Il presidente russo ha annunciato la mobilitazione di circa 300mila riservisti e ha minacciato di ricorrere a testate nucleari “tattiche”. Esaminiamo gli interessi dietro la guerra in Ucraina e le prospettive geopolitiche aperte da questa svolta.


Putin ha finalmente parlato. Lo ha fatto poco più di una settimana dopo la peggiore sconfitta tattica dell’esercito russo sul fronte nord-orientale dell’Ucraina in sette mesi di guerra.

In un messaggio televisivo, rivolto sia alla nazione che al mondo, il presidente russo ha fornito indizi sulle prossime tappe della guerra. La tempistica non sembra essere casuale. Ha scelto lo stesso giorno degli interventi di Joe Biden e Volodomyr Zelenskyy all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che secondo il segretario generale António Guterres si svolge sullo sfondo delle più profonde divisioni geostrategiche almeno dai tempi della Guerra Fredda. Tali divisioni non hanno origine esclusivamente nella guerra Russia-Ucraina/NATO, ma anche nell’erosione dell’ordine neoliberale post-Guerra Fredda; è questo il motivo principale per cui stanno riemergendo conflitti, guerre regionali (Armenia-Azerbaigian; Kosovo-Serbia, ecc.) e aspirazioni di potenze di secondo piano come la Turchia che vedono la loro opportunità.

La novità è che Putin ha annunciato una “mobilitazione parziale” – il richiamo di 300.000 riservisti – e ha minacciato l’uso di armi nucleari. Per sicurezza, ha chiarito che non sta “bluffando”; nel caso in cui gli Stati Uniti e la NATO, che è l’effettiva leadership politica e militare della parte ucraina, decidessero di intensificare i loro obiettivi dichiarati di “indebolire la Russia” o di promuovere addirittura un “cambio di regime”, l’opzione nucleare non può essere esclusa.

Per ora, tuttavia, il cambiamento militare più importante riguarda i mezzi di guerra convenzionali: la Russia passerà dal combattere con battaglioni composti da militari professionisti, mercenari e soldati inesperti, all’inviare sul campo di battaglia un esercito con una percentuale maggiore di coscritti e riservisti con poca esperienza di combattimento.

Questa decisione viene a caro prezzo. Finora il Cremlino ha impedito che la guerra entrasse pienamente nella vita quotidiana dei russi, soprattutto della classe media delle grandi città, cercando di mantenere una facciata di normalità, persino attutendo l’impatto delle sanzioni economiche. Ma se l'”operazione militare speciale” viene vista sempre più per quello che è, cioè una guerra, questo consenso silenzioso rischia di incrinarsi inevitabilmente. Resta da vedere se le punizioni esemplari di anni di carcere e la repressione che finora hanno permesso a Putin di controllare l’opposizione interna saranno sufficienti a tenere in ordine il fronte interno.

Allo stesso tempo, questa svolta indica che la Russia si sta preparando a un conflitto più prolungato, tenendo conto del tempo necessario per addestrare queste nuove truppe in modo tale da renderle almeno minimamente pronte al combattimento. Non è un segreto che Putin conti sull’inesorabile arrivo dell’inverno. Ma la realtà è che l’inverno sta arrivando per tutti, anche per l’esercito russo, che sta conducendo una guerra che combina tattiche e manovre tipiche del XX secolo all’uso di droni e intelligence perfezionati dai progressi tecnologici. E le sue dinamiche includono la possibilità di un salto verso il conflitto nucleare.

Nonostante le speculazioni secondo cui l’offensiva ucraina a Kharkiv avrebbe segnato un punto di svolta nella guerra, questo recente sviluppo non sembra di per sé avere il potenziale per sigillare l’esito della guerra. Come è accaduto in altri momenti della guerra, alcuni analisti filoccidentali sostengono che l’esercito russo abbia raggiunto il suo “punto di svolta“: in soldoni, la sua capacità offensiva sarebbe esaurita e quindi dovrà passare a una posizione difensiva.

Sebbene sia difficile dare definizioni categoriche, la strategia della Russia sembra essere quella di consolidare gli “obiettivi intermedi” che il Cremlino si era prefissato dopo il fallimento dell’assalto a Kiev all’inizio della guerra. Né la piena escalation richiesta dai settori più nazionalisti dello spettro politico-militare russo, né la sconfitta prematura di cui si erano entusiasmate le potenze occidentali, soprattutto gli Stati Uniti, che sono dietro il successo militare ucraino.

