Compie trent’anni l’intesa tra leadership palestinese e governo israeliano conosciuta sotto il nome di Accordi di Oslo. Accordi che all’epoca sembravano, per i suoi sostenitori, l’inizio del piano di pace in Medio Oriente. Ciò che Oslo ha generato è stata una doppia oppressione dei palestinesi, vittime dell’occupazione sionista e della repressione della complice e sempre più corrotta Autorità Palestinese.


Ci sono immagini che fanno la storia, altre invecchiano male, anzi malissimo! Ce ne sono due in particolare, entrambe scattate nel 1993, una nel cortile del giardino della Casa Bianca che immortala il leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Yasser Arafat, mentre stringe la mano all’allora primo ministro israeliano Yitzhak Rabin. La seconda, forse ancora più emblematica, è quella di due bambini, apparentemente uno israeliano e l’altro palestinese che si abbracciano su una collina di Gerusalemme (apparentemente, poiché i due bambini, come affermò l’autore della fotografia, Ricky Rosen, erano entrambi israeliani).

Queste due immagini sono il riassunto dei cosiddetti Accordi di Oslo, firmati a Washington, proprio oggi, trent’anni fa. Accordi che secondo i promotori dovevano essere il passo conclusivo del conflitto israelo-palestinese e che avrebbero dovuto porre le basi per la realizzazione di un’entità statale palestinese.

Nulla di tutto ciò è accaduto, e oggi, a distanza di trent’anni i palestinesi si ritrovano sulle spalle una ‘doppia oppressione’: quella israeliana, in atto ormai da 75 anni e quella dell’Autorità palestinese, complice dell’occupazione sionista e sempre più autoritaria.

 

Oslo: gli interessi del capitale internazionale

L’intellettuale indiano Aijaz Ahmad, all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica affermò che gli Stati Uniti si apprestavano a diventare “il solo architetto del sistema capitalistico globale”. Non aveva tutti i torti. Alle volontà seguivano i fatti e il Medio Oriente fu l’arena per la costruzione del ‘nuovo ordine mondiale’. Nell’agosto del 1991 George Bush senior lanciava l’offensiva Desert Storm contro l’Iraq di Saddam Hussein e di lì a poco riusciva a far filtrare il messaggio che un nuovo ordine stava nascendo. Questo sarebbe stato facilitato dal crollo dell’URSS si sarebbe chiusa definitivamente la possibilità di modelli di sviluppo alternativi.

In un certo senso, Fukuyama e la sua idea della fine della Storia sembravano incontestabili così come il motto tatcheriano del There is no alternative trovava terreno fertile in tutti gli angoli del globo.

Sappiamo bene che così non è stato, tuttavia quell’evento, a livello internazionale e in particolare in Medio Oriente, fu una svolta per nuovi equilibri geopolitici e conflitti futuri.

Molti degli attori della regione, ‘non allineati’ agli USA con il crollo dell’URSS e con l’operazione militare in Iraq avevano avuto la conferma definitiva di quanto l’imperialismo americano stesse avendo la meglio. Fatta eccezione per alcuni paesi (Iran, lo stesso Iraq e, in parte la Siria) gli Stati Uniti avevano ormai avuto la meglio nel riformulare gli equilibri e i rapporti di forza a loro favore.

Si apriva così l’epoca del neoliberismo e delle politiche della porta aperta a livello globale, l’istituzionalismo e la costruzione dello stato sulla base dei princìpi neoliberisti. I concetti dello State Building, Peace building, good governance e dell’economia di mercato facevano breccia nell’Europa dell’Est post-sovietica così come nei paesi arabi.

Gli Accordi si inserivano all’interno di una ristrutturazione economica globale che avrebbe permesso di accelerare le politiche liberalizzatrici già in atto in alcuni paesi della regione (Egitto, Tunisia e Marocco).

La grande ondata di privatizzazioni avvenuta nella regione tra la fine degli anni ‘80 e inizio anni ‘90 e continuata senza sosta fino ai nostri giorni fu il primo passo del nuovo corso imperialista. Si rafforzava la morsa delle grandi potenze sugli stati della regione e vennero implementate, sulla base delle ‘nuove dottrine’, le riforme istituzionali per la ristrutturazione economica. Le grandi compagnie industriali che un tempo erano nelle mani dello Stato, iniziavano a cedere le proprie quote a favore dei gruppi finanziari internazionali o delle borghesie compradore locali. Stava crollando definitivamente il sogno del cosiddetto socialismo arabo e stava iniziando, per dirla con le parole del Presidente egiziano Sadat, una grande ‘rivoluzione correttiva’.

All’interno di questo contesto di grande cambiamento, il caso palestinese forse è il più emblematico tra i tanti diventando, per usare le parole dello studioso Adam Hanieh, il laboratorio dell’offensiva neo-liberale statunitense in Medio Oriente.

Infatti, gli Accordi di Oslo non furono che il risultato del nuovo spirito del tempo, lo zeitgeist post-sovietico. Tutti i passaggi, così espressi nelle volontà dei sostenitori dell’Accordo, avrebbero dovuto seguire pedissequamente le norme dettate dalle nuove dottrine neoliberiste.

Sviluppo economico, costruzione della pace neo-liberale, costruzione dello Stato e delle istituzioni erano i principali dettami che l’imperialismo occidentale a guida statunitense aveva riservato ai palestinesi.

Nonostante la sicurezza scientifica delle istituzioni finanziarie internazionali (World Bank in primis) sulle misure da intraprendere per la costruzione dello Stato palestinese, l’accordo era tutto tranne che un ‘giusto compromesso tra le parti’.

 

Simmetria nell’asimmetria

Partiamo da un presupposto: il compromesso così come è stato fatto, per usare le parole del giornalista israeliano Gideon Levy, è viziato da un peccato originale, ovvero quello dell’imposizione della diplomazia americana di utilizzare come forma di contrattazione quella della ambiguità costruttiva. L’ambiguità costruttiva è una tecnica negoziale ideata negli anni ’70 dal politico e diplomatico americano, Henry Kissinger che consiste nell’uso deliberato di un linguaggio vago, equivoco o ambiguo che può essere interpretato da ciascuna delle parti in favore dei propri interessi in campo.

Secondo questo approccio, tutte le questioni più spinose sarebbero dovute essere messe da parte favorendo piccole fasi che creassero, in una certa maniera, fiducia tra le parti. Evitare la polarizzazione politica era lo scopo principale degli Accordi che sarebbero dovuti essere, secondo la diplomazia, soltanto la prima fase di un più lungo processo negoziale che sarebbe durato cinque anni.

Il problema era che le questioni spinose alle quali i diplomatici e le varie delegazioni non volevano esporsi erano i nodi cruciali della Questione palestinese.

Il territorio del futuro Stato palestinese, il ritorno dei Profughi e Gerusalemme non vennero di fatto toccati per paura che le divergenze venissero a galla e che il sogno della pace svanisse.

Un ulteriore punto critico, forse il fondamentale, era quello relativo alla convinzione, ancora oggi viva, del giusto compromesso tra le parti.

Così non fu, poiché le parti non avevano lo stesso peso in sede di negoziazioni. Questo fu palese, in prima battuta, dalle condizioni di partenza israeliane e palestinesi. Da un lato, uno Stato ben definito con un territorio e con tutte le sue istituzioni ben edificate e con una diplomazia forte dei migliori strateghi. Dall’altro un’organizzazione guerrigliera (nonostante da un pezzo avesse smesso di esserlo) con delle para-istituzioni costituitesi in esilio, senza un territorio e con diplomatici senza uno Stato alle spalle.

Inoltre, lo stato ebraico poté contare sull’appoggio totale dell’imperialismo occidentale, infatti, ciò che si ritrovarono sul tavolo i palestinesi non fu nient’altro che un piano di pace confezionato da Israele e Stati Uniti. LA formula era quella racchiusa negli Accordi di Camp David del 1978 che seguivano la regola della terra in cambio di pace menzionata per la prima volta, all’indomani della sconfitta araba del 1967 nella Guerra dei Sei Giorni, dal presidente Johnson e messa nero su bianco dalla risoluzione 242 delle Nazioni Unite.

Dunque l’illusione delle parti sedute attorno a un tavolo, come si trattasse di due attori simmetrici, un modo per rendere l’accordo più ‘giusto’ possibile, nonostante l’asimmetria tra le parti fosse del tutto evidente.

Allora cosa spinse i palestinesi a firmare quell’accordo?

 

Oslo: un’ancora di salvezza per l’OLP?

Tre sono stati gli elementi che hanno portato l’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, alla firma degli Accordi: la Prima Intifada Palestinese, il Crollo dell’URSS e la Guerra del Golfo.

