A fare da palcoscenico alla “nuova” ondata ideologica è la regione ucraina del Donbass, dove si consuma una guerra tra esercito governativo di Kiev e separatisti filorussi sostenitori del progetto di una federazione Russa. La peculiarità del conflitto, che interessa pure l’Italia, è quella di rompere lo schema politico iniziale che vedeva i camerati europei, tra cui i neofascisti italiani, schierarsi con il governo e con l’esercito di Kiev, sostenuto apertamente da partiti e movimenti ucraini di estrema destra provenienti, soprattutto, dal sottobosco ultras delle curve. Si, poiché oggi, accanto ai fascisti e ai neonazisti nostrani schierati in prima linea contro il governo di Kiev sostenuto dalla Nato, compaiono i sostenitori, stranieri e italiani e al soldo di Putin, del rossobrunismo. Ad accomunarli: nazionalismo, sovranismo, ostilità e rancore verso gli immigrati, intensificata discriminazione sociale nei confronti di gay e lesbiche, divieto d’aborto.

L’ideologo di riferimento si chiama Aleksandr Dugin, il quale teorizza a sua volta la creazione di un “blocco euroasiatico”, di una grande Russia nazionalista, tradizionalista, ortodossa, anti-capitalista e anti-occidentale. Il vecchio mantra secondo cui destra e sinistra sarebbero superate, “roba del secolo scorso”, fa da sfondo ad uno scenario in cui maturano alleanze tra opposti estremismi nel reclutamento di mercenari filorussi. Certo, questo non dovrebbe stupire quanti tra noi hanno avuto figure di riferimento del calibro di Costanzo Preve, vero ideologo del rossobrunismo, che ha fatto della rimozione della classe proletaria nella guerra al capitalismo il proprio cavallo di battaglia.

Secondo la teoria rossobruna infatti, i conflitti sociali che possono scaturire in seno alle nazioni sono da considerare meno urgenti rispetto al conflitto tra le nazioni. Tali conflitti, infatti, scaturirebbero per lo più dalla contrapposizione nazioni che sono più capital-imperialistiche e altre che lo sono meno. Cosa renda alcune nazioni più o meno capitalistiche di altre se non la lotta di classe vinta o persa, a turno, da uno dei soggetti sociali in campo, è un mistero della fede geopolitica. Non resta allora, per quanto imbarazzante nella sua banalità una simile posizione possa sembrare, che scegliere il campo meno capitalistico e schierarsi con quest’ultimo. Una variante del socialsciovinismo, il campismo, che mai nulla ebbe a che fare coi comunisti dell’era pre-staliniana. Sì perché lo stalinismo, che in maniera opportunistica identificava la classe con la nazione, in modo da liquidare ogni critica al blocco come “traditori” e “quinte colonne del nazifascismo”, stava alla base del pensiero rossobruno di Preve, il quale non fece che estenderlo al di là dell’ ’89, smarrendo definitivamente il senso di classe dei vari partiti e della distinzione tra una destra ed una sinistra politica.

Non debbono dunque sorprenderci, nonostante la loro comicità, le varie prese di posizione a sostegno di reazionari borghesi come Trump e Le Pen in funzione anticapitalista da parte dei rossobruni, i quali, loro malgrado, nell’intento di contenere un eventuale imperialismo bellico e mitigare il capitalismo made in Usa impartito all’Europa, si ritrovano poi a dover spiegare ai proletari come si possa essere contro la guerra e la proprietà privata dei mezzi di produzione. Mistero della fede. Così come resta un dogma il fatto che, all’accettazione di una mondializzazione del sistema economico, non si spieghi la polarizzazione tra destra e sinistra ai punti più alti della globalizzazione capitalista (Usa) o ai punti più bassi (mondo arabo e islamico e paesi asiatici), ma solo ai punti medi dell’Europa continentale. Ma si sa, il sonno della ragione e il rifiuto della dialettica sorta in seno al movimento operaio generano mostri, tanto è che oggi molti rossobruni preferiscono parlare di sovranità monetaria e spostare l’attenzione su guerre di religione e pericolo islamico. Ruolo guida del proletariato, scontro di classe e distinzione tra destra e sinistra politica restano un problema mal posto nelle menti degli idealisti rossobruni, per i quali è inconcepibile anche solo il fatto che due o più nazioni possano farsi la guerra condividendo le stesse idee acuitesi in seno alla scontro di classe e al movimento operaio.

Ma la questione non si esaurisce e porta in grembo altri germi: a fare concorrenza al campismo rossobruno sull’espansione del modello economico e produttivo dominante di un’epoca, agli antipodi del pensiero marxiano, troviamo i teorici dell’imperialismo unitario, secondo i quali tendenze separatiste all’interno di una nazione non farebbero altro che rafforzare la reazione a discapito del socialismo mondiale. Questo perché è inconcepibile che un diritto democratico e non socialista come l’indipendenza possa essere concepito in un’ epoca come questa dal proletariato rivoluzionario. In altre parole, il fattore dialettico secondo cui il proletariato possa assorbire problemi democratici, come quelli nazionali, dando alla rivoluzione un carattere combinato, viene totalmente rimosso nelle loro menti, producendo un gap teorico che il più delle volte porta a ragionamenti da cortocircuito, statici e dogmatici, come il fatto di considerare il trionfo della rivoluzione proletaria su scala mondiale una precondizione che permetta di risolvere automaticamente tutti i problemi, e non un prodotto ultimo di molteplici movimenti, di campagne e di battaglie.

D’altronde, la lotta dei bolscevichi per il diritto all’autodeterminazione delle nazionalità oppresse in Russia non facilitò la presa del potere da parte del proletariato?

In merito alla questione ucraina, storicamente va poi ricordato che l’economia dell’Ucraina era parte integrante di un piano quinquennale e la sua separazione minacciava di rompere il piano e di abbassare il livello delle forze produttive. Questo perché un piano economico non è un sancta sanctorum, come ci ricordava Trotzky, ma è opera di uomini. Può accadere che decisioni nazionali all’interno della federazione, a dispetto del piano unificato, spingano in direzioni opposte, comportandone una possibile ricostruzione conformemente a nuove frontiere. È il prevalere e il prevaricare delle leggi dell’imperialismo a rendere il destino delle nazioni piccole e medie instabile e incerto. E l’imperialismo può essere rovesciato solamente dalla rivoluzione proletaria. Sarà pertanto compito del  proletariato ucraino dirigere il popolo ucraino nelle lotte a venire, non certo di mercenari neofascisti e rossobruni.

Dal punto di vista della rivoluzione mondiale, seguendo sempre il ragionamento di Trotzky, non è possibile considerare in maniera statica le frontiere – accidentali dal punto di vista della politica razionale e rivoluzionaria – e quindi prenderle come punto di partenza senza tenere in conto tendenze nazionaliste centrifughe che, ovviamente, possono confluire sia nei canali della rivoluzione sia in quelli della reazione. Poiché da un lato ci si allontana dalla lotta per l’indipendenza nazionale contro lo strangolamento burocratico, dall’altro ci si rifugia nelle speculazioni sulla superiorità dell’unità socialista. Una politica che porta le peggiori stimmate del centrismo, ossia una politica che è opportunista in sostanza e che cerca di apparire rivoluzionaria nella forma.

 

Kenzo

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