“1917. I bolscevichi al potere” è un importante contributo per sfatare una serie di miti e giudizi confusi su come avvenne la prima rivoluzione socialista vittoriosa, e di quale cammino portò i comunisti del partito bolscevico a diventarne la direzione politica.
Introduzione
Sottovalutare l’importanza storica e politica della rivoluzione russa del 1917 è operazione ardua. Si possono citare molte ragioni in tal senso. Una di queste però, a giudizio di chi scrive, riveste un valore particolare: l’Ottobre rappresenta il primo successo di una rivoluzione socialista e proletaria. Da questo sembra possibile derivare, almeno per tutto il fronte rivoluzionario, la persistente rilevanza degli eventi che portarono i bolscevichi al potere. Al di fuori delle organizzazioni della sinistra classista, tuttavia, una simile posizione è fatta spesso oggetto di critiche feroci. Per quanto le argomentazioni proposte siano molteplici e sfaccettate, queste possono essere sintetizzate in due principali filoni.
Da un lato, si ricorda come il contesto della rivoluzione del 1917 fosse del tutto particolare: la Russia rimaneva in gran parte uno stato arretrato e semi-feudale, impegnato in una guerra improba contro un nemico decisamente più forte – la Germania imperiale – e sotto il pugno di ferro della feroce autocrazia zarista. Visto con gli occhi di un giovane lavoratore europeo di oggi, si sostiene, questo mondo non può che apparire distante. Una simile affermazione contiene una parziale verità. Ogni rivoluzione, proprio perché è il prodotto di una molteplicità di processi ed eventi, rappresenta d’altronde qualcosa di unico e difficilmente comparabile. Al tempo stesso però, la presunta specificità russa non deve essere ingigantita. Mentre infatti, ad esempio, quattro quinti della popolazione attiva erano contadini alla vigilia della prima guerra mondiale, il grado di avanzamento dell’industria nei principali centri urbani si trovava agli stessi livelli dei paesi capitalisti avanzati, mostrando anche una concentrazione di manodopera nelle grandi fabbriche senza eguali. Il combinarsi ed il fondersi insieme di diversi modi di produzione è stato descritto da Lev Trotsky come la legge dello sviluppo diseguale e combinato ed aiuta a svelare il mistero del primo successo socialista in un paese che rimaneva prevalentemente contadino. Simili contraddizioni non erano una particolarità russa, ma riguardavano, ad esempio, anche l’Italia del primo biennio rosso (1919–20), divisa tra un nord-ovest dove si concentravano le grandi industrie ed un meridione largamente latifondista. Con le dovute proporzioni, uno scenario non così diverso da quanto vediamo proprio in queste settimane dominate dal Covid-19: la grande concentrazione industriale della Val Seriana nel bergamasco e la contemporanea disperata ricerca di manodopera in condizioni semi-schiavistiche delle aziende agricole del centro-sud.
Dall’altro lato invece, si evidenzia come la possibilità di una violenta presa del potere rappresenti oggi non solamente una possibilità remota, ma anche un esito non auspicabile. La sinistra movimentista, spesso schiacciata su posizioni apertamente a-classiste, rappresenta la più implacabile sostenitrice di questa tesi. In parte questo deriva, almeno credo, da una lettura lineare tra il successo della rivoluzione e la trasformazione della prima democrazia operaia in una forma di capitalismo di stato sotto la guida di una burocrazia repressiva ed autoritaria. In maniera erronea, la degenerazione dello stato operaio sovietico non viene quindi ascritta a specifiche contingenze storiche – per citarne solamente alcune, il fallimento delle rivoluzioni in Europa (in ordine di importanza, Germania, Italia e Ungheria), la feroce guerra civile scatenata dalla reazione interna ed internazionale contro il regime bolscevico, il devastante processo di de-industrializzazione ed il conseguente ridimensionamento numerico e politico del proletariato urbano, principalmente a Pietrogrado e Mosca – ma alle modalità con le quali la rivoluzione stessa sarebbe stata condotta. In particolare, la sinistra movimentista punta il dito contro il presunto colpo di stato dei bolscevichi – esemplificato dalla “leggendaria” conquista del Palazzo d’Inverno – e il loro modello organizzativo. Dopo tutto, una forza gerarchia, verticistica, anti-democratica e fortemente dipendente dalla volontà del proprio leader non poteva che generare, viene argomentato, il mostro burocratico e dittatoriale stalinista. A prima vista, tale relazione appare alquanto logica. Peccato però che sia storicamente falsa. Il bellissimo libro di Alexander Rabinowitch – 1917. I bolscevichi al potere, pubblicato in italiano da Feltrinelli nel 2017 – aiuta a fare chiarezza in tal senso.
Le celebrazioni per il centenario della rivoluzione russa hanno rappresentato l’occasione per l’arrivo nelle librerie di uno svariato numero di testi sull’argomento. In alcuni casi si è trattato di contributi originali. Altre volte invece abbiamo assistito alla ripubblicazione di libri già usciti in precedenza. Tra i secondi rientra il testo di Alexander Rabinowitch, dato alle stampe per la prima volta nel 1976 con il titolo di The Bolsheviks Come to Power: The Revolution of 1917 in Petrograd. Come riconosciuto da più parti, si tratta di un contributo fondamentale per la comprensione degli eventi che portarono il partito bolscevico alla conquista del potere. Grazie ad un resoconto dettagliatissimo dei quasi cinque mesi che separano la fallita sollevazione di inizio luglio fino ai fatti di fine ottobre, Rabinowitch ci consegna un affresco di vivida chiarezza e raffinata analisi della rivoluzione a Pietrogrado. Due aspetti, in particolare, emergono come particolarmente interessanti: il rapporto tra Lenin ed il partito bolscevico e la capacità di quest’ultimo di conquistare il sostegno delle masse lavoratrici e delle truppe di base.
Lenin e il partito
In quello che potrebbe apparire come un paradosso, la storiografia stalinista e quella reazionaria concordano nell’assegnare un ruolo di assoluta centralità alla figura di Lenin, presentato come il leader assoluto del partito bolscevico e la figura chiave della rivoluzione del 1917. Le narrazioni divergono ovviamente nell’interpretazione generale. Per la pubblicistica reazionaria, Lenin era il capo dispotico di una piccola banda di fanatici. All’opposto, l’interpretazione sovietica presenta Lenin come l’infallibile guida delle masse lavoratrici, capace di farsi interprete delle loro, spesso confuse, aspirazioni. Entrambe le letture sono scorrette. Nonostante questo colgono una parte di verità: immaginare il successo dei bolscevichi senza la figura di Lenin sarebbe sostanzialmente impossibile. Questa rappresenta proprio la posizione dalla quale lo stesso Rabinowitch parte, ribadendo in più occasioni, con esplicito riferimento a Lenin, come “pochi episodi storici moderni mostrano meglio il ruolo decisivo che un individuo può avere in alcuni frangenti” (p. 208). Ci sono almeno due momenti tra la rivoluzione politica di febbraio e quella socialista di ottobre che mostrano chiaramente il ruolo cruciale di Lenin. Il primo è in aprile e non rientra, