Venerdì 24 gennaio, dopo due mesi di scioperi e manifestazioni, il Consiglio dei ministri in Francia ha adottato il progetto di legge di riforma del sistema pensionistico, portando in questo modo un attacco frontale ad uno dei pilastro del sistema sociale francese. Si è aperto un lungo percorso parlamentare, un vero percorso ad ostacoli per l’esecutivo: l’obiettivo dell’approvazione definitiva è ancora lontano. Tuttavia, le grosse difficoltà politiche di Macron non devono impedirci di analizzare obiettivamente lo stato dei rapporti di forza. Proponiamo in questo senso un articolo leggermente datato, ma assolutamente valido nel suo ragionamento, dal nostro giornale online gemello Révolution Permanente. Qui è possibile leggere la seconda e ultima parte.


La prospettiva concreta dello sciopero generale si allontana, per ora. È la conseguenza della politica dell’Intersindacale

Lo sciopero a intermittenza del settore dei trasporti, iniziato con grandissima partecipazione, e quello ampiamente partecipato del settore istruzione del 5 dicembre scorso avevano fatto pensare che lo sciopero politico generale contro Macron fosse un obiettivo possibile e concreto su cui lavorare, ma questa prospettiva si sta lentamente consumando.

La grande determinazione dei lavoratori in sciopero e il ruolo centrale del coordinamento RATP/SNCF hanno fatto saltare la tregua (decisa peraltro proprio dalla leadership sindacale). E tuttavia a partire dal rientro dalle ferie lo sciopero non si è ulteriormente diffuso.

Come abbiamo scritto ai altri articoli, la responsabilità di questa situazione non dipende dalla mancanza di combattività da parte dei lavoratori ma, principalmente, dipende dalla strategia e dal programma dell’organizzazione intersindacale e in particolare dalla direzione della CGT [Confederazione Generale del Lavoro, NdT] che all’interno della direzione intersindacale detta l’agenda. La Federazione Sindacale Unitaria [la principale organizzazione sindacale francese del comparto istruzione, NdT] ha rifiutato sin dall’inizio di lavorare per estendere lo sciopero a tutto il settore istruzione ma, da parte sua, la leadership della CGT ha sempre evitato di mettersi alla testa di uno scontro frontale contro Macron e le sue riforme liberali. Come tutte le altre direzioni dell’Intersindacale interessate, la centrale di Montreuil continua a considerare l’esecutivo come un potenziale interlocutore, arrivando persino a sostenere di non esser mai usciti sconfitti da un tavolo negoziale con il governo (assurdo il rammarico espresso per le dimissioni di Jean-Paul Delevoye, Alto Commissario del governo francese alla riforma delle pensioni).

In una situazione come questa, dove lo sciopero mira a fare pressione per negoziare col potere politico, è evidente come la CGT non abbia presentato un programma generale, operaio e popolare, mirato a riunire i lavoratori nella lotta, e raggiungere un fronte unitario. Un programma come questo, oltre a denunciare i danni della controriforma delle pensioni, avrebbe anche potuto mettere l’accento sulla condizione di precarietà, usura e sofferenza che quotidianamente soffrono i settori più sfruttati della classe operaia.

Limitandosi a un generico appello all’allargamento dello sciopero, la direzione intersindacale non è mai riuscita a conquistare consensi al di fuori del settore pubblico e di alcuni settori circoscritti del lavoro privato come ad esempio i lavoratori dei settori petrolchimico e portuale. Non è riuscita a rivolgersi ai lavoratori delle grandi aziende che, a differenza della maggior parte dei lavoratori del settore pubblico, si erano già mobilitati nel 2016 contro la riforma del lavoro (Loi travail). Non ha raggiunto neppure i lavoratori precari o quelli delle piccole imprese che hanno fornito il grosso alle manifestazioni dei Gilet Gialli. Su quest’ultimo punto pesa ancora il tradimento di dicembre 2018, quando la leadership della CGT, congiuntamente a quella del CFDT [Confédération française démocratique du travail, è il secondo sindacato francese per numero di iscritti di orientamento socialdemocratico, NdT], aveva apertamente condannato la rivolta dei Gilet gialli, dissociandosene.

Nonostante lo sciopero sia stato particolarmente lungo, in questo contesto segnato dalla mancata adesione di altre categorie, dall’assenza di ragionevoli prospettive di piegare Macron e da forti pressioni finanziarie, i lavoratori del settore dei trasporti, compresi quelli del RATP, avanguardia dello sciopero, hanno deciso di riprendere il lavoro lunedì 20 gennaio. Una ripresa dal sapore amaro. Solo una piccola ma significativa frazione ha deciso di prolungare lo sciopero fino al 24.