La Prima Intifada, scoppiata nel dicembre del 1987, è stata il risultato di almeno un decennio di accumulazione di energie rivoluzionarie generate da una graduale proletarizzazione della popolazione palestinese (impiegata all’interno di Israele) e del conseguente sviluppo di movimenti e comitati popolari legati alle organizzazioni politiche palestinesi.

L’Intifada, al di là della concezione feticista di certi movimenti della sinistra, è stata un vero e proprio tentativo rivoluzionario atto a contrastare con forza l’occupazione israeliana (che dal 1967 controllava per intero tutto il territorio palestinese) e di mettere in campo una via politica alternativa di liberazione.

Agli atti di resistenza (lanci di pietre e barricate contro i carri armati israeliani) seguivano scioperi, sit-in e boicottaggio dei prodotti israeliani. Vennero messe in campo una serie di iniziative volte all’autogoverno dei territori grazie all’istituzione di comitati popolari soprattutto nel campo medico, studentesco e agricolo. Si puntava, in un qualche modo, a sviluppare una serie di iniziative dal basso con l’obiettivo di liberarsi, per quanto possibile, dalla dipendenza israeliana e creare un contro-potere palestinese.

Un ruolo centrale venne giocato dalle organizzazioni politiche palestinesi che costituirono, durante i primi mesi dell’Intifada, al-qiyada al-watania al-Muwahhada (la Leadership Nazionale Unificata) con l’obiettivo di unire le diverse fazioni palestinesi e coordinare, attraverso i famosi volantini distribubuiti alla popolazione, le azioni di sciopero e resistenza nei territori della Cisgiordania e Gaza.

Lo sviluppo dell’Intifada, che colse di sorpresa persino la leadership dell’OLP a Tunisi, mise in seria difficoltà non solo Israele, ma anche lo stesso Arafat che già da più di un decennio (1984) aveva intrapreso la via diplomatica con Stati Uniti e paesi arabi per una soluzione pacifica della Questione palestinese.

Nonostante l’emergere di una leadership alternativa (tuttavia organica all’OLP) all’interno dei territori occupati, Arafat cercò sin da subito di capitalizzare le conquiste dell’Intifada. Già nel 1988 ad Algeri, durante il 19esimo congresso del Consiglio Nazionale Palestinese, forte del grande riverbero dell’Intifada a livello internazionale e dopo la decisione di Re Hussein di Giordania di lasciare la gestione amministrativa della Cisgiordania, Arafat proclamò lo Stato Indipendente di Palestina all’interno dei confini del 1967. La dichiarazione riconobbe le risoluzioni ONU 242 e 338 e riconobbe di fatto lo Stato di Israele.

La posizione favorevole di Arafat all’interno dello scacchiere geopolitico, tuttavia, veniva minata dalla grave crisi finanziaria dell’OLP la quale risentì pesantemente della caduta dell’Unione Sovietica. Infatti, se l’URSS sin dal 1948 non ebbe dubbi nel sostenere la creazione dello stato sionista, sostenne logisticamente e finanziariamente l’OLP (soprattutto in funzione anti-americana).

Il crollo dell’URSS mise Arafat di fronte ad una scelta esistenziale: abbracciare, come avevano fatto alcuni suoi colleghi dei vicini paesi arabi, l’imperialismo americano, oppure cercare alleati alternativi.

In realtà la scelta di appoggiare Saddam Hussein nella prima Guerra del Golfo, oltre ad essere un atto di riconoscenza verso il leader iracheno per il suo sostegno all’OLP, rappresentava un tentativo di mettere pressione agli Stati Uniti per far avanzare il processo di negoziazione con gli israeliani. La frustrazione del leader palestinese era evidente poiché la scelta di Algeri di riconoscere Israele e rinunciare alla lotta armata doveva essere ripagata dagli americani con qualche azione più concreta in termini di negoziazione con gli israeliani.

Arafat, dunque, appoggiò senza indugio l’Iraq andando di fatto controcorrente rispetto alla maggioranza dei paesi arabi.

Questo aggravò, e non poco, la situazione politica e soprattutto economica dei palestinesi. La Palestina e i palestinesi pagarono un prezzo economico altissimo. I paesi del Golfo, che all’epoca impiegavano un alto numero di lavoratori palestinesi, si schierarono a difesa del Kuwait invaso mentre la scelta di Arafat causò l’espulsione di quasi 400.000 palestinesi che fino a quel momento tenevano in vita le loro famiglie nei Territori Occupati grazie alle rimesse.

Oltre al prezzo economico, Arafat dovette pagare quello politico. L’isolamento regionale e internazionale e la crisi finanziaria misero di fatto il leader palestinese e l’OLP con le spalle al muro.

