Un articolo comparso recentemente sul quotidiano borghese il Sole 24 ore fa una diagnosi particolarmente densa e intellettualmente onesta (per non dire sfacciata) della crisi della democrazia borghese attuale a livello globale. È una diagnosi ”veritiera” nelle sue manifestazioni superficiali, ma chiaramente monca della reale causa e ambigua, se non addirittura ”pericolosa” dal punto di vista della cura. Può essere sintetizzata come segue: se prima della Seconda Guerra la democrazia era il punto di arrivo (e nel 1941 solo 11 Paesi al mondo erano ”democratici”) negli ultimi anni (e specialmente dopo la crisi del 2008) la sfiducia nelle istituzioni democratiche è cresciuta a tal punto che nelle masse è ritornato il bisogno dell’uomo forte. Molti Paesi emergenti hanno peraltro dimostrato che si può crescere e ”fare bene” anche senza democrazia (Cina, Vietnam, etc…). La democrazia, insomma, da opportunità è diventata un impedimento, una formalità senza senso dal momento che la sensazione è che la volontà popolare non conti nulla, ma siano invece i mercati a decidere. Date queste premesse, la voce dei padroni (opposta alla nostra voce delle lotte) propone di ”puntare sul merito”, trovare modi di ”conciliare la democrazia con la globalizzazione”, ma soprattutto di ”ripensare il diritto di voto”. Un’idea, quella della messa in discussione del suffragio universale, che è ritornata in voga negli ultimi anni in certi ambienti ”elitistici” da destra (liberis”ti e neoliberisti) a certa sinistra (magari ”sovranista”). Per essere precisi, il Sole scrive:
Per rafforzare la democrazia, andrebbe riconosciuta la differenza di valore dovuta alla fatica individuale (disuguaglianza sostanziale)[38]. Il diritto al voto dovrebbe essere ricompensa. Senza pretesa di arrivare al modello platonico di “sofocrazia”, per poter scegliere i governanti dovrebbe esser necessaria una preparazione politica elementare, garantita limitando[39] il suffragio a un livello minimo di istruzione – come già succede in casi specifici.
La classe dominante, crescentemente e coscientemente preoccupata a ”snellire” e ”semplificare” le formalità per andare al sodo, ammette di non sapersene che fare del sale della democrazia: se il popolo non vota bene, aboliamo la volontà popolare. Ma la predica contro il popolo da parte di chi non può che stare contro il popolo ha del ridicolo. Invece che chiedersi (ma la domanda sarebbe troppo scomoda, ne siamo consapevoli) come eliminare quella ”disuguaglianza sostanziale” di cui si parla, si preferisce accettarla come dato di fatto naturale da cui partire per trovare soluzioni a solo vantaggio degli interessi padronali.
Non c’è alcun dubbio che per Il sole 24 Ore votare ”bene” significhi votare PD, o comunque ciò che dice Confindustria. Nonostante ciò, è vero che il ”popolo” ha votato ”male”, nel senso che ha votato contro i propri interessi oggettivi e continua a farlo da anni e in questo frangente come rivoluzionari dobbiamo seriamente interrogarci sul che fare, ma anche sui processi psicologici che conducono a una simile Sindrome di Stoccolma: come sconfiggere le illusioni dei populismi? Come eliminare le inibizioni che remano contro il desiderio di emancipazione e felicità a lungo termine? Coml valore del proprio lavoro nella società, che altro non è che la coscienza di classe, ma anche l’autostima individuale di ogni singolo lavoratore? e aumentare la consapevolezza della propria forza e del valore del proprio lavoro nella società, che altro non è che la coscienza di classe, ma anche l’autostima individuale di ogni singolo lavoratore – cioè la coscienza del proprio essere indispensabili come soggetto collettivo?
Il popolo ha votato ”male”, ma il Sole 24 ore non può permettersi di bacchettarlo. Il popolo ha votato male perché in campo c’erano due nemici: uno potente e l’altro (emozionalmente) seducente: la borghesia tradizionale da un lato (PD e Confindustria) e i populismi (Lega e 5S) dall’altro. Tra i due ha scelto il secondo.
Tuttavia quella di atteggiarsi da élite di intellettuali, magari “marxisti”, che sa ciò che è bene per il popolo non è una soluzione per noi marxisti: il processo di liberazione mediante gli strumenti del marxismo non può essere, per definizione, dettato dall’alto, pena l’insuccesso o lo scivolamento verso la passività, l’opportunismo e/o la burocratizzazione delle organizzazioni operaie. Anche per questo e per capire come difenderci da questi attacchi è importante pensare (e ripensare) al rapporto che intercorre tra democrazia e socialismo.
