La lunga mobilitazione dei lavoratori di Mondo Convenienza, a partire dal sito di Campi Bisenzio (FI), ha aperto un primo dibattito nel sindacato che organizza questi operai, il SI Cobas. Francesco Latorraca, storico dirigente torinese del sindacato, critica una presunta politica riformista istituzionale dei dirigenti toscani. È questo il problema della vertenza?
Una polemica sulla strategia si apre nel SI Cobas a partire dalla lotta di Mondo Convenienza
Contrariamente a quanto succede di solito nelle lotte odierne della classe operaia in Italia, la vertenza di Mondo Convenienza ha generato un primo dibattito teorico-politico rispetto alla strategia che sta alla base della lotta stessa.
La polemica è stata aperta lo scorso 5 settembre da Francesco Latorraca, storico dirigente torinese del SI Cobas, il sindacato che ha avviato la vertenza a partire dallo stabilimento di Campi Bisenzio, nella piana fiorentina, storico concentramento industriale alle porte del capoluogo toscano. Così come il contributo è “non esaustivo”, anche noi presentiamo una riflessione che tocca velocemente e solo in parte gli argomenti sollevati dal compagno, che meritano una riflessione più ampia, visto anche il richiamo a periodi precedenti della storia politica del nostro paese.
Latorraca ha pubblicato un contributo critico al bilancio della lotta sul blog della TIR (Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria), Il Pungolo Rosso. La TIR è quel percorso politico che da alcuni anni vede un confronto e una collaborazione strategica, in sostanza, tra i settori che hanno contribuito a fondare il SI Cobas e che ne costituiscono l’area egemonica tra i suoi dirigenti, a partire dal coordinatore nazionale Aldo Milani. Lo scritto di Latorraca è seguito dalla ripubblicazione di un articolo del 2009 uscito su Work, foglio periodico animato, tra gli altri, dagli stessi compagni che poco dopo ruppero col sindacato di base SLAI Cobas, fondando il SI Cobas. Quest’ultimo scritto ha come autori Michele Michelino (recentemente mancato, noto per il suo impegno di lunga data sulla salute dei lavoratori) e Aldo Milani, e fa considerazioni di bilancio sulla lotta storica dell’INNSE (ex Innocenti) di Milano. In quel periodo la lotta si era appena conclusa, con vide il subentro di una nuova proprietà (un gruppo industriale gestito da ex-burocrati della sinistra riformista) dopo una resistenza operaia contro la chiusura voluta dalla vecchia proprietà.
L’accostamento di questi due scritti suggerisce, come vedremo, la possibilità di una continuità tra le vertenze INNSE, GKN e Mondo Convenienza: la suggestione è particolarmente rilevante perché si trova ad affrontare concretamente la posizione ideologica per cui le esperienze sindacali combattive ‘per davvero’, e la possibilità stessa che si diano, passino solo ed esclusivamente per il sindacalismo “di base” o, nella maggior parte della volte, per il proprio sindacato di base. È evidente che questa attitudine, di fatto, va fortemente contro il concetto di fronte unico della classe lavoratrice, di unità delle varie rivendicazioni e mobilitazioni dei diversi settori.
Non è un caso che lo stesso Milani si sia espresso più volte contro una concezione ‘eterna’, immutabile, dell’esistenza di un generico sindacalismo “di base”, definito tale semplicemente perché esterno ai sindacati confederali CGIL-CISL-UIL. Questo discorso tocca l’importante questione della normalizzazione e del riassorbimento di interi cicli di lotta ed esperienze di organizzazione operaia dal basso, indipendente, che la classe dominante, lo Stato e gli apparati conservatori nel movimento operaio stesso (a partire dai burocrati sindacali “maggiori”) sono in grado di portare avanti. Per un approfondimento teorico sulla nostra analisi sui sindacati, sul loro ruolo e sui compiti dei comunisti al loro interno, rimando all’articolo di Marco De Leone e Lorenzo Lodi comparso sul quarto numero della nostra rivista.
Oltre la solidarietà, la strategia
Nella stampa di sinistra più o meno militante, l’approccio che troviamo quasi sempre è quello di solidarietà verso le lotte che si ritengono più interessanti e importanti, con la rivendicazioni di appoggiarle, sostenerle, dare solidarietà. Il concetto che le lotte debbano superare i loro limiti di settore e geografici, per unirsi e non soltanto per marciare insieme in corteo, è quasi assente dal dibattito.