Questo fu l’ultimo atto che aprì il canale segreto che portò agli Accordi di Oslo. Essi, almeno per i suoi sostenitori, sembrarono essere un’ancora di salvezza non tanto per i palestinesi quanto per il mantenimento in vita dell’OLP e del suo leader Yasser Arafat.

 

Gli accordi e il ruolo della borghesia palestinese

Se da un lato è vero che Oslo, in quanto tale, fu un’ancora di salvezza per l’OLP, dall’altro è anche vero che il progetto di realizzazione dello Stato borghese in Palestina accanto ad Israele è stato, almeno dalla metà degli anni ‘70, il progetto politico di una parte (quella dominante di al-Fatah) dell’OLP e degli uomini d’affari palestinesi, residenti soprattutto nei paesi del Golfo, che vedevano in un futuro Stato un’occasione per far fiorire i propri interessi.

I gruppi d’affari sin da subito occuparono posizioni di prestigio all’interno dei ranghi di al-Fatah e ne furono i principali finanziatori. Finanziamenti che contribuirono da un lato a mantenere l’apparato burocratico del partito e dall’altro a mantenere quelle para-istituzioni che l’OLP aveva creato in diaspora e, a partire dagli anni ‘80, all’interno dei Territori Occupati. Si trattava di sedi diplomatiche e uffici di partito sparsi in tutto il mondo che si occupavano di garantire ai palestinesi servizi minimi di base.

Se l’Intifada apriva nuovi scenari, Oslo, nonostante tutte le criticità, rappresentava un’occasione per il capitale palestinese di radicarsi all’interno dei territori. A suo favore vi erano le nuove dottrine post-guerra fredda e i meccanismi di sviluppo neo-liberale.

Il sogno di trasformare la Palestina post-Oslo nella Singapore del Medio Oriente e di far fiorire in patria i propri interessi fu il motore che spinse diverse famiglie della borghesia palestinese in diaspora a tornare.

Di qui in poi, il cerchio magico attorno ad Arafat era costituito per lo più da businessmen e da grandi industriali, ritornati in patria, creando una forte connessione tra capitale e potere politico.

All’indomani della firma e con l’afflusso dei finanziamenti che arrivavano dal tesoro americano e dai paesi Europei riuscirono, attraverso lo stretto legame con l’ANP, ad accaparrarsi le risorse e sviluppare le proprie attività d’affari.

Si crearono le strutture istituzionali atte a coordinare lo sviluppo del settore privato all’interno dell’ANP. Una di queste fu la PADICO (Palestine Development Investment Company) una compagnia pubblica che aveva, e ancora ha, l’obiettivo di favorire gli investimenti all’interno dei Territori Palestinesi.

Tali istituzioni erano figlie delle imposizioni delle istituzioni finanziarie internazionali come World Bank che proprio nell’anno successivo agli Accordi pubblicava in sei volumi le indicazioni dello sviluppo del nuovo stato palestinese. Tutto ciò consentì, all’interno di un contesto di occupazione militare, di costituire un’entità quasi-statuale che servisse, in prima battuta, gli interessi di una stretta cerchia della borghesia palestinese.

Non fu un caso che molti dei nuovi ministri, sorti con la costituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese, erano legati a grandi gruppi industriali i quali, con il benestare dell’occupante israeliano, iniziavano la loro scalata al potere economico del quasi-stato palestinese.

Si trattava di una borghesia compradora, vista già in altri contesti, che serviva, nel caso palestinese, non solo gli interessi del grande capitale internazionale, ma anche quelli dell’occupante israeliano attraverso un sistema di subappalti e contratti in diversi settori dell’economia.

I grandi progetti di sviluppo, grazie alle donazioni degli Stati Uniti, Stati europei e delle Istituzioni finanziarie internazionali, finirono per creare un sistema capitalista altamente dipendente e parassitario, alimentato da corruzione, disuguaglianza sociale e un graduale impoverimento della popolazione locale.

 

Oslo 30 anni dopo: occupazione e doppia oppressione

La domanda che ricorre in questi ultimi tempi, a trent’anni di distanza, è una: Oslo è ancora in piedi?

La risposta è semplice: de facto no, de jure sì.

Tuttavia ciò che invece bisogna chiedersi, al di là della retorica della pace giusta e del compromesso a tutti i costi è: cosa ha provocato Oslo in questi ultimi trent’anni?

