Proseguiamo la pubblicazione sulla Voce delle Lotte di diversi brani, introvabili su internet, provenienti dalla raccolta di scritti di Vladimir Lenin “L’emancipazione della donna” (Editori Riuniti 1970).

Il settimo brano – dopo “Il lavoro della donna nella fabbrica”, “La classe operaia e il neomalthusianismo” ,“Il V Congresso internazionale per la lotta contro la prostituzione”, “Il lavoro della donna nell’agricoltura in regime capitalistico”, “Lettera di Lenin ad Ines Armand (I parte)“, Lettera di Lenin ad Ines Armand (II parte), è tratto dall’articolo Intorno a una caricatura del marxismo e all’<<economismo imperialistico>>, in polemica col dirigente bolscevico Piatakov (Kievski) scritto fra agosto e ottobre del 1916 e pubblicato nel 1924 sulla rivista Zviezdà, nn. 1-2 (Vladimir Lenin, Opere, XXIII, Editori Riuniti, Roma, 1965, pp. 69-72).


L’esempio del divorzio mostra all’evidenza che non si può essere democratici e socialisti, se non si rivendica subito la piena libertà di divorzio, poiché l’assenza di questa libertà è una forma di superoppressione della donna, del sesso oppresso, anche se non è difficile capire che riconoscere la libertà di lasciare il marito non significa invitare tutte le donne a farlo!
P. Kievski <<obietta>>:
<<Come si presenterebbe questo diritto [di divorziare] se in questi casi [quando cioè la moglie vuole lasciare suo marito] la moglie non potesse realizzarlo? O se la sua attuazione dipendesse dalla volontà di terzi o, peggio, dalla volontà di chi pretende alla sua “mano”? Cercheremo di proclamare questo diritto? No di certo!>>.
Quest’obiezione rivela la più radicale incomprensione del rapporto esistente tra la democrazia in generale e il capitalismo. In regime capitalistico si danno per solito, non come  casi isolati ma come fenomeni tipici, condizioni tali che le classi oppresse non possono <<esserci>> i propri diritti democratici. Il diritto al divorzio rimane, nella stragrande maggioranza dei casi, inattuato sotto il capitalismo, perché il sesso oppresso è schiacciato economicamente, perché la donna continua a essere in ogni democrazia capitalistica una <<schiava domestica>>, confinata nella stanza da letto, nella camera dei bambini, in cucina. Anche il diritto di eleggere <<propri>> giudici popolari, funzionari, insegnanti, giurati, ecc. è, nella stragrande maggioranza dei casi, irrealizzabile in regime capitalistico, a causa dell’oppressione economica degli operai e dei contadini. Lo stesso si dica per la repubblica democratica: il nostro programma la <<proclama>>, come <<governo del popolo>>, benché tutti i socialdemocratici sappiano molto bene che, sotto il capitalismo, la repubblica più democratica conduce soltanto alla corruzione dei funzionari da parte della borghesia e alla alleanza tra la Borsa e il governo.
Solo chi è assolutamente incapace di riflettere o chi ignora del tutti il marxismo può trarre da questo la conclusione che la repubblica, la libertà di divorziare, la democrazia e l’autodecisione delle nazioni non giovino a niente! I marxisti sanno invece che la democrazia non distrugge, l’oppressione di classe, ma rende solo più pura, più ampia, più aperta e più energica la lotta di classe: ed è quanto ci occorre. Quanto più completa è la libertà di divorziare, tanto più chiaro risulta per la donna la fonte della sua <<schiavitù domestica>> va ricercata nel capitalismo, e  non già nella mancanza dei diritti. Quanto più democratica è la struttura statale, tanto più risulta chiaro per l’operaio che la radice del male è il capitalismo, non la mancanza di diritti. Quanto più integrale è la parità giuridica delle nazioni (ed essa è incompleta sena libertà di separazione), tanto più risulta chiaro per gli operai della nazione oppressa che il male è nel capitalismo, non nella mancanza di diritti. E così via.
Lo ripetiamo, è sciocco rimasticare l’abbicì del marxismo, ma che fare, se P. Kievski lo ignora?
Kievski ragiona intorno al divorzio allo stesso modo in cui ne ragionava (se ben ricordo, nel Golos di Parigi) uno dei segretari esterni del Comitato di organizzazione, Semkovski. È vero, argomentava Semkovski, la libertà di divorziare non equivale all’invito a lasciare il proprio marito, ma, signori, se si dimostra a una moglie che tutti i mariti sono migliori del suo, il risultato è lo stesso!!
Così argomentando, Semkovski dimenticava che la stravaganza non è una trasgressione dei propri doveri di socialista e di democratico.  Se Semkovski si accingesse a persuadere una donna che tutti i mariti sono migliori del suo, nessuno l’accuserebbe di esser venuto meno ai suoi doveri di democratico; forse gli direbbero: non esiste un grande partito che manchi di grandi stravaganti! Ma, se Semkovski pensasse di sostenere e considerare democratico chi negasse la libertà di divorziare, ricorrendo, per esempio, al tribunale, alla polizia o alla Chiesa contro la moglie che si è separata dal marito, siamo persuasi che persino la maggior parte dei colleghi del segretariato estero di Semkovski, pur essendo pessimi socialisti, gli rifiuterebbero ogni solidarietà.
Sia Semkovski che Kievski <<hanno ciarlato>> sul divorzio, hanno dato prova di non capire la questione e ne hanno eluso la sostanza: il diritto al divorzio, come tutti i diritti democratici senza eccezione, può essere attuato in regime capitalistico difficilmente, in modo convenzionale, limitato, angusto e formale, e tuttavia nessun socialdemocratico onesto potrà considerare non solo socialista, ma neppure democratico, chi neghi questo diritto. Sta qui l’essenza del problema. Tutta la <<democrazia>> consiste nella proclamazione e nell’attuazione di <<diritti>> realizzati  assai poco e assai convenzionalmente sotto il capitalismo, ma il socialismo è inconcepibile senza questa proclamazione, senza la lotta per realizzare questi diritti immediatamente, senza l’educazione delle masse nello spirito di questa lotta.

V. Lenin

Giornale militante online fondato nell'aprile 2017.
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