Al contrario i compagni della TIR, che vengono perlopiù dall’esperienza della sinistra comunista – cioè quella che, in Italia, si rifà agli sviluppi originali della corrente di Amadeo Bordiga, fondatore del PCd’I e poi oppositore del PCI di Togliatti e dello stalinismo – rivendicano in generale che è del tutto insufficiente appoggiare o anche partecipare alle lotte operaie e sociali, se non si legano alla prospettiva del superamento del capitalismo. L’alternativa è un ciclo senza fine di lotte, piccole conquiste, pressioni per ottenere leggi di riforma, passivizzazione degli attivisti “che hanno vinto”, e poi cicli di sconfitta e controriforma.
La situazione attuale è proprio il prodotto delle vittorie parziali ottenute nel secondo Dopoguerra, e poi delle schiaccianti sconfitte e controriforme del capitalismo neoliberale, oggi in crisi ma ancora vivo e vegeto.
Se i compagni, che hanno poi formato la TIR, fondarono il SI Cobas, fu proprio perché volevano impegnarsi a favore della lotta di classe con una strategia per rilanciarla e dirigerla, per darle uno slancio e una direzione politica verso la quale si potesse evolvere.
I compagni, pubblicando la loro premessa ai due articoli proposti, offrono piena solidarietà ai lavoratori in lotta e li mettono in guardia contro il tavolo istituzionale di oggi, 15 settembre… ma non danno una prospettiva concreta per continuare la vertenza, affermando genericamente che “un reale miglioramento nelle condizioni di vita e salariali per i lavoratori Mondo Convenienza potrà essere solo il frutto di un reale protagonismo di questi ultimi, del consolidamento del sindacato di classe su tutta la filiera e di un sempre maggiore coordinamento delle lotte e delle vertenze tra i vari magazzini“. A ciò però non segue una chiamata di un’assemblea di tutti i lavoratori della filiera, o dei lavoratori in lotta (anche di altri settori) e dei solidali dei vari territori coinvolti per intervenire e favorire un processo del genere.
Eppure il SI Cobas è il sindacato che organizza i lavoratori mobilitati e la TIR, che dirige nel complesso il sindacato, avrebbe tutto il diritto e il dovere di formulare un piano di lotta a partire dal quale i lavoratori e i militanti delle altre realtà possano confrontarsi, decidere un corso d’azione e mobilitarsi.
Ciò che invece si propone, secondo noi, è una critica fuori fuoco alla strategia dei dirigenti del SI Cobas di Prato-Firenze, che provengono invece dalla tradizione dell’autonomia operaia e per questo sono tacciati di essere riformisti e di andare a traino delle istituzioni dello Stato borghese. Non è chiaro però quale sia l’alternativa.
Criticare le rivendicazioni, le idee e le posizioni politiche all’interno del proprio sindacato – e anche di altri sindacati e settori di movimento – dovrebbe essere un diritto sacrosanto e, come abbiamo scritto, purtroppo lo sforzo di discutere la propria politica di lotta, le possibili strategie messe a confronto, le idee che le muovono, eccetera, è un’attività poco esercitata, anche nei settori radicali del sindacalismo di base.
Ciò che muove la critica, in ogni caso, dovrebbe essere la volontà di far avanzare le lotte, l’organizzazione e la coscienza della nostra classe.
Pensiamo che il materiale proposto dal Pungolo Rosso non faccia questo, e che rifletta la difficoltà di mettere a punto un piano di lotta per la filiera di Mondo Convenienza dove altri lavoratori si sono uniti a quelli di Campi Bisenzio, così come per altri settori perché “convergano” (come rivendicato dai compagni fiorentini): non è un caso che la mobilitazione negli altri magazzini e territori coinvolti dal SI Cobas – Torino, Bologna e Roma – abbia avuto una battuta d’arresto durante l’estate, mentre quella fiorentina continuava.
Eppure, ripetiamo, se vogliamo che le lotte dei lavoratori facciano progressi, è proprio la proposta di una strategia, di una prospettiva politica chiara che dovrebbe muovere la discussione nel movimento.
