La dichiarazione di sabato del presidente Conte ha generato risposte concitate e contraddittorie tra i vari attori sociali: la sua formula ambigua sulla chiusura urgente di altri settori economici è diventata un campo di battaglia. 

Pubblichiamo un primo contributo al dibattito, alla luce dell’ultimo annuncio di Conte, attorno a quale strategia e quale programma d’insieme adottare come movimento operaio, come popolazione che sta pagando la crisi, per affrontare la pandemia del Coronavirus.


La situazione impone la chiusura di tutte le attività non rilevanti per la produzione nazionale” così si è espresso lo scorso sabato sera Conte, annunciando una misura attesa per oltre una settimana da milioni di lavoratori. Cessazione delle “attività rilevanti per la produzione nazionale” non significa però stop totale di tutte le produzioni non essenziali, rilevano in molti ascoltando il premier… Altri, non cogliendo la sottigliezza, esultano, aspettando un decreto già per domenica mattina, prima che arrivi Confindustria a guastare la festa.

Nel pomeriggio di ieri, infatti, giunge al governo una lettera da Confindustria in cui si insiste affinché il decreto slitti a mercoledì, di modo tale da poter stilare in maniera accurata i settori da bloccare, badando bene a mantenere operative, non solo le “produzioni essenziali”, ma anche quelle… “rilevanti per la produzione nazionale”.

Obbediente, Conte firma un DPCM già nella serata di domenica, accogliendo nella sostanza i desiderata del padronato: la lista dei settori che rimarranno aperti è lunghissima e coinvolge la chimica e la gomma plastica, oltre ai trasporti\logistica, a tutta una serie di branche della produzione di beni strumentali non necessariamente associata al sistema sanitario, ma anche i call center (!), l’aereo-spaziale e la difesa – palesemente alieni a qualsiasi bisogno sociale rilevante. Come se non bastasse, il decreto permette agli imprenditori dei settori non precettati di rimanere aperti fino al 25 marzo per “evadere gli ultimi ordini”, o di evitare le conseguenze della misura dimostrando al prefetto di produrre per le attività ritenute indispensabili. Un vero e proprio lasciapassare, dato che non si chiarisce come le autorità debbano procedere alle verifiche, mentre la connivenza tra prefetture e padroni è ben nota a molti lavoratori vittime della repressione.

 

L’ambiguità dei vertici sindacali di CGIL, CISL e UIL

Come abbiamo evidenziato citando le parole di Conte, l’ambiguità delle intenzioni del governo emerge fin da subito. Nel frattempo, però, i burocrati di CGIL, CISL e UIL, invece di denunciare l’operazione di maquillage dell’esecutivo, si intestano già sabato sera il merito della “vittoria”. Non c’è però ancora nessuna vittoria, né Landini & co. avrebbero in ogni caso il diritto di intestarsi alcun merito. I bonzi sindacali, infatti, hanno parlato di chiudere tutte le produzioni non essenziali solo qualche ora prima dell’annuncio di Conte, e solo per contribuire a renderlo fuorviante. Al contrario, lunedì scorso avevano sostenuto insieme ai padroni la “necessità di non fermare il paese”, limitandosi a firmare un protocollo che, oltre a ricalcare le linee guida di Confindustria in materia di sicurezza, non avrebbe mai potuto essere fatto rispettare in moltissime piccole e medie realtà aziendali, dove i lavoratori sono troppo ricattabili o disgregati per resistere alle “sollecitazioni” dei padroni. Tutto ciò in aperto contrasto con la posizione di migliaia di delegati, in particolare FIOM, e di centinaia di migliaia di operai protagonisti di scioperi a livello aziendale e locale, i quali si attendevano dai vertici delle loro organizzazioni una posizione chiara e netta sulla cessazione delle attività non vitali per la sussistenza e l’approvvigionamento di ospedali, eccetera.

Messi alle strette dalla rabbia dei salariati, nei giorni scorsi Landini, Furlan e Barbagallo si giustificavano sostenendo che non è il sindacato a poter decidere rispetto a un fermo della produzione – come se i lavoratori, incrociando le braccia, non potessero bloccare l’economia!

Nel tardo pomeriggio di domenica, però, il vergognoso ultimatum di Confindustria a Conte cambia le carte in tavola, spingendo i vertici dei confederali a paventare lo sciopero generale per difendere il principio dell‘”essenzialità” nella scelta delle attività produttive da mantenere operative.