Nella forma, si tratta di un’escalation della presenza militare, nel contenuto, le misure annunciate da Putin non sembrano avere obiettivi offensivi, ma piuttosto mirano a garantire la posizione della Russia nella regione del Donbass contro un’ipotetica espansione della controffensiva ucraina. Gli annunci di referendum affrettati a Lugansk, Donetsk, Kherson e Zaporiyia per l’annessione alla Russia sono sulla stessa linea. Ma la situazione potrebbe cambiare.

Se questo è lo scenario, la guerra molto probabilmente continuerà nella sua triplice dimensione: militare, economico-politica e geopolitica. Sebbene in senso stretto il teatro delle operazioni militari rimanga confinato nel territorio ucraino, la dimensione internazionale del conflitto determina il corso degli eventi.

Del resto, il successo della controffensiva ucraina si spiega solo con l’armamento e la consulenza militare e di intelligence degli Stati Uniti e, in seconda battuta, di altre potenze della NATO. Nei sette mesi di guerra, gli USA hanno erogato all’Ucraina circa 57 miliardi di dollari in finanziamenti. Per non parlare dell’investimento che sta facendo dal 2014 per trasformare l’Ucraina in una sorta di avamposto della NATO, pur non avendola mai accolta formalmente nell’alleanza. L’amministrazione di Joe Biden cercherà di sfruttare i progressi di Zelenskyy per migliorare le sue prospettive nelle elezioni di medio termine, che finora darebbero in vantaggio i repubblicani.

A sua volta, è questo stesso successo militare tattico che il presidente Zelenskyy sta usando per dimostrare che “l’Ucraina può vincere”. Con questa argomentazione, egli può fare pressione sui suoi sponsor occidentali per ottenere più armi e finanziamenti migliori. Dall’amministrazione Biden spera di ottenere attrezzature pesanti, che finora gli sono state negate perché potenzialmente in grado di raggiungere il territorio russo. Ma il principale bersaglio delle critiche e delle pressioni è la Germania, che aggiunge tensione all’alleanza occidentale e in particolare mette in discussione l’equilibrio di potere all’interno dell’Unione Europea. Uno dei principali portavoce di questo disagio è il governo polacco. In una recente intervista al quotidiano Der Spiegel, Mateusz Morawiecki, primo ministro polacco, ha accusato la Germania di aver rinnegato una sorta di scambio di armi con il suo Paese, in base al quale la Polonia ha ceduto all’Ucraina armi dell’era sovietica e la Germania le ha sostituite con armi moderne. Ha inoltre rimproverato alla Germania la sua dipendenza dal gas russo e dai mercati cinesi, ha chiesto un risarcimento per i danni subiti durante la Seconda guerra mondiale e ha denunciato la particolare ostilità di Berlino nei confronti del governo “illiberale” di Varsavia.

Il cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz è al centro delle contestazioni, nonostante abbia accolto la svolta storica verso la rimilitarizzazione della Germania. Scholz presiede un governo di coalizione in cui i suoi partner, in particolare il Partito Verde, hanno assunto una posizione estremamente favorevole alla guerra. La relativa cautela di Scholz ha a che fare esclusivamente con l’interesse nazionale dell’imperialismo tedesco, che ha fatto affidamento per la sua prosperità sul gas a basso costo proveniente dalla Russia e che non può interrompere questa dipendenza da un giorno all’altro senza pagare un costo elevato in inflazione, recessione e malcontento popolare.

L’inizio dell’inverno acuisce queste tensioni. Il “fronte freddo” è una delle carte che Putin sta giocando per dividere i suoi nemici europei e irrigidire la loro volontà di continuare la guerra. La crisi energetica ha un impatto diretto sulle condizioni di vita, sull’occupazione, sull’inflazione e sulle prospettive di recessione, dando origine a un panorama di disordini sociali e crisi politiche. È il caso della Gran Bretagna, dove la crisi ha già fatto fuori l’ex primo ministro Boris Johnson e sta mettendo alla prova l’attuale primo ministro conservatore Liz Truss che, con i metodi thatcheriani di offensiva antisindacale, sta cercando di limitare l’ondata di scioperi e proteste. Oppure la Repubblica Ceca, dove l’appello iniziale di gruppi marginali (estrema destra, anti-vaccini, ecc.) ha cambiato carattere e si è trasformato in una protesta antigovernativa di 70mila-100mila persone.