Prima di entrare più precisamente nel merito dei contributi proposti sul Pungolo Rosso, mettiamo a fuoco velocemente in quale contesto politico si dà la lotta a Mondo Convenienza, così come si è data (e si dà) la lotta degli operai GKN: se vogliamo parlare della basi teorico-politiche della strategia adottata o che si dovrebbe adottare in una certa lotta, dobbiamo aver chiara la base materiale, la situazione concreta che fa da contesto alla lotta stessa.
Il contesto della lotta: il governo di destra e le difficoltà dell’opposizione sociale
Il primo anno del governo Meloni, ormai compiuto, ha visto la prevalenza della passività politica da parte della classe operaia e della popolazione povera, con un’opposizione sociale e politica piuttosto limitata nei numeri, senza dinamiche significative di allargamento delle mobilitazioni e, anzi, scontando ancora una difficoltà di ripresa politica dopo la crisi pandemica del Coronavirus.
Questa difficoltà del ritorno di una lotta di classe più diffusa e radicale nel nostro paese segna un ritardo rispetto alle lotte operaie e sociali post-emergenza Covid che già si sono dati in diversi paesi europei, in particolare Francia e Gran Bretagna, ma anche Germania.
La lotta dei lavoratori di Mondo Convenienza, partita dallo stabilimento di Campi Bisenzio (Firenze), è stata uno dei (purtroppo) non numerosi esempi di lotta operaia prolungata e con una sua espansione – come vedremo – non soltanto sul piano sindacale ad altri stabilimenti della stessa azienda, ma verso altri settori di attivisti.
Le mobilitazioni di questi giorni, dunque, si trovano di fronte a un governo dove per la prima volta c’è una maggioranza relativa di partiti di destra e estrema destra, che hanno cambiato in proprio favore i rapporti di forza all’interno di quello che ancora viene detto centrodestra, rendendo minoritarie al suo interno le forze liberali e cattoliche “moderate” che ancora negli anni Duemila erano fondamentali per il sistema politico-elettorale italiano.
Ciò significa che il governo Meloni si dà il compito di esprimere un blocco sociale e un programma politico con aspetti conservatori di destra e reazionari, schierati in maniera coerente contro la classe lavoratrice organizzata, contro la popolazione povera, contro le minoranze oppresse – per razzismo o sessismo che sia – e, nonostante Meloni sia la prima presidente donna del consiglio dei ministri, contro i diritti riproduttivi e di genere.
A maggior ragione, i settori più organizzati e i più combattivi della classe lavoratrice hanno grandi opportunità per rivendicare e costruire un’opposizione sociale larga al governo e alla classe dominante che esso serve – la stessa classe che sfrutta brutalmente i lavoratori di Mondo Convenienza; un’opposizione indipendente dai partiti che in alternanza partecipano alla gestione delle istituzioni e delle politiche capitaliste, della partecipazione dell’Italia al saccheggio e al supersfruttamento nei paesi ex-coloniali, così come alla sua politica di riarmo, rilancio del militarismo, partecipazione alle missioni militari all’estero e all’escalation della NATO nella guerra in Ucraina.
Un grosso limite a questo allargamento e sviluppo politico delle lotte dei lavoratori è dato non soltanto dalla loro divisione in molti sindacati e associazioni di vario tipo in competizione tra loro, spesso separati nelle loro mobilitazioni, ma anche dalla “offerta politica” presente nel nostro paese: a parte i rimasugli di quella sinistra riformista istituzionale (Rifondazione in testa) che Latorraca giustamente individua come un problema più che come un riferimento politico, c’è un’estrema frammentazione politica dei militanti, i quali spesso non riescono a presentare una strategia e una prospettiva pratica per la costruzione di un’organizzazione politica volta a superare questa stessa frammentazione, o non ne percepiscono proprio l’esigenza.
Questo per quanto riguarda la minoranza più politicizzata: i più, anche quando partecipano alle attività sindacali e “di movimento”, non rivendicano un orientamento politico preciso e non si organizzano su basi politiche. Una conseguenza di questa situazione è che l’ampia maggioranza della classe lavoratrice in Italia è influenzata dai partiti dell’arco parlamentare borghese (“progressisti” del centrosinistra inclusi) o rimane passiva politicamente, facendosi influenzare da discorsi populisti, corporativi e nazionalisti che hanno potuto dilagare dopo la grave crisi economica e sociale seguita al crack finanziario internazionale del 2008.