In prima battuta, la prima cosa che bisogna evidenziare è l’aumento sconsiderato delle colonie all’interno dei Territori Occupati. Questo è dato soprattutto dalla volontà israeliana di acquisire, con la scusa della sicurezza, sempre più territorio palestinese riducendo la Cisgiordania a piccoli bantustan in stile sudafricano. In seconda battuta, l’aumento della colonizzazione è da imputare all’incapacità e all’impotenza dell’Autorità Palestinese che si è ritrovata, coscientemente, a svolgere le funzioni di controllo e sicurezza che un tempo erano dell’esercito israeliano. Con Oslo i palestinesi si sono ritrovati all’interno di un processo di doppia oppressione: da un lato l’occupazione israeliana e l’impunità di cui essa gode e dall’altro il carattere autoritario dell’ANP dato soprattutto dalla cooperazione sulla sicurezza con Israele, sancita dagli Accordi, e dal connubio sempre più forte tra potere politico e potere economico.

In questo contesto, sembra sempre più imminente una nuova sollevazione di massa, come già dimostrato nel 2021 dagli eventi successivi allo sgombero delle famiglie di Shaykh Jarrah a Gerusalemme.

In quel contesto sono venute a galla tutte le nefandezze che Oslo ha creato in questi ultimi trent’anni. La sollevazione dell’intera Cisgiordania contro l’occupazione e contro l’ANP, la sollevazione a Gaza con conseguente bombardamento israeliano e, fatto che non succedeva da molti decenni, la rivolta dei palestinesi ‘interni’ (residenti in Israele) e i tentativi dei palestinesi in Giordania e Libano di rompere il confine e tornare in Palestina sono tutti elementi che portano sempre più palestinesi che il sistema messo in piedi da Oslo sia del tutto fallimentare.

Non è un caso che gli elementi appena citati sono le questioni spinose di Oslo che l’imperialismo americano ed europeo avevano voluto metter da parte con la speranza di pacificare e mettere un punto definitivo della Questione Palestinese.

Un’illusione questa che già alcuni giorni l’Accordo Edward Said denunciava senza mezzi termini in un articolo al vetriolo rivolto soprattutto alla leadership palestinese, rea di aver svenduto la causa palestinese in cambio di un compromesso al ribasso.

 

Per una Palestina libera, laica e socialista

Oggi, a Gaza, così come in Cisgiordania e in Israele la maggior parte della popolazione è cosciente del fallimento di qualsiasi compromesso tra le parti.

Lo sciopero generale del 2021, al quale hanno aderito tutti i palestinesi nei Territori Occupati e all’interno di Israele, ha dimostrato che non esiste alcun processo di pace. La retorica sull’integrazione dei palestinesi in Israele si è infranta contro lo sfruttamento e la discriminazione di migliaia di lavoratori e lavoratrici.

Così come è svanita l’illusione di uno stato palestinese in Cisgiordania e Gaza. La crescita del numero delle colonie, i raid israeliani contro i civili e i nuovi gruppi di resistenza Palestinese a Nablus e Jenin hanno confermato che non ci può essere compromesso con l’occupante.

La liberazione, oggi, deve passare attraverso una rivoluzione della classe lavoratrice palestinese sfruttata nei Territori Occupati. Inoltre, come ha insegnato la Prima Intifada, cruciale sarà la presenza e l’organizzazione dei lavoratori pendolari in Israele che ogni giorno, oltre a sopportare lo sfruttamento nelle fabbriche, nei campi e nei cantieri israeliani, subiscono i soprusi dell’esercito davanti alle centinaia di checkpoint che separano le loro case dal luogo di lavoro. Infine e non da meno, cruciale sarà la capacità del proletariato palestinese e israeliano, soprattutto in questo momento di grande frattura interna all’entità sionista, di portare avanti rivendicazioni che puntino all’unità per combattere l’oppressione del governo fascista israeliano e per la rottura delle barriere imposte ai palestinesi. Per una vera emancipazione e liberazione della Palestina. 

Per questo, al di là della retorica dell’imperialismo occidentale sui due stati e il processo di pace, la soluzione è quella di una Palestina unica, laica e socialista, libera dall’oppressione sionista e dall’Autorità Palestinese.

Laureato in storia contemporanea dei paesi arabi alla Sapienza di Roma, nel 2018 ha conseguito il master in Lingue e Culture orientali alla IULM University.
Dottorando alla Sapienza presso il Dipartimento di Scienze Politiche, con una tesi su Gramsci, la rivoluzione passiva e la Primavera Araba.