In genere le elezioni locali sono il gioco di una fitta rete di clientele. Politici e famiglie a caccia di voti candidano chiunque: amici, parenti e conoscenti. Il senso è semplice da capire. Ognuna di queste componenti porta dei voti. Di logica – dunque – dovrebbero essere le elezioni col più basso tasso si astensione. E’ accaduto l’inverso a queste ultime elezioni, confermando il trend post crisi. Interpretarne gli aspetti è importante per capire come funzionano le elezioni, che sono un aspetto integrante della lotta di classe, perché termometro di quella che i giornalisti della borghesia definiscono la “coscienza del paese”.

L’elemento principale su cui soffermarsi dopo questa tornata elettorale è l’astensionismo. Dalle amministrative, che hanno coinvolto poco più di 1.000 comuni in tutta Italia, emerge il palese scollamento di operai, giovani e lavoratori anche nei confronti delle forme di governo.

L’astensione s’attesta al 40%, oltre 3 milioni di elettori hanno preferito disertare le urne e le ragioni vanno ricercate nella cronica precarietà lavorativa, nella crescente esclusione sociale, nella mancanza assoluta di prospettive per i giovani; a ciò si aggiungono gli scandali che hanno investito qua e là numerose giunte comunali.

Un altro modo d’interpretare il risultato è considerare l’astensione l’equivalente di una radicalizzazione della coscienza di classe e di un imminente protagonismo di massa. Pur essendo un chiaro sintomo di una separazione sempre più netta tra intere masse di popolazione e la farsa del teatrino elettorale, le diserzioni dalle urne non vanno automaticamente in senso anticapitalista. Anzi, la tendenza oggi più verificabile è quella al nichilismo sociale.

L’astensionismo è sintomo rivoluzionario (o pre-rivoluzionario) quando lo scollamento delle masse dallo stato borghese determina la formazione spontanea di organismi di potere popolare (le assemblee dei lavoratori), sul modello dei comitati-governo sorti dopo il 19 luglio 1936 in Spagna nelle zone in cui le truppe franchiste furono sconfitte.

Qual’è il senso della partecipazione alle elezioni per i marxisti rivoluzionari, dunque?
Vi sono alcuni modi d’intendere la partecipazione. Una chiave di lettura viene data da alcuni gruppi della sinistra anticapitalista, che concepiscono le elezioni come la presentazione del proprio simbolo e del proprio programma. Altri la concepiscono come la presenza di anticapitalisti nelle liste della sinistra borghese per “spostare a sinistra” il quadro politico.

Nella fase che stiamo attraversando certe metodologie appaiono agli occhi degli sfruttati come settarie ed autoproclamatrici. Presentare “a forza” la propria organizzazione con annesso programma non è in sé sufficiente, ancor meno funzionale è la scelta di comporre liste genericamente “di sinistra” su programmi interclassisti. Entrambe – seppur su assi opposti – sono esperienze sbagliate e fallimentari. La candidatura elettorale assume consistenza quando essa è l’espressione di una certa radicalità operaia, non necessariamente di massa, ma anche di qualche fabbrica così come di altri settori nei quali il conflitto è reale. Una realtà saldata sul programma transitorio, che unisce le rivendicazioni economiche e democratiche delle masse – con una centralità operaia – all’alternativa di potere. Ma non esiste una formulazione schematica per farlo.
Non esiste un metodo tattico prestabilito per propagandare il programma della rivoluzione nella vetrina elettorale.
Al contrario, quando si fà del metodo tattico un dogma imprescindibile di costruzione, il pericolo di diventare – ed esser percepiti dai lavoratori – come una setta si fa molto probabile.

La presentazione elettorale può essere la candidatura in un fronte anticapitalista di delegati operai e dei lavoratori (vd. l’esperienza del Frente de Izquierda y de los Trabajadores in Argentina), risultato dell’unione di più gruppi della sinistra rivoluzionaria. Un’unione non finalizzata a una fusione strategica, ma alla polarizzazione in senso classista e anticapitalista dei lavoratori combattivi, in modo da influenzare migliaia e centinaia di migliaia di lavoratori con il programma rivoluzionario. Non per forza – quindi – la presentazione di sè stessi agli altri, ma della propria proposta alle masse.

In questa logica la “vetrina elettorale” assume un significato completamente diverso ed in termini propagandistici apre scenari inconsueti. D’altronde pensare che dalle istituzioni della borghesia escano le soluzioni per la vita dei proletari è una mera illusione. Un sistema che vede bande in contesa per la spartizione di posti nella democrazia rappresentativa, dove a vincere sono gli interessi di una cerchia ristrettissima di soggetti (i padroni), che prevalgono anche in uno stato di evidente difficoltà del sistema stesso.

Pertanto la presenza della sinistra rivoluzionaria non può essere qualcosa di avulso dalla dinamica della lotta di classe. Presentarsi in maniera distaccata dai lavoratori produce un effetto contrario alla presentazione del programma di trasformazione sociale. Indebolisce i candidati stessi. Da un lato li espone a critiche di percentuali risibili di voti. Dall’altro rischia di bruciarne l’ottimismo della volontà necessario per la battaglia alla distruzione dello stato dei padroni.

 

Roger Savadogo

Nato a Venezia nel 1988, vive a Brescia. Operaio, è studioso e appassionato di sottoculture giovanili, ultras e skinhead in particolare.