Lo sviluppo della lotta di Mondo Convenienza, i suoi limiti e i compiti che le si pongono oggettivamente di fronte devono tenere conto di questo quadro: non perché sia una realtà che non si può cambiare in nulla o quasi, ma proprio per capire come cambiarla a vantaggio della classe lavoratrice e della popolazione oppressa, con una prospettiva politica per rivoluzionare la società capitalista, e non solo ottenere alcune concessioni al suo interno.
Mondo Convenienza e la questione delle radici della strategia
Volendo tornare al merito dei rilievi critici di Latorraca, è opportuno ricordare da dove venga la vertenza di Mondo Convenienza. Da anni, un settore di giovani militanti provenienti dagli ambienti politici che si richiamano all’autonomia operaia italiana del secolo scorso ha cominciato a organizzarsi con alcuni dei lavoratori più sfruttati dei distretti industriali tra Prato e Firenze. Si tratta in particolare di quello del tessile, produzione tradizionale e “d’eccellenza” del territorio, dove c’è una concentrazione di forza-lavoro immigrata (molti operai coinvolti sono pakistani, ad esempio), così come di aziende avviate da cittadini stranieri, in particolare cinesi. Questi nuovi padroni non hanno nulla da invidiare ai peggiori metodi di sfruttamento e mancato rispetto delle leggi praticati dalle aziende italiane. In ambienti in cui il supersfruttamento e il silenzio omertoso erano diventati la norma, come segnala Luca Toscano in una nostra recente intervista, i compagni che hanno poi formato il Si Cobas Prato-Firenze hanno avviato, e vinto in più occasioni, lotte per il rispetto dei diritti previsti sui luoghi di lavoro, per l’applicazione dei contratti di categoria, e per la regolarizzazione dell’orario di lavoro. Questo in un quadro di straordinari molto gravosi e di fatto obbligatori, oltre che male o proprio per nulla pagati. In tal senso, i compagni hanno colto il carattere “offensivo” che la mera rivendicazione delle 40 ore settimanali di lavoro può assumere nei molti settori non (del tutto) regolari del mondo del lavoro in Italia.
Queste vertenze sono state condotte con i metodi che generalmente il Si Cobas (tra gli altri) rivendica: mobilitazione permanente dei lavoratori, assemblee che costellano lo sviluppo della vertenza, blocco dei posti di lavoro coi picchetti, prosecuzione della lotta “fino alla vittoria”.
In questo senso, la lotta di Mondo Convenienza non mostra un nuovo adattamento a una strategia centrata sulle istituzioni statali e sui partiti che ne fanno parte e che si rivendicano “progressisti”, anche se non fanno parte del campo politico della classe lavoratrice – che, come abbiamo ricordato, purtroppo oggi è molto debole e con molte contaminazioni verso i “democratici radicali” (come l’ex-sindaco di Napoli De Magistris), i populisti del M5S o i “progressisti” borghesi del PD e dintorni. Perché allora l’accusa di una strategia riformista al Si-Cobas Prato-Firenze?
Latorraca, e siamo d’accordo, dice che le esperienze storiche del movimento lasciano retaggi ideologici che sopravvivono e influenzano il corso delle lotte successive; dà però di fatto per scontato che questi retaggi siano “incapaci di cogliere le vere tendenze del movimento reale”. Eppure, sono proprio le “preziose esperienze” del movimento passato che aiutano i comunisti e in generale i militanti del movimento operaio a trarre posizione teoriche, politiche, a partire dalle quali continuare la lotta, avendo a disposizione un patrimonio elaborato dal movimento stesso attraverso la storia dei propri dibattiti e delle proprie esperienze pratiche.
Un’ambiguità che rimane nello scritto di Latorraca è quella di suggerire che in qualche modo le posizioni e i sistemi di idee che mano a mano si presentano nel movimento operaio siano un sottoprodotto dei vari cicli di lotta. Questa posizione è smentita, se non fosse altro, dal fatto che il grosso delle basi teoriche del socialismo moderno, il marxismo, non è stata elaborata da operai come sintesi di un loro ciclo di lotta, ma come prodotto del lavoro teorico di Karl Marx e Friedrich Engels, che si adoperarono per integrare la filosofia dialettica tedesca, il socialismo politico francese e la più aggiornata economia politica britannica per elaborare una conoscenza scientifica del capitalismo, così da poter pensare a come superarlo. Tutto questo processo, che come marxisti rivendichiamo di continuare, è senz’altro alimentato e aggiornato dallo sviluppo della società e delle lotte operaie, ma in nessun modo potrebbe darsi come mero sottoprodotto di queste stesse lotte. Quest’ultima suggestione era tradizionalmente messa in conto proprio all’autonomia operaia, ma in questo caso, almeno ci sembra, viene utilizzata proprio per schiacciare le questioni legate alla lotta di Mondo Convenienza a un “peccato originale” legato all’eredità delle teorie operaiste dell’”operaio sociale”, cioè all’idea per cui (per dirlo in due parole) la produzione del valore capitalistico era diffusa nella società, e non legata all’impresa capitalista e all’apparato della produzione di merci.