Radicalità nel discorso e nella pratica che celano una strategia inefficace

Orfana di una strategia e di un programma efficaci ma consapevole del forte spirito combattivo e della determinazione di gran parte dei lavoratori, la direzione della CGT ha perso un’importante occasione sbagliano i tempi, cioè intensificando le azioni più incisive nel momento in cui cominciava a scemare la partecipazione degli scioperanti del settore dei trasporti, il cuore della mobilitazione, ma senza modificare nulla nella sua strategia di base. Come se Macron avesse potuto cedere davanti al semplice dato di fatto di una opinione pubblica largamente favorevole agli scioperanti. La grande borghesia e il governo che la rappresenta cederanno solo quando inizieranno a temere di perdere tutto. Invece di lavorare concretamente per questa prospettiva, la leadership della CGT continua a giocare a nascondino con lo sciopero generale: un comportamento che logora i militanti. La sfida è impedire che la crisi di fiducia tra la base e la leadership sindacale sfocino nella perdita di controllo dell’ala più attiva dello sciopero. In un secondo momento, le posizioni radicali della confederazione sono state un modo per addossare alla base la responsabilità degli scarsi risultati della lotta, per denunciare una insufficiente partecipazione alla mobilitazione, per scrollarsi di dosso la responsabilità di non aver guidato la lotta politica contro Macron.

Consideriamo qualche esempio. Una delle misure più efficaci prese sino a questo momento è stata lo sciopero nei porti, ma i sindacati hanno reagito paventando la catastrofe. Eppure, a differenza dello sciopero dei trasporti, durato 40 giorni, i lavoratori dei porti hanno scioperato solo tre giorni su sette. Questa strategia ha avuto un forte impatto economico, ma certo non ha provocato una paralisi totale.

Nella centrale nucleare di Gravelines, la principale centrale nucleare europea, bloccata da un picchetto cui si è recato di persona il segretario della CGT Martinez il 22 gennaio scorso, i dirigenti di Forza Operaia [FO] usano l’argomento “del senso di responsabilità” per non radicalizzare le proprie azioni. Di fronte ad una possibile interruzione dell’attività del reattore, spiegano, che “questo è uno scenario del tutto irrealizzabile […] disattivare i reattori dal sistema di emergenza equivarrebbe a far piombare immediatamente nell’oscurità tutta la regione dell’Alta Francia, un attacco alla sicurezza dello stato duramente represso dal codice penale “. E aggiunge Franck Redondo, delegato FO, che Graveline non è “una fabbrica di cioccolato. È cinque volte Chernobyl. Se salta in aria, l’Inghilterra muore. Siamo prima di tutto professionisti”. In rotta con il governo ma animati da un sentimento di responsabilità, gli agenti hanno quindi scelto di filtrare gli ingressi per impedire l’accesso al sito. La scorsa settimana, delle 2.500-3.000 che ruotano attorno alla centrale nucleare tra visitatori, fornitori di servizi e personale (oltre ai 1.800 agenti in servizio), sono entrate in media solo 250-350 persone ogni giorno. In questa fabbrica rischiosa, secondo Le Monde,

non si tratta di mettere a repentaglio la sicurezza degli impianti. Tutte le attività hanno subito un rallentamento, con conseguenti riduzioni dei carichi, ma la produzione continua. Qualunque cosa accada, questa riduzione è compensata a livello europeo. D’altra parte, tutti concordano sul fatto che aver ridotto la potenza del reattore a 1.400 megawatt (su 5.600) è un fatto storico.

Ma nonostante la determinazione e le intenzioni dei lavoratori in lotta, questo storico sciopero servirà davvero a cambiare i rapporti di forza? Ne dubitiamo.

Ma lasciamo da parte l’argomento tecnico. Un centrale nucleare non è una fabbrica di cioccolato. E neppure una raffineria. Una carenza di carburante avrebbe un impatto significativo sul sistema di produzione francese, come nel 2010 o nel 2016. Come ha annunciato più volte la Federazione nazionale delle industrie chimiche della CGT, questo avrebbe potuto aprire a una nuova dinamica di scioperi alla fine dell’estate, con l’inizio del nuovo anno scolastico. E tuttavia, come ha affermato il CEO di Total Patrick Pouyanné il 14 gennaio, “diversamente da quanto accaduto durante le manifestazioni contro l’approvazione della legge di El Khomri nel 2016 e in altri casi, le raffinerie non si sono fermate”. Per quanto riguarda le spedizioni di carburante, lo stesso Pouyanné ha sottolineato che si è verificato un rallentamento dell’attività: “Naturalmente il flusso è diminuito, una diminuzione di circa il 40%, ma le raffinerie continuano a lavorare”. Di chi è la colpa? In assenza di un chiaro ed esplicito appello allo sciopero generale e di fronte all’assenza di coordinamento tra i settori in sciopero, i lavoratori delle raffinerie hanno davanti agli occhi gli esiti delle lotte del 2010 e del 2016 e non sono più disposti a perdere settimane di stipendio per nulla.