In Italia, dove le tendenze alla crisi organica sono di vecchia data, la guerra ha provocato un terremoto politico, approfondendo la polarizzazione. Ha messo fine al governo moderato e filo-Bruxelles del banchiere Mario Draghi. Ha spaccato il M5S e molto probabilmente porterà al governo Fratelli d’Italia.

Il relativo rafforzamento della posizione degli Stati Uniti come leader dell’Alleanza atlantica ha ravvivato le discussioni sulla sostenibilità della cosiddetta “sovranità strategica” dell’UE. Per il sociologo Wolfgang Streeck, questa non era altro che un’illusione alimentata dal presidente francese Emmanuel Macron, che è svanita con il corso della guerra in Ucraina. E che la realtà attuale dell’Unione Europea è quella di agire come ausiliario civile del vero potere: la NATO, egemonizzata dagli Stati Uniti.

Nell’immediato, gli Stati Uniti stanno sfruttando la loro leadership nella guerra ucraina per consolidare la loro posizione egemonica in “Occidente” e proiettarla nella disputa strategica con la Cina. In quest’ottica vanno letti i suoi tentativi di “avvicinare la NATO” alla Cina, di rafforzare le alleanze di sicurezza e la cooperazione militare nell’Asia-Pacifico e di inasprire le tensioni attorno a Taiwan. L’imperialismo statunitense si aspetta che la battuta d’arresto militare di Putin abbia un impatto negativo sulla Cina e indebolisca l’alleanza eurasiatica che vede Russia e Cina come partner principali.

Il vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai a Samarcanda (Uzbekistan), che è stato il primo evento all’estero a cui ha partecipato il presidente cinese Xi Jinping dopo la pandemia, ha dipinto un quadro che non può essere letto in modo unilaterale. In un certo senso, ha evidenziato il disagio non celato di Cina e India nei confronti della guerra in Ucraina. Putin ha riconosciuto le “preoccupazioni” di Xi Jinping e ha ricevuto una bacchettata dal Primo Ministro indiano Narendra Modi, che lo ha pubblicamente rimproverato sul pessimo tempismo della sua “operazione militare speciale”.

Visto però da un’altra angolazione, il vertice mostra l’emergere, per quanto tortuoso e contraddittorio, di un polo geopolitico guidato dalla Cina che si alterna alla leadership statunitense senza contestarne apertamente l’egemonia. L’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai riunisce otto membri a pieno titolo – Cina, India, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Pakistan, Tagikistan e Uzbekistan – ai quali si aggiungerà l’Iran il prossimo aprile, oltre a osservatori e “associati” come Armenia, Azerbaigian e Turchia. In breve, riunisce le potenze nucleari (de jure e de facto) e i membri a pieno titolo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, e rappresenta circa un quarto del PIL mondiale e poco meno del 45% della popolazione mondiale. Nel breve termine, la Cina ha beneficiato economicamente della sua partnership con la Russia. Il commercio tra i due Paesi è cresciuto del 31% nel 2022, principalmente grazie al fatto che la Cina è diventata il principale importatore di greggio russo a prezzo scontato.

Tuttavia, sarebbe un errore dare una lettura strettamente economistica di questa fase. Il governo di Xi Jinping ha cercato di mantenere un equilibrio tra il sostegno a Putin e l’assenza di azzardi, al contrario di quanto hanno fatto le potenze occidentali con l’Ucraina. Sebbene si tratti di un’alleanza informale in uno stato fluido, essa si basa comunque su una tendenza oggettiva a contrastare gli Stati Uniti nel loro tentativo di ricostruire la propria egemonia in Occidente e a proiettarla in Oriente. Mentre Putin è per ora il più bisognoso, per la Cina, egli rappresenta la possibilità di stabilire un’alleanza asimmetrica, in cui la Russia sarebbe il partner minore la cui capacità di azione autonoma sarebbe seriamente indebolita.

Resterà da vedere se questi recenti sviluppi del conflitto in Ucraina apriranno un periodo storico che comprenda, oltre alle dispute imperialiste, crisi e guerre già in corso, anche la prospettiva della rivoluzione.

 

Claudia Cinnati

Traduzione da La Izquierda Diario

Dirigente del PTS argentino. Scrive sulla rivista online Ideas de Izquierda e nella sezione Internazionale di La Izquierda Diario.