In questo senso, il compagno parla di un residuo della “visione gramsciana dei consigli di fabbrica” che sopravvive oggi nella “sinistra sindacal-riformista di classe”, che supponiamo sia un riferimento generico al sindacalismo di base, anche se sarebbe utile approfondire e precisare questo filone polemico, per poterlo affrontare seriamente. Sicuramente, non si può dire che i dirigenti e i quadri sindacali “di sinistra” siano tutti seguaci ortodossi del marxismo di Antonio Gramsci, che sicuramente non prevedeva di limitare la propria attività né ai consigli nei posti di lavoro, né tanto meno all’attività sindacale.
Un punto fondamentale dell’evoluzione del pensiero di Gramsci (durante e dopo il Biennio Rosso), peraltro, è stato proprio quello della necessità da parte della classe operaia, e non soltanto della sua avanguardia già politicizzata e inquadrata in partito, di elaborare la propria strategia e lotta politica per superare il capitalismo e dirigere un’economia al servizio dei bisogni di tutti, e non del profitto di pochi. Ciò chiamava in causa l’importanza delle istituzioni indipendenti che la classe lavoratrice si dà, come i sindacati e i consigli di fabbrica, appunto.
Ciò non toglieva il carattere fondamentale della costruzione di un partito socialista, rivoluzionario della classe lavoratrice, che potesse proporre una direzione politica generale dentro e fuori queste istituzioni larghe dei lavoratori, resistendo alle pressioni conservatrici che queste stesse istituzioni ricevono dallo Stato e dalla classe dominante.
Procedendo verso le radici della strategia della lotta in corso, Latorraca espone rapidamente il problema del passaggio dall’analisi sociologica che facevano i teorici operaisti Alquati e Panzieri (tra gli altri) del “nuovo” operaio massa, alla teoria dell’evoluzione del funzionamento del capitalismo nel senso della “produzione sociale” di valore, come abbiamo già accennato, a opera di Toni Negri e altri “autonomi”. A ciò si associa “[l’]inglobamento completo dei sindacati confederali nello Stato capitalista, di cui diventano in tutto e per tutto delle componenti”.
La liquidazione del processo di cooptazione dei sindacati storici nello “Stato integrale” (cioè nel sistema di istituzioni, anche “subalterne”, che collaborano con lo Stato), che Latorraca fa, è per noi sbagliata oltre che semplicistica, e risolve la questione del controllo dei sindacati maggiori da parte di una burocrazia conservatrice con la negazione del fatto che questi sindacati… siano sindacati. La mancata menzione del ruolo delle organizzazioni politiche della sinistra ai tempi di Panzieri e Negri, cioè innanzitutto il PSI e il PCI, che da soli influenzavano la netta maggioranza della classe lavoratrice, non aiuta a capire come la concezione “autonoma” dell’evoluzione della lotta di classe – così dice Latorraca – in “lotta sociale”, debba “inserirsi nel quadro del riformismo politico” che concretamente oggi significa riferirsi al PD, al M5S e, in misura molto minore, a Sinistra Italiana, e alle iniziative controllate da queste forze politiche. Ci si indichi, se esistono, quali altri rilevanti “riformismi politici” esistono oggi. Fatto sta che è problematico che non ci siano passaggi logici che spieghino l’evoluzione tra la sinistra degli anni ‘70 e le amministrazioni di sinistra di allora – centrate sui partiti operai (per quanto riformisti) del PCI e del PSI – e la situazione attuale. L’adattamento che il movimento operaio e i settori anticapitalisti potevano avere allora, evidentemente, non è quello che si può dare oggi, e già c’è una differenza tra l’oggi e l’epoca “d’oro” del centrosinistra, quando ancora esso aveva un peso importante all’interno del movimento operaio, e non sopra e fuori di esso.