Vediamo ora un altro settore: quello delle compagnie energetiche. Sempre secondo Le Monde, “CGT-Energia ha votato nelle assemblee generali di lunedì e martedì per chiudere tre impianti di incenerimento nell’Ile-de-France a partire da giovedì sera [23 gennaio]”. Secondo Julien Lambert, membro del consiglio della Federazione nazionale dei lavoratori del settore energia della CGT “stiamo iniziando le manovre di spegnimento di sei forni in sette dei tre centri a partire da giovedì alle 22 fino a lunedì alle 22”. I tre centri di Ivry-sur-Seine, Issy-les-Moulineaux e Saint-Ouen trattano 6.000 tonnellate di rifiuti al giorno provenienti dai rifiuti indifferenziati di Parigi e dell’Ile-de-France. “Abbiamo messo in campo molte azioni, come la riduzione del teleriscaldamento dal 5 dicembre [l’inizio del movimento di sciopero contro il progetto di riforma delle pensioni], ma si parla molto poco di noi […]. La chiusura coordinata dei tre centri è un passo avanti in questa direzione”. L’arresto degli impianti richiede da sei a dodici ore e il riavvio da uno a due giorni, vale a dire “sei giorni di cessazione del trattamento dei rifiuti”, spiega l’ente di gestione, Syctom. Inizialmente, il consorzio intercomunale per il trattamento dei rifiuti domestici di Parigi prevede di immagazzinare i rifiuti nei pozzi delle tre fabbriche e di evacuarne parte in altri centri. Se i rifiuti non vengono convertiti in energia (il vapore viene utilizzato per riscaldare 300.000 abitazioni), verranno sepolti e questo secondo Syctom rappresenterebbe “la peggior soluzione in termini ambientali”. In definitiva l’intero ciclo del trattamento dei rifiuti per il teleriscaldamento sarebbe bloccato, e l’immondizia non potrebbe essere più raccolta dai centri abitati. Uno scenario catastrofico su cui sono chiamate a decidere le assemblee generali che si incontreranno lunedì”. Scommettiamo che resterà una semplice minaccia? Speriamo di sbagliarci.

Un ultimo esempio che serva e fare chiarezza. Nella diretta della manifestazione di venerdì 24 gennaio, Le Monde intervista Nicolas Joseph (dirigente della CGT, segretario del Comitato di Igiene e Controllo della Sicurezza del Lavoro del settore idrico e dei servizi igienico-sanitari della città di Parigi e capo del servizio di pronto intervento che interviene in caso di emergenza) che dice:

Da noi, i tassi di scioperanti stanno aumentando. Siamo passati dal 10% di 45 giorni fa al 60% ieri. Ci vuole sempre tempo raccogliere adesioni ad uno sciopero, ma eccoci qui. Questa settimana abbiamo deposto simbolicamente i nostri strumenti di lavoro davanti al Ministero delle Finanze per protestare contro la riforma delle pensioni. Eravamo molto più numerosi della polizia, avremmo potuto entrare nel ministero! E se avessimo davvero bloccato il nostro di lavoro, che consiste, lo ricordo, nella raccolta delle acque reflue, dopo 45 giorni di sciopero Parigi sarebbe nel caos completo! Siamo attaccati alla nostra professione, non vogliamo arrivare a questo punto. Ma posso dirvi che come organizzazione sindacale dobbiamo frenare gli animi, altrimenti si andrebbe ben oltre!

Quando si ripete lo stesso schema in settori strategici dell’apparato produttivo francese, la cui paralisi metterebbe in ginocchio il governo, non crediamo che si tratti solo di una questione tecnica e che attiene al “senso di responsabilità”. È fondamentalmente una questione di strategia: la direzione della CGT non cerca di affossare Macron, in quanto ciò aprirebbe una crisi grave e senza precedenti nella Quinta Repubblica. Una crisi che la direzione della CGT non ha la benché minima intenzione di aprire nel paese.

Juan Chingo

Traduzione di Ylenia Gironella da Révolution Permanente

Membro della redazione di Révolution Permanente, giornale online francese. Autore di numerosi articoli e saggi sui problemi dell'economia internazionale, della geopolitica e delle lotte sociali dal punto di vista della teoria marxista. È coautore con Emmanuel Barot del saggio "La classe ouvrière en France: Mythes & réalités. Pour une cartographie objective et subjective des forces prolétariennes contemporaines" (2014) ed autore del saggio sui Gilet Gialli "Gilets jaunes. Le soulèvement" (2019).