L’intellettuale brasiliano Carlos Nelson Coutinho nel 1979 solleva questi temi nel nono volume della rivista ”Encontros com a Civilização Brasileira”. Quel lavoro si inserisce all’interno del dibattito sul rinnovamento democratico del Brasile proprio nel periodo in cui la dittatura di allora era in crisi e in transizione verso un regime costituzionale. Sono gli stessi anni dell’ascesa del PT e di importanti trasformazioni e tensioni all’interno della società brasiliana. Coutinho difende la democrazia politica come ”valore universale” mutuando sia questo termine che un’altra parola, ”eurocomunismo”, da un discorso tenuto da Enrico Berlinguer a Mosca nel 60° anniversario della Rivoluzione D’Ottobre. Lo stesso Marx affermava che ,come l’arte greca trascendeva la sua epoca, la stessa cosa si può dire della ”democrazia politica”, dove l’aggettivo ”politico” ha una connotazione precisa: politico è ciò che ha una dimensione pubblica ed è perciò opposto al regno sociale dell’egoismo e degli interessi privati; in questo senso più ampio, la democrazia ha importanti potenzialità progressive, se siamo in grado di servirci dei suoi spazi.
Coutinho ci ricorda come la critica della democrazia liberale da un punto di vista marxista non debba realizzarsi a partire dalla rivendicazione di un totalitarismo stalinista e nemmeno da un mancato riconoscimento delle differenze tra un sistema democratico borghese e uno dittatoriale. Anche nella nota espressione di Lenin sulla democrazia borghese come ”il miglior involucro della dittatura del capitale,” il significato è chiaro: se di “migliore involucro” si tratta è perché il suo dominio di classe si presenta in una forma più ”accettabile” per le masse lavoratrici. Perciò Lenin denunciava il suo carattere di classe, difendendo al tempo stesso le libertà democratiche borghesi, sia nella lotta contro il regime autocratico in Russia che nelle democrazie occidentali, perché le libertà ”democratiche” della classe operaia sono le prime che vengono attaccate quando la classe dominante le considera pericolose o non (più) necessarie.
Il limite di Coutinho, tuttavia, è che usa questo argomento per sostenere che la democrazia socialista deve includere tutte le forme di democrazia rappresentativa borghese, senza specificare quali caratteristiche forme dovrebbe assumere la democrazia diretta e senza stabilire quale rapporto dovrebbe intercorrere tra le forme di democrazia diretta e quelle di democrazia rappresentativa. Quando si propone questa combinazione all’interno di un regime democratico borghese, la risposta è implicita: un ruolo subordinato della prima alla seconda e, specificamente, delle forme storicamente nuove, operaie, di democrazia (i consigli) a quelle già consolidate della democrazia borghese; con un dualismo insostenibile sul lungo periodo, dunque con la prospettiva della soppressione della nuova democrazia nascente.
Non specificando le caratteristiche della “democrazia socialista”, il saggio di Coutinho omette l’esperienza e la teoria della democrazia sovietica, cedendo alla dicotomia eurocomunismo o totalitarismo stalinista, proponendo come soluzione una combinazione che implica la subordinazione della ”democrazia diretta” alla ”democrazia rappresentative”, che dovrebbe per Coutinho avere la funzione di respingere sia il ”golpismo di sinistra” che il ”golpismo di destra”.
Coutinho sviluppa un concezione di ”rivoluzione per tappe” in cui la prima avrebbe consentito lo sviluppo del capitalismo nell’alveo della democrazia borghese, la seconda sarebbe stata socialista, senza tuttavia specificare né sapere quando. Forse decenni, probabilmente mai. In questo senso il suo ”eurocomunismo” non si collega solo a Berlinguer, ma rimanda alla teoria della “democrazia progressiva” di Palmiro Togliatti. Tuttavia un’analisi critica del suo lavoro può essere utile oggi nel dibattito sull’eurocomunismo che fa da sfondo teorico a formazioni riformiste come Syriza e Podemos, così come nella comprensione del senso della difesa della democrazia da un punto di vista marxista: se si vuole disputare con i sostenitori di un populismo di sinistra “democratico” che ancora oggi rileggono Gramsci in chiave riformista, è bene non ignorare i loro “padri teorici” che intere carriere hanno costruito su questo ambiguo profilo “rivoluzionario ma anche riformista”.
Matteo Iammarrone
Nato a Torremaggiore, in Puglia, nel 1995, si è laureato in filosofia all'Università di Bologna. Dopo un master all'Università di Gothenburg (in Svezia), ha ottenuto un dottorato nella stessa città dove tuttora vive, fa ricerca e scrive come corrispondente de La Voce delle lotte.