Mondo convergenza: una strategia “riformista istituzionale”?
Ci troviamo così alle accuse specifiche verso la vertenza in corso. È bene che non rimanga un non-detto, se vogliamo fare un dibattito serio, che le critiche di Latorraca non sono rivolte ai lavoratori Mondo Convenienza, ma ai dirigenti del SI Cobas Prato-Firenze: sarebbe veramente paradossale tacciare di indottrinamento da anni ‘70 degli operai che quasi sempre sono immigrati in Italia, a volte da pochi anni, e che spesso hanno come prima esperienza di partecipazione alla vita socio-politica italiana il sindacato, che sicuramente non si rifiuta di reclutarli se non superano un test ideologico di autonomismo, bordighismo, stalinismo, anarchismo o quel che è.
L’elemento pratico immediato di questo dibattito, dobbiamo riconoscerlo, è la lotta ideologica tra il “centro” del sindacato e una sua direzione locale che non proviene dalla stessa scuola di pensiero, e di cui (dopo diversi anni di attività) si rileva oggi l’eredità autonomista. Sarebbe doveroso chiarire, da parte dei compagni che muovono la critica, se credono che le deviazioni pratiche dovute a questa eredità fossero visibili già da prima, o se ci sia una novità che giustifica il mancato dibattito precedente. Latorraca, richiamandosi molto brevemente, ad esempio, a prassi tradizionali della sinistra “autonoma”, come l’occupazione di case e spazi sociali – attività a cui hanno partecipato attivamente anche i compagni fiorentini – ci dà l’impressione che l’accusa di riformismo e adattamento alle istituzioni borghesi sia strutturale, e non contingente.
Il problema, allora, diventa: c’è necessariamente un problema di strategia adattata al riformismo istituzionale, se si incontrano in tavoli istituzionali “assessori, deputati, prefetti”? Dice lo stesso Latorraca, poco dopo, che è normale, durante le proprie vertenze, confrontarsi pubblicamente coi rappresentanti dello Stato e della classe avversa per ribadire le proprie rivendicazioni. Se è fisiologico – e lo è -, allora non si può tacciare un settore di compagni di distorsione riformista, quando di norma si fa la stessa cosa, “si fa politica”. Il problema, semmai, è quali obiettivi ha quel fare politica. Sarebbe quanto meno ingeneroso verso compagni che fanno attività sindacale in condizioni di vita molto precarie, anche per il rischio reale che guidare vertenze combattive comporta, come chiunque conosca le lotte recenti del SI Cobas sa benissimo.
Si suggerisce poi che questi compagni siano contro il governo Meloni, ma in generale non siano in opposizione agli altri partiti di governo. Quali sono gli argomenti concreti a favore di questa tesi? Questi compagni hanno dato un sostegno politico di qualche tipo al PD, al M5S, al governo Draghi, a altri governi? Non ci risulta, e questa critica ci sembra più una calunnia settaria che altro.
L’accusa di stare davanti ai cancelli per oltre tre mesi senza fare alcuni passi in avanti, al contrario, nega la dimensione politica della lotta, che va necessariamente oltre il solo momento dello sciopero e dei momenti formali di contrattazione. Perché abbandonare il luogo da cui la lotta parte, se l’azienda prova a sottrarsi allo scontro spostando il lavoro? Questa logica ha senso solo se si concepisce la lotta operaia come “isolata” all’interno del singolo posto di lavoro oggetto di una specifica vertenza. Ma se la si intende come episodio dentro una lotta tra lavoratori e capitalisti che può essere allargata e generalizzarsi, allora non ha senso lasciare lo spazio industriale e urbano alla controparte durante lo scontro.
È chiaro, ma su questo siamo d’accordo, che innanzitutto una lotta come quella di Mondo Convenienza – dove l’azienda risponde coi licenziamenti senza tanti complimenti quando si inizia a scioperare e picchettare – ha bisogno di colpire anche gli altri stabilimenti dell’azienda. Ma questo può non bastare per la vittoria, e lo abbiamo visto anche in casi di recenti lotte dure e prolungate, come quella contro l’attacco della TNT a Piacenza, un “fortino” del SI Cobas.
