Nel dibattito pubblico e specialmente tra chi si oppone alla guerra l’idea dominante è che i paesi europei e l’UE siano coinvolti nel conflitto loro malgrado.

Lo scontro sarebbe essenzialmente tra Russia e Stati Uniti, mentre Berlino, Parigi, Roma ecc. avrebbero tutto l’interesse a trovare un rapido accordo con Mosca a causa dell’interdipendenza energetica con quest’ultima e il rischio di una conflagrazione nucleare a poche centinaia di chilometri. In questo articolo cercheremo di mostrare come il conflitto per l’influenza regionale, e in particolare sull’Ucraina, tra i paesi europei e la Russia sia un aspetto imprescindibile per comprendere gli sviluppi in corso, mentre le frazioni dominanti del capitale UE hanno tutto l’interesse a favorire un escalation per giustificare e proseguire i loro piani di centralizzazione imperialista su scala continentale, in relativa autonomia dagli USA.

Tenere in considerazione questo aspetto è importante per evitare che il movimento contro la guerra finisca per legittimare in maniera più o meno diretta un processo del genere, oltre che per prendere una posizione di classe relativa al sostegno militare occidentale a Kiev.


Introduzione

Dal 24 febbraio 2022, data di inizio dell’invasione russa in Ucraina, i paesi europei hanno incrementato progressivamente il proprio coinvolgimento nel conflitto elargendo centinaia di milioni di aiuti a Kiev e promettendone miliardi, che si aggiungono ai 4 già messi in campo dagli USA (cifra di fine maggio, cfr. Youssif 2022b). Nel frattempo non solo Berlino, ma anche Parigi, Roma e Madrid, ove al governo vi è una coalizione ‘progressista’ comprendente Podemos e la ‘Rifondazione’ spagnola – Izquierda Unida, hanno approvato ingenti aumenti delle spese militari, o dichiarato di essere in procinto di farlo. 

La posizione più influente nel movimento contro la guerra tende però a vedere come attori chiave del conflitto solo USA e Russia, mentre i paesi UE sarebbero coinvolti loro malgrado, a causa della propria subalternità a Washington. L’interdipendenza energetica tra UE e Russia e il rischio di una conflagrazione nucleare nel cortile di casa spingerebbe infatti a un rapido disimpegno dal conflitto a favore della pace, se l’interesse nazionale fosse la prima considerazione dei leader europei, o se solo Bruxelles fosse in grado di esercitare un’azione politica indipendente dagli Stati Uniti. Secondo questa chiave interpretativa, l’espansione a est della NATO e le crescenti preoccupazioni del Cremlino in termini di sicurezza sarebbero i processi di fondo da tenere in considerazione per spiegare la vicenda, al netto della condanna di rito nei confronti dell’aggressione russa. Così, l’orizzonte dovrebbe essere quello di costituire il fronte più largo possibile per spingere le capitali europee a giocare un ruolo indipendente a favore della diplomazia, magari con la benedizione dell’ONU e nel quadro di un rafforzamento dell’UE come attore autonomo (la posizione del quotidiano dei vescovi Avvenire e della CGIL). Altri settori – come Potere al Popolo (2022) – sono più netti nel rivendicare una mobilitazione che impedisca ai governi di coinvolgere i propri popoli nel conflitto. Tuttavia – schiacciati sulla retorica che vede l’Europa come “succursale della NATO” (Cremaschi 2022)  – essi non sono in grado di contrastare efficacemente l’idea secondo cui si potrebbe in qualche modo condurre i leader del vecchio continente alla ragione, facendo quindi oggettivamente sponda alle burocrazie sindacali e all’associazionismo cattolico, i quali rappresentano i principali ostacoli a un movimento contro la guerra veramente radicale ed efficace. “Se l’Unione Europea facesse un’iniziativa di pace autonoma nei confronti della Russia cambierebbe tutte le carte in tavola”, ha dichiarato sempre il portavoce di Potere al Popolo Giorgio Cremaschi in una trasmissione televisiva (ibidem). 

