francese della rete internazionale La Izquierda Diario.