Che fare, allora? Noi pensiamo che il concetto fondamentale per allargare e unire (unire, non sovrapporre o accostare) le lotte sia quello del fronte unico, così come elaborato dai comunisti nei primi congressi della Terza Internazionale. Oggi questo concetto sta ritrovando spazio a partire dallo slogan della convergenza proposto dai compagni GKN, però in una forma incompleta e influenzata dalle politiche intersezionali, che hanno una diversa impostazione strategica rispetto a quelle socialiste.
I compagni del SI Cobas Prato-Firenze hanno ripreso questo discorso per rilanciare la loro vertenza oltre i confini dello stabilimento e della filiera, cercando alleati coi quali convergere per non lasciare isolati i lavoratori di Mondo Convenienza.
Il sito web che hanno lanciato, Mondo Convergenza, è secondo noi un esempio notevole di come comunicare in maniera chiara e piacevole le ragioni e le prospettive di una lotta, rendendo più facile il collegamento con altri settori. I concetti più evidenti del sito sono quelli dello sfruttamento brutale da parte dell’azienda, della volontà di non essere ridotti a schiavi, della necessità di far diventare la lotta una campagna più larga contro lo sfruttamento, grazie ad altri settori di lavoratori e di solidali.
Tutto questo non ci sembra avere molto a che fare con una politica centrata sui “progressisti” delle istituzioni borghesi. Al contrario, semmai si pone il problema di sviluppare di più e più profondamente l’egemonia politica dei settori combattivi, d’avanguardia della classe operaia, sulla popolazione che può raccogliersi attorno a loro. Non solo per solidarietà, ma perché in questo modo l’avanguardia possa conquistare un ruolo di guida e di alfiere del malessere e dell’oppressione che una fetta più larga di popolazione subordinata e che soffre. Questo può accadere non perché gli operai siano super-uomini, ma perché hanno a disposizione la forza sociale delle loro posizioni strategiche nell’economia capitalista. Una forza che, se messa in moto in grande scala e con radicalità, può ribaltare qualsiasi rapporto di forza nella società.
Questo problema, non si risolve con la buona volontà se non diventa un asse della propria strategia, del proprio lavoro quotidiano, e se non si accompagna a un’altra questione fondamentale per lo sviluppo della lotta di classe: la capacità di “convergere”, di fare fronte unico sia dall’alto, con mobilitazioni e scioperi unitari delle organizzazioni in quanto tali, al di là delle loro differenze, sia dal basso, cioè abituandosi ad andare al di là dei confini del proprio sindacato, della propria associazione, per discutere la situazione e i compiti delle lotte insieme ad altri settori di lavoratori e di militanti, costruendo assemblee, comitati di solidarietà e di lotta unitaria, coordinamenti di più settori e intersindacali.
Proprio su questo punto c’è un altro nodo che si ritrova anche nello scritto sull’INNSE, che non possiamo prendere in considerazione in questa sede per non allargare troppo il discorso. Si tratta dell’accusa, rivolta agli operai GKN, “pericolosamente” vicini alla vertenza di Mondo Convenienza, di essere rimasti ai tavoli istituzionali e di non aver esteso la lotta oltra i propri cancelli, principalmente per la paura di andare oltre il recinto della CGIL.
Ora, a differenza di altre correnti della sinistra, abbiamo evitato di esprimere semplicemente la nostra partecipazione al movimento e la nostra solidarietà, evitando di parlare delle prospettive e della possibile strategia per lo sviluppo della vertenza. Abbiamo anzi esposto le nostre idee e le nostre differenze rispetto alle altre posizioni, comprese quelle del collettivo di fabbrica, come ad esempio nella nostra proposta di un anno fa, in vista dell’assemblea nazionale che purtroppo, ma non casualmente, non rilanciò il movimento Insorgiamo.
Affermare, però, che gli operai GKN non abbiano allargato la loro lotta e che non si siano affacciati al di fuori dello steccato della CGIL è semplicemente falso. Si può affermare che non si sia creata una dinamica di coordinamento con altri settori di operai forti e organizzati in altre fabbriche, così come con settori in lotta durante gli ultimi due anni. Si può pensare che ci siano stati degli errori di metodo, ma non che non siano stati fatti tentativi, con un grande dispendio di energie e senza la forza e i mezzi che un apparato sindacale dà… nemmeno quello di un sindacato di base. Anzi, la vertenza GKN ha sottolineato come sia estremamente difficile, per la sinistra radicale e i gruppi dirigenti del sindacalismo di base (e della sinistra CGIL), proporre una strategia di lotta che vada oltre il protagonismo della propria sigla, che sia centrata insomma sul fronte unico operaio.