Prima ancora di essere problematica sul piano della proposta politica, una visione del genere è inoltre vulnerabile a tutta una serie di critiche da parte della propaganda dominante: l’espansione a est della NATO, viene evidenziato dai media mainstream, si è fermata nel 2008, non rappresentando perciò una minaccia tale da spiegare la politica estera del Cremlino dal 2014 in poi; l’aggressione di Mosca nei confronti di Kiev – si dice – potrebbe quindi essere inquadrata solo come manifestazione dell’imperialismo russo e delle volontà genocide di Putin. Al di là della sottovalutazione interessata dell’assistenza militare di Washington a Kiev tra il 2014 e il 2021 (pari a circa 2,4 miliardi di dollari, cfr. Youssif 2022a), un argomento del genere trova spazio nell’incapacità di analizzare in maniera esaustiva gli interessi in campo, e in particolare quelli degli Stati europei e della Russia, come cercheremo di mostrare nei prossimi paragrafi.

Chiarire il ruolo e gli interessi degli Stati europei nella guerra in corso aiuta inoltre a prendere una posizione di classe rispetto al sostegno militare occidentale a Kiev. Secondo alcuni, posto che Washington, Berlino, Parigi, Roma ecc. non avrebbero veramente intenzione di salvaguardare l’auto-determinazione ucraina, sfidarli sul piano dell’invio di armi permetterebbe di smascherarne l’opportunismo, insieme a quello di Zelensky (cha ha puntato tutto sul sostegno internazionale) e favorire l’emergere di forme di resistenza autonome (Alegria 2022). Secondo altri, semplicemente, non bisognerebbe mostrare un’opposizione aperta al supporto indiretto UE-NATO, nella misura in cui ciò sarebbe in contraddizione con la solidarietà al diritto degli ucraini di respingere l’invasione (Achcar 2022). Del resto, come afferma il Partito Comunista dei Lavoratori (2022) non si tratterebbe ancora di un “vero conflitto interimperialista [che] farebbe passare la questione dell’indipendenza reale Ucraina in secondo piano ” [corsivi nostri]. 

Se posizioni del genere hanno il merito di contrastare il pacifismo che si oppone all’uso della forza in base a presupposti etico-morali, esse hanno dunque come limite quello di sottovalutare la posta in gioco rappresentata dalla guerra in Ucraina – e dall’invio di armi  – rispetto a processi come la sfida USA-Russia (nel quadro più generale di quella USA-Cina), e il rafforzamento imperialista degli Stati UE (oggetto della nostra riflessione). Come sottolineeremo nelle conclusioni – ed è questo l’aspetto decisivo – è infine dubbio che il sostegno militare europeo e statunitense allo stato ucraino possa spingere verso un salto di qualità politico della resistenza all’invasione.

 

Un appunto preliminare sull’imperialismo russo

In questo articolo, rigettiamo la posizione secondo cui la Russia sia una potenza imperialista; come abbiamo già argomentato, una categoria del genere si riferisce a un fenomeno specifico, radicato nella posizione che i vari paesi occupano nelle gerarchie tecnologiche e di controllo delle filiere produttive su scala internazionale. La questione dell’ “esportazione di capitale”, spesso utilizzata come criterio chiave per parlare di imperialismo non può essere considerata in astratto da tale aspetto, pena assumere un’impostazione dogmatica (Lodi 2021). La Russia va dunque identificata come un paese essenzialmente subordinato nelle gerarchie del capitalismo mondiale, in virtù della sua inserzione nella divisione internazionale del lavoro basata sulle materie prime (Figura 1). Se è vero che la borghesia russa esporta capitale, ciò avviene soprattutto come fuga di capitale nella finanza offshore, più che come investimento produttivo volto a costruire e dominare catene globali del valore (Liuhto 2015).

Figura 1: esportazioni e importazioni dei paesi UE dalla Russia: come si vede i primi importano soprattutto idrocarburi e metalli di base, mentre esportano prodotti ad alta tecnologia come prodotti farmaceutici, auto e macchinari. Fonte: Liuhto 2020.

È importante, a nostro avviso, tenere bene a mente questa caratterizzazione per ridimensionare la portata dell’espansionismo russo e contrastare la propaganda militarista nostrana. Un punto di vista del genere aiuta inoltre, come vedremo, a non sovrastimare l’interesse a collaborare con Mosca da parte delle capitali UE, legate a quest’ultima da un’interdipendenza piuttosto asimmetrica a loro vantaggio.

D’altro canto, va però enfatizzato come la specifica traiettoria storica del paese, e in particolare la disponibilità di un arsenale di tutto rispetto ereditato dall’URSS, permetta a Mosca di impostare una politica di potenza su scala regionale che va al di là della pura e semplice difesa dall’imperialismo. Tale politica corrisponde all’esercizio di una vera e propria oppressione nazionale (come nel caso dell’invasione in Ucraina) che contribuisce alla divisione della classe operaia; oppure va a rafforzare regimi reazionari fratelli nell’area post-sovietica, peraltro talvolta in alleanza diretta con il capitale occidentale, come ha mostrato l’intervento per sedare l’insurrezione proletaria in Kazakistan del gennaio 2022 (Lodi 2022). Di conseguenza, in chiave marxista, nessun tipo di appoggio politico può essere fornito alla cricca che detiene il potere al Cremlino. Inoltre, il fatto che la politica di potenza russa sia associata a un “imperialismo militare”, più che a specifiche basi economiche, non significa che essa possa essere compresa senza analizzare la particolare struttura e gli interessi del blocco capitalista attorno a Putin, un tema che a sua volta rimanda all’importanza del conflitto tra paesi UE e Mosca nello spiegare il conflitto in corso. 

 

Lo scontro tra gli imperialisti europei e il capitale russo nello spazio post-sovietico

Non si sottolinea mai abbastanza spesso come il contenuto economico dell’allargamento a est della NATO sia stata l’espansione del capitale multinazionale europeo, specialmente in Europa centrale, integrata in maniera subordinata nelle catene del valore dominate dai principali paesi UE, e in particolare dalla Germania. Tale processo non si è tuttavia arrestato ai vecchi paesi del patto di Varsavia, ma ha coinvolto un po’ tutta l’ex-URSS, fino all’Asia centrale. Interessante il caso del Kazakistan, il paese economicamente più rilevante dopo la Russia nell’area geografica in questione e dominato dagli investimenti esteri USA e UE, concentrati nei settori minerario, metallurgico e dell’energia.

Figura 2: investimenti diretti esteri in Kazakistan nel 2019, percentuale sul totale dello stock. Fonte: elaborazione nostra su dati da Petrushkevich (2021). Nota Bene: i Paesi Bassi rappresentano soprattutto investimenti esteri di altri grandi paesi UE, in primis dell’Italia, con Eni, la cui controllata kazaka ha sede fiscale ad Amsterdam.

Nell’ottica di contrastare questo processo e incoraggiare il proprio capitale di riferimento, a partire dal 2011 la Russia ha coinvolto i paesi della vecchia Comunità degli Stati Indipendenti in una serie di trattative miranti a costituire un’area regionale di libero scambio – l’Unione Economica Euroasiatica (UEE). Come spiega bene Tony Wood (2019), il blocco dominante attorno a Putin ha come punto d’appoggio principale la frazione borghese legata all’industria pesante (metalli di base) e alle materie prime (gas e petrolio in particolare). Il regime del predecessore Eltsin era invece più legato a personaggi attivi nel settore bancario e nei media, spesso associati alla finanza internazionale e favoriti dal caos economico degli anni 90. Il boom del prezzo dei prodotti di base segnato dalla crescita cinese di inizio anni 2000, ha spostato però i rapporti di forza a vantaggio dei settori capitalistici produttivi, situazione cristallizzata da alcune politiche putiniane come la nazionalizzazione delle risorse del sottosuolo e di parte della produzione di idrocarburi, che hanno arginato il predominio del capitale multinazionale. Ciò non significa che Putin rappresenti il referente di una ‘borghesia nazionale’ e pro-sviluppo. I vari Abramovich, Potanin, Usmanov etc. sono oligarchi a capo di industrie in settori ad elevato capitale fisso, ma a basso contenuto tecnologico e strutturalmente incapaci di generare effetti a cascata sull’economia locale (basandosi essenzialmente su attività estrattive e quindi poco integrabili con altre produzioni). Così, come noto, i loro enormi profitti monopolistici sono allocati in beni immobili, specie all’estero e nei paradisi fiscali – anche grazie alla corruzione e ai rapporti privilegiati con il potere politico – invece che investiti nello sviluppo dell’economia nazionale. Tuttavia, tenere presente le caratteristiche specifiche di questi capitalisti è fondamentale per interpretare la politica estera di Mosca nell’ultimo periodo. La crisi del 2008 ha aumentato, infatti, la competizione mondiale sul mercato dei prodotti di base, quindi l’interesse precipuo della frazione dominante della borghesia russa a espandere la propria influenza nello spazio post-sovietico, ove si concentra una gran parte delle ricchezze minerarie del mondo e in cui il Cremlino può sperare di esercitare leve politiche e militari, pur essendo sempre più marginale sul piano economico.