CORONAVIRUS: NEL DECRETO SOLO ATTIVITÀ ESSENZIALI O SARÀ MOBILITAZIONE FINO A SCIOPERO GENERALEA differenza di quanto…

Pubblicato da CGIL Confederazione Generale Italiana del Lavoro su Domenica 22 marzo 2020

Probabilmente, Landini & co. si aspettano di avere tempo fino a mercoledì – la data di emanazione del decreto chiesta da Boccia – per cercare di far digerire agli operai il diktat dei padroni e scongiurare la possibilità di una mobilitazione generale. Conte però li coglie alla sprovvista, evidentemente calcolando che far uscire il decreto a metà della settimana prossima smaschererebbe in maniera troppo plateale il suo servilismo verso gli imprenditori e puntando sul fatto che la chiamata alle armi dei burocrati sia un bluff. Così, domenica sera il premier promulga il decreto in anticipo rispetto alle tempistiche previste da Confidustria, le cui istanze sono però accolte nella definizione dei settori da considerare “essenziali e strategici”. Una lista, come abbiamo accennato, inaccettabile; al punto che Landini & co. non possono semplicemente tirare una riga sulle dichiarazioni barricadere di qualche ora prima, senza perdere ulteriormente la faccia.

L’escamotage delle 23.00 è un comunicato ambiguo, simile a quello emesso dalla FIOM la settimana passata, in cui si incoraggiano i lavoratori dei settori non essenziali a scioperare per contrattare con le aziende fermi produttivi e cassa integrazione, senza però precisare di quali settori si stia parlando e senza parlare esplicitamente di sciopero generale, quindi di mobilitare le strutture centrali per imbastire un’azione unitaria ed efficace.

 

Una prospettiva di lotta per i lavoratori

I lavoratori, devono esigere che i vertici dei sindacati confederali, e in particolare la CGIL, cessino di prenderli in giro e mettano tutta l’autorità e i mezzi organizzativi delle organizzazioni di cui sono a capo al servizio della parola d’ordine dello sciopero generale; sciopero generale da coordinare con quello, importante e già in corso, indetto da SI Cobas e ADL Cobas nella logistica. Non bisogna però farsi illusioni sulla volontà di Landini & co. di portare fino in fondo lo scontro: è allora necessario che i lavoratori si coordinino in assemblee, su base aziendale e territoriale, a prescindere dalla sigla sindacale, per costruire la mobilitazione in maniera indipendente dai burocrati. È necessario che i lavoratori si attivino, si organizzino e si coordinino in prima persona anche perché, è vero: distinguere accuratamente quali sono i settori produttivi essenziali e quelli che non lo sono è un problema molto serio. Troppo serio per essere lasciato ai padroni e ai loro camerieri a palazzo Chigi, terrorizzati molto più dall’idea di perdere quote di mercato estero che da un’ulteriore estensione del contagio. Solo gli operai, imponendo l’apertura dei libri contabili delle aziende, possono decidere quali sono le produzioni che non vanno fermate, mettendo al primo posto la salute, e non il profitto. I lavoratori non devono inoltre cedere alle sirene dei padroni e dei burocrati che paventano “fallimenti” su larga scala delle imprese, nel caso di una sospensione coatta delle attività produttive. Il coronavirus, infatti, ha aperto il vaso di pandora delle contraddizioni di un’economia mondiale da anni sull’orlo del collasso: la recessione prossima ventura e le sue conseguenze in termini di disoccupazione non saranno allora imputabili agli operai in sciopero, né a qualche settimana di fermo produttivo, ma alla dinamica esplosiva, e tendente alla crisi, dell’accumulazione capitalistica. L’alternativa che si pone ai salariati – e agli oppressi nel loro complesso – è perciò fermare la produzione, adesso, cercando di evitare il peggio sul piano sanitario, o attendere di essere licenziati in massa nei prossimi mesi, con migliaia di nuovi morti per le complicazioni del Covid-19 da piangere.

Detto questo, è chiaro che l’imminente realtà del crollo economico deve mettere all’ordine del giorno l’esproprio e la nazionalizzazione delle aziende che licenziano, chiudono e\o delocalizzano, senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori, affinché non si tratti di pretesti per salvaguardare i profitti e socializzare le perdite. Inoltre, la lotta dei salariati per bloccare la produzione non essenziale in nome della salute deve essere accompagnata dalla rivendicazione di strumenti volti alla tutela del reddito, pagati al 100% dai padroni e non tramite soldi pubblici, cioè soldi dei lavoratori, a detrimento delle loro stesse pensioni (cassa integrazione).

Si tratta di misure utopistiche? Niente affatto, nazionalizzazioni e forme di sostegno al reddito sono provvedimenti che i padroni e i loro governi hanno già messo in cantiere; bisogna allora decidere in quale quadro metterli in pratica: quello di un rinnovato attacco padronale contro gli sfruttati, o quello del controllo operaio e del governo dei lavoratori?

 

Django Renato

Ricercatore indipendente, con un passato da attivista sindacale. Collabora con la Voce delle Lotte e milita nella FIR a Firenze.