Certo, se si vuole promuovere questo tipo di logica anche dal basso, cioè con un protagonismo politico dei lavoratori, senza che deleghino la conduzione delle proprie lotte ai sindacalisti di professione, non ci si può limitare ai settori che hanno direzioni sindacali più a sinistra di quelle confederali. Bisogna fare proposte pratiche verso la marea di non-sindacalizzati e di iscritti ai sindacati confederali, che spesso occupano le posizioni strategiche più forti nell’economia italiana. Se si vuole che le burocrazie sindacali passive o semi-passive ricevano una pressione e debbano effettivamente mettere in moto le loro strutture con tutta la forza che hanno, è necessario che ci siano lavoratori che lottino al loro interno rivendicando sindacati democratici e combattivi, con un ricambio dei dirigenti ai vari livelli, selezionandoli dai migliori elementi che emergono dai processi di lotta.
Un approccio del genere, però, presuppone una comune strategia attorno alla quale unirsi e coordinarsi, per portare avanti questo tipo di azioni in vari sindacati, settori del lavoro, tra la gioventù, le donne, le minoranze oppresse. Tutto ciò è irrealizzabile – e infatti nessuno lo sta portando avanti con successo – senza un progetto politico in cui riconoscersi, che non si chiuda dentro gli steccati, qui sì, di un singolo sindacato o settore della classe lavoratrice. In quest’ultimo punto stava il limite del gruppo Operai Contro che egemonizzava la lotta della INSEE, e che non è riuscito a far diventare quella comunità operaia un riferimento politico per il movimento operaio negli anni a seguire. Non solo e non tanto per la difficoltà di affrontare l’apparato della FIOM e di Rifondazione, ma per l’assenza di una strategia che permettesse ai lavoratori stessi di avanzare con dei passi pratici nell’ottica del fronte unico della classe lavoratrice, per la sua indipendenza politica dai partiti di governo e dallo Stato.
Crediamo che su questi nodi vada proseguito e approfondito il dibattito, potendo discutere i problemi reali di separazione in un’avanguardia di settori in lotta isolati. Problemi che ci sembra vadano inquadrati diversamente, e che perlopiù non sono quelli che propone Latorraca. È vero, tuttavia, che rimane il nodo, da parte dei militanti più coscienti e attivi, e delle loro organizzazioni, su cosa intendono per “allargare la lotta” e “convergere”, e come intendono farlo. È un fatto innegabile che le azioni di questa “settimana di convergenza” si sono limitate a qualche volantinaggio all’ingresso di punti vendita di Mondo Convergenza, senza nemmeno una partecipazione strutturale del SI Cobas stesso.nell’incapacità di farsi motore dell’allargamento della lotta operaia. Creare una cattiva immagine a Mondo Convenienza è sicuramente importante e funzionale alla lotta. Tuttavia, questi episodi limitati di agitazione rischiano di scollarsi dalla questione centrale: quella di favorire l’estensione e l’unità della mobilitazione operaia, dello sciopero, al di là del magazzino di Firenze, e unirla ad altre lotte per sviluppare il più possibile la sua dimensione politica.
La difficoltà a discutere e ad agire a partire da questo nodo centrale, più che al presunto inevitabile ‘riformismo istituzionale’ dei dirigenti della lotta, ha a che vedere con l’abitudine a rimanere confinati alla dimensione locale, al movimentismo che si alimenta di singoli episodi e cicli di lotta senza avere una prospettiva politica sulla quale costruire le proprie forze, alle strategie apertamente elettoraliste e neoriformiste, non centrate sullo sviluppo della lotta di classe, come quella di Potere al Popolo. Ma, ripetiamo, la sfida è quella di elaborare e costruire, innanzitutto insieme ai lavoratori coinvolti, una strategia per far sì che “fare politica” non sia sinonimo dei momenti “diplomatici” con i padroni durante una vertenza sindacale, ma significhi avere una prospettiva politica generale che, proprio perché c’è, permette di far evolvere le singole vertenze, unirle, radicalizzarle.
Giacomo Turci
Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.