Centrale in questo quadro è l’Ucraina, il paese più importante della zona dopo il Kazakistan in termini di risorse. Qui infatti la penetrazione del capitale occidentale era stata tutto sommato ridotta, nonostante il ruolo di primo piano che le istituzioni finanziarie internazionali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) e l’Unione Europea avevano avuto nel ristrutturare l’economia locale dopo il 1991. Come documenta Yulia Yurchenko (2018), tra le prime 100 società ucraine solo 17 erano in mano al capitale straniero nel 2010 (4 russe e 13 occidentali), mentre le restanti rimanevano controllate dallo Stato o da oligarchi locali. Nel 2012, tuttavia, Kiev si è allontanata dall’Unione Euroasiatica firmando un trattato di associazione con l’Unione Europea, per poi cominciare i negoziati finalizzati alla firma del Deep and Comprehensive Free Trade Agreement (Trattato Commerciale Completo e Approfondito). Si tratta di un tipo di accordo che negli ultimi anni Bruxelles sta cercando di promuovere in vari paesi della sua periferia (in particolare il Nord Africa) e i cui obiettivi vanno al di là di una semplice riduzione tariffaria, per includere una vera e propria armonizzazione normativa, in particolare rispetto a standard di qualità dei prodotti, concorrenza e trasparenza. Questo avrebbe rappresentato per il capitale russo la rinuncia all’Ucraina come destinazione di investimenti in settori ove la frazione dominante del blocco sociale di Putin ha il suo core-business e in cui essa sperava di poter incrementare il proprio raggio d’azione, sfruttando la crisi dell’importante settore metallurgico e minerario ucraino post-2008, e la dipendenza energetica di Kiev da Mosca (Matuszak 2012).

Anche in Ucraina, la frazione capitalistica in quel momento più influente era quella degli oligarchi dell’industria pesante, concentrata nel Donbass: si spiega così la decisione del governo Yanukovich – punto di riferimento privilegiato del gruppo sociale in questione – di bilanciare l’influenza russa con quella dell’Unione Europea. La minaccia di aumentare il prezzo del gas, operata da Mosca dopo lo sganciamento di Kiev dall’Unione Euro-Asiatica, ha fatto però pendere l’ago della bilancia a svantaggio di Bruxelles: una mossa del genere avrebbe infatti rappresentato il fallimento del settore metallurgico ucraino, grande consumatore di energia. L’adeguamento alle regole UE avrebbe d’altro canto costituito una minaccia strutturale per i padroni del Donbass, per i quali ciò significava semplicemente mettere in discussione le pratiche commerciali e di bilancio opache che ne avevano sostenuto i profitti nel ventennio precedente, senza nessuna significativa possibilità di espansione del proprio mercato ad ovest, già garantite dall’accesso al WTO nel 2008 (Yurchenko 2018).

Nello stesso solco, il Dcfta avrebbe generato una sostanziale ristrutturazione dell’industria nel sud-est del paese, con un verosimile aumento della disoccupazione, generando forti timori popolari in un contesto geografico ove il Partito delle Regioni di Yanukovich aveva la propria base elettorale. Così, nel novembre 2013 Yanukovich straccia il trattato di associazione con l’UE, favorendo l’emergere delle proteste di piazza Maidan, in fondo giustificate dall’esasperazione nei confronti dell’oligarchia post-sovietica, ma di fatto egemonizzate dai settori di quest’ultima più legati al capitale internazionale, all’industria leggera e all’agribusiness, quindi maggiormente interessati a un’ulteriore apertura al mercato europeo (emblematico esponente di questa frazione è il “vecchio” presidente Poroshenko, magnate dell’industria dolciaria). Non diversa la traiettoria del movimento separatista nel Donbass, spinto da legittimi timori della popolazione locale nei  confronti delle ingerenze UE, ma fin da subito diretto da nostalgici dello zarismo e nel giro di poco tempo adattatosi agli interessi del Cremlino.

Da notare, proseguendo, come in seguito alla crisi politica del 2013-14, le difficoltà socio-economiche ucraine non sono solamente legate alla guerra nel sud-est, ma anche e soprattutto alla crescente dipendenza del paese dai prestiti occidentali, in particolare dell’FMI, e dell’UE tramite la EBRD (European Bank for Reconstruction and Development), nel cui bilancio il paese est-europeo è diventato negli ultimi anni il primo destinatario di finanziamenti, pari a 16 miliardi di euro cumulativi (EBRD 2022). Ai prestiti sono seguite condizionalità in termini di politiche monetarie restrittive, svalutazioni, riduzione della spesa pubblica, contro-riforme sul lavoro, e privatizzazioni (in particolare nel settore dell’agribusiness che negli ultimi anni è diventato terra di conquista delle multinazionali UE; Reicher & Mosseau 2021, Yurchenko 2018). Tutto ciò ha condotto a un impoverimento di massa e a crescenti diseguaglianze, come attestato dal crollo della quota di reddito complessivo destinato al lavoro, passata dal 61% al 43% tra il 2013 e il 2016. 

Figura 3: Ucraina, quota di reddito destinata al lavoro (Labour share of income). Fonte: elaborazione nostra su dati ILO.

Vedendosi ridotto il proprio margine di manovra sul piano delle politiche economiche, la nuova leadership ucraina è stata dunque incentivata a favorire l’irregimentazione nazionalista del paese che ha impedito il riconoscimento dell’autodeterminazione delle regioni russofone, contribuendo alla mancata stabilizzazione degli accordi di Minsk del 2015 e al permanere del conflitto nel Donbass, quindi alla degenerazione attuale della situazione.  

 

Militarismo e tendenze alla centralizzazione imperialista in Unione Europea

Alla luce di quanto evidenziato, vedere lo scontro in atto come un semplice confronto tra Russia e USA, nel quale i paesi europei sarebbero stati sostanzialmente trascinati per sudditanza a Washington è una vera e propria falsificazione, date le enormi responsabilità dei primi rispetto al caos attuale e ai forti interessi che si condensano nella guerra. È vero, detto questo, che l’aspetto strettamente economico non spiega in maniera esaustiva l’atteggiamento antagonistico di Francia, Germania e Italia nei confronti del Cremlino, visto il peso modesto dell’economia ucraina (pari allo 0,1% del PIL mondiale). Un elemento importante da aggiungere alla riflessione è perciò che la guerra in corso è diventata un banco di prova e un’opportunità per i settori delle élite borghesi impegnate nella costruzione di un polo imperialista continentale, in barba a chi invoca un ruolo più attivo dei paesi europei in chiave pacifista.

Come ammette candidamente Alessandro Profumo, amministratore delegato di Leonardo Finmeccanica, con riferimento alla guerra in Ucraina: “sono sicuro che questi tragici eventi creeranno un maggiore co-ordinamento e spesa nel settore militare [in Europa]” (cit. Landini 2021). Il processo di centralizzazione dell’industria della difesa è infatti ben avviato da quando nel 2017 viene creato in seno alla Commissione Europea l’European Defense Fund, con un budget di 8 miliardi di euro, teso a finanziare progetti che coinvolgono le principali imprese di armamenti di Francia, Germania, Italia e Spagna. Una cifra del genere può sembrare ridotta, soprattutto rispetto al totale delle spese militari dei singoli paesi, ma va sottolineato che si tratta di denaro allocato per sostenere progetti di ricerca e sviluppo che i governi non riuscivano a portare a termine da soli, come nel caso del progetto per la costruzione di un drone europeo (fallito, quando tentato dalla Francia individualmente; Eliassen 2022). Nel frattempo, Parigi, Berlino e Roma hanno siglato o stanno discutendo trattati bilaterali incrociati in cui ci si impegna all’approfondimento della co-operazione in termini di sicurezza, nel quadro di favorire l’“autonomia strategica” dell’Europa. Si veda, ad esempio, il testo dell’accordo del Quirinale, firmato da Macron e Mattarella il 26 novembre scorso (Il Foglio 2021), il quale fa il paio con il patto di Aquisgrana del 2019 tra Parigi e Berlino, a cui si aggiungerà nei prossimi mesi un trattato simile tra Italia e Germania. Certo, processi come la costruzione di una forza militare europea, non sembrano all’ordine del giorno. Tuttavia, con la guerra in Ucraina l’European Peace Facility, fondo da 6 miliardi di euro istituito nel 2021 per finanziare operazioni militari coordinate tra i membri UE è stato incrementato di 1,5 miliardi (destinati all’acquisto di armamenti per Kiev, cfr. Eilassen 2022).

È dunque fuori discussione che siano gli USA a dirigere le iniziative contro la Russia, anche solo guardando l’ammontare dei finanziamenti bellici all’Ucraina in rapporto a quelli apportati dai paesi europei. Tuttavia, la propaganda di guerra, le sanzioni e gli aiuti militari promossi da questi ultimi rispondono a una strategia che non è meramente sovrapponibile a quella di Biden. Così gli aumenti del budget alla difesa di Germania, Francia e Italia non vanno letti semplicemente come l’esaudimento dei desiderata statunitensi, bensì come una manovra necessaria ai vari stati per continuare ad avere voce in capitolo sul tavolo dell’integrazione militare europea. Come scrivono Isabella Simonazzi e Arturo Varvelli, direttore dell’ufficio romano dell’European Council of Foreign Relations:

Non c’è autonomia strategica senza una robusta industria della difesa, e la cooperazione tra Italia e Germania può dare nuova vita ai durevoli tentativi di integrare le industrie europee in questo settore. I leader italiani hanno ragione a preoccuparsi relativamente al fatto che maggiori spese di difesa possano incidere su un’economia già inginocchiata dalla pandemia. Tuttavia, è importante ricordare le numerose opportunità economiche offerte da un maggiore investimento in quest’ambito. C’è molto da guadagnare nel diventare leader credibili in questo settore politico sempre più importante.” (Varvelli & Simonazzi 2022)

L’integrazione militare europea non è del resto il mero risultato delle pressioni esercitate dalla ‘lobby delle armi’: il settore della difesa è infatti nella maggior parte dei casi sotto il controllo degli stati, i quali non a caso nominano ai loro vertici figure che possono fornire garanzie alla borghesia nel suo complesso, o per lo meno alle sue frazioni dominanti. Il succitato Alessandro Profumo, ad esempio, è stato presidente di Monte dei Paschi di Siena, membro del CdA di ENI e amministratore delegato di Unicredit, seconda banca italiana e a sua volta centro nevralgico dei maggiori interessi capitalistici italiani. Profumo è inoltre il successore di Giampietro Massolo, ex capo dei servizi segreti ed oggi presidente di Atlantia, holding dei Benetton. 

Il consolidamento dell’industria degli armamenti su un piano comunitario va allora inquadrata negli interessi strategici delle classi dominanti europee a una centralizzazione militare – e politica – su scala continentale, imposta dalle mutazioni dei rapporti di forza inter-imperialisti e inter-capitalisti su scala globale. Tale processo è estremamente contraddittorio e caratterizzato da forti contro-tendenze, in primis le divisioni interne alle classi dominanti associate allo sviluppo ineguale del capitalismo nei vari paesi che tende a penalizzare alcuni stati, come l’Italia, e concentrare il potere nelle mani di altri, come la Germania. Il settore della difesa UE è peraltro fortemente integrato con quello di Washington, e non per “sudditanza” dei dirigenti europei alla NATO, ma in virtù dei forti legami finanziari tra le imprese in questione con fondi di investimento basati negli Stati Uniti (Eliassen 2022) oltre che per via dei rapporti operativi tra eserciti e burocrazie militari nel quadro dell’Alleanza Atlantica. Tuttavia, specialmente in questa fase convulsa, le spinte verso la centralizzazione e l’autonomizzazione (relativa) dagli USA non possono essere nascoste.

La presidenza Trump ha sancito come gli USA non siano più in grado di mantenere il proprio predominio in forma egemonica. Tale dato dipende da fattori strutturali, e in primo luogo la riduzione relativa del peso economico mondiale degli Stati Uniti a vantaggio della Cina. Così, se Biden ha cercato di ricomporre alcune fratture eccessive ereditate dal predecessore – abolendo, ad esempio, i dazi sull’acciaio – i terreni di scontro non sono scomparsi. Si pensi ad esempio all’annullamento dei contratti di fornitura militare tra Francia e Australia spinti da Biden nel quadro dell’accordo AUKUS (Barbieri 2021) in chiave anti-Pechino; si pensi al fatto che anche con la nuova presidenza un accordo sul nucleare iraniano non sembra all’orizzonte (a causa delle sanzioni, Roma, Berlino e Parigi hanno perso decine di miliardi di appalti). I colli di bottiglia nelle catene globali del valore associati alla pandemia hanno inoltre reso chiaro che non si può rimanere in partita sul piano geo-economico senza sviluppare un’industria dei semi-conduttori, a cui l’integrazione europea del settore militare – tra i più avanzati tecnologicamente – potrebbe fare da traino. Rimanendo su un piano più geopolitico, eclatante è stato poi il ritiro senza consultazioni di Washington dall’Afghanistan, mentre il crescente disimpegno strategico USA dal Medio-Oriente e dall’Africa rende sempre più chiaro che le vecchie potenze coloniali non possono più difendere il proprio predominio imperialista in ordine sparso, in un contesto in cui emergono attori regionali come la Turchia e i paesi del Golfo, che si aggiungono alla crescente presenza cinese nell’area. La stessa crisi in Ucraina, d’altro canto, manifesta che la dipendenza degli ‘europei’ dal braccio militare USA non permette loro di governare in maniera indipendente i tempi e i modi della propria politica internazionale. È plausibile, infatti, che – pur avendo ora buone ragioni per fomentare la guerra – le capitali del vecchio continente non avessero interesse a un conflitto nella congiuntura specifica. Tale elemento è entrato certamente nel calcolo di Putin, il quale deve aver pensato che Francia, ma in particolare Germania e Italia (più dipendenti dal gas russo), avrebbero fatto di tutto pur di evitare di compromettere la fragile ripresa post-covid a causa di sommovimenti nel mercato dell’energia.

Detto questo, va anche sottolineato come la questione del gas non possa essere utilizzata come argomento a favore di una potenziale convergenza di fondo tra Mosca e le capitali UE.  In primo luogo, va osservato come l’interdipendenza non abbia mai rappresentato un ostacolo assoluto al protrarsi di conflitti tra stati capitalisti: come ha ben documentato lo storico tedesco George Hallgarten (1972), durante la prima guerra mondiale, gli alleati (Francia, Gran Bretagna e Italia) e gli imperi centrali (Germania e Austria) continuarono a vendersi cannoni a vicenda lungo tutta la durata dello scontro bellico, tramite le rispettive industrie di armamenti. Gli Stati capitalisti non fanno la guerra con l’annientamento del nemico come obiettivo assoluto, ma per rafforzare la propria posizione relativa, così – almeno in linea teorica – essi sono perfettamente in grado di escludere dall’agenda del conflitto alcune partite specifiche. Ecco che mentre le forniture di gas russo non si sono mai interrotte (almeno fino a metà giugno, mentre scriviamo) l’aumento del prezzo dell’energia, dettato dalla speculazione sull’incertezza, permette a multinazionali come ENI di aumentare a dismisura i propri profitti. Certo, i capitalisti più attivi nella manifattura – in particolare quelli del settore ceramico, siderurgico e metalmeccanico – vengono fortemente penalizzati dal contesto dato, a maggior ragione se si tratta di padroni medio-piccoli. Tuttavia, la stessa crisi internazionale che crea fratture nella classe dominante, agisce per favorirne l’unità, a maggior ragione se è possibile scaricare i costi del compattamento sui proletari e gli strati popolari. Mentre l’inflazione erode i salari e il potere d’acquisto di questi ultimi, i governi che rappresentano il capitalista collettivo non hanno problemi a elargire a padroni e padroncini lauti incentivi fiscali, come nel caso del governo Draghi, che a metà maggio ha approvato un 25% di credito d’imposta per i settori sensibili all’aumento del prezzo dell’energia.

L’interdipendenza tra stati europei e Russia è inoltre estremamente asimmetrica per via della sostanziale subordinazione economica internazionale di quest’ultima, la quale si manifesta nell’enorme impatto delle sanzioni sull’economia russa, a fronte di limitate capacità di rappresaglia. Se è vero che il rublo ha retto al sequestro delle riserve nelle banche occidentali, ciò è avvenuto solo grazie a un aumento del tasso d’interesse da parte della banca centrale fino al 20%, il quale è riuscito a contrastare la fuga di capitali, ma a prezzo di conseguenze devastanti sul tasso di investimento, quindi sulla crescita, che è destinata a ridursi dell’8% nel 2022, secondo il Fondo Monetario Internazionale (IMF 2022). La tenuta della valuta russa è poi resa possibile dalla riduzione delle importazioni associata alle sanzioni occidentali su tutta una serie di prodotti tecnologici e componenti (Bank of Russia 2022), andando quindi di pari passo con una crescente paralisi produttiva. Tutto ciò senza che il Cremlino possa permettersi di ridurre, se non come arma di pressione temporanea, le forniture di gas all’UE, da cui dipende il finanziamento dello stesso sforzo militare, nella misura in cui le esportazioni di materie prime energetiche all’Europa rappresentano circa il 30% del totale (Observatory of Economic Complexity 2022). Certo, la dipendenza dal gas e dal petrolio russo di Italia e Germania era pari, rispettivamente al 40 e al 65% nel 2021 (Vendettuoli 2022). Tuttavia, la diversificazione sta avvenendo in maniera particolarmente veloce: ad esempio, ad aprile la dipendenza italiana dal gas russo è scesa al 26% grazie agli accordi con l’Algeria (Sabella 2022). Se infine per i grandi paesi UE una riduzione degli acquisti di materie prime energetiche dalla Russia significa essenzialmente cambiare fornitori e al limite vedere aumentare i costi, dal punto di vista di Mosca ciò equivale direttamente rinunciare alla possibilità di procurarsi tutta una serie di beni che l’economia euro-asiatico non produce a causa della sua natura semi-periferica, come la figura 1 mostra. 

 

Conclusioni

Sostenere che gli europei dovrebbero pensare al proprio interesse nazionale, o che l’UE possa e debba giocare un ruolo propulsivo per far cessare il conflitto significa non solo fare violenza alla realtà dei fatti, ma anche depotenziare il movimento contro la guerra. Se è vero – come abbiamo cercato di dimostrare – che le classi dominanti del vecchio continente stanno operando in base a un calcolo razionale, è infatti improbabile che passeggiate democratiche ‘per la pace’ possano avere un qualche effetto. Peggio, le idee di cui sopra vanno nella direzione di assecondare i progetti di rafforzamento del capitale europeo, mentre ne oscurano il ruolo imperialista giocato in questi anni in Ucraina. Aderire alla visione unilaterale che denuncia il puro e semplice espansionismo NATO minimizza poi l’azione oppressiva giocata dal Cremlino nell’interesse della propria classe capitalistica, indebolendo gli argomenti contro la propaganda militarista nostrana. Analizzare la guerra in corso nell’ottica dei processi di centralizzazione militare europea e scontro tra potenze regionali deve inoltre gettare più di un dubbio nel campo di quelle organizzazioni e di quei compagni secondo cui non bisognerebbe opporsi all’invio di armi da parte di Bruxelles, Berlino, Roma ecc. a Kiev. Non farlo significa infatti assecondare la costruzione dell’UE come polo imperialista e rafforzare gli stessi interessi che nell’ultimo decennio hanno affamato e reso sostanzialmente l’Ucraina un paese semi-coloniale. 

Le guerre civili in Jugoslavia e Libia hanno dimostrato d’altro canto ampiamente come in assenza di soggettività di classe un minimo influenti e organizzate l’ingerenza militare esterna e la persistenza nel tempo del conflitto armato abbia favorito le forze più regressive, fa parzialmente eccezione la Siria, ove appunto, una forza relativamente progressiva sul terreno – la sezione siriana del PKK – esisteva già prima della conflagrazione. Non si capisce allora in che modo il sostegno occidentale allo stato capitalista ucraino, in un contesto ove sono assenti elementi significativi di organizzazione autonoma dei lavoratori nella cosiddetta ‘resistenza’, possa generare contraddizioni favorevoli allo sviluppo di un processo rivoluzionario in quel paese. Questa l’unica logica accettabile dietro l’appoggio a rivendicazioni come l’autodeterminazione nazionale, la quale non può rappresentare un fine in sé, a meno di non pensare che il capitalismo e le classi dominanti che esso esprime possano ancora giocare un ruolo storico progressivo; in barba all’incapacità di emanciparsi dalla dipendenza nei confronti del centro capitalista mostrata dai vari regimi borghesi post-coloniali, per non parlare di quelli post-sovietici. Così, opporsi con la massima veemenza all’imperialismo di casa nostra e all’escalation, ma anche costruire legami internazionalisti e di classe con chi si oppone alla guerra in Russia e nei territori occupati dopo il 24 febbraio, è l’unica soluzione per fermare il conflitto e costruire una via d’uscita per l’Ucraina che non significhi solo maggiore subordinazione all’uno o all’altro blocco che si contende il paese.

 

Lorenzo Lodi

Questo articolo fa parte del numero 3, estate 2022, della rivista Egemonia.

Riferimenti bibliografici

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Nato a Brescia nel 1991, ha studiato Relazioni Internazionali a Milano e Bologna. Studioso di filosofia, economia politica e processi sociali in Africa e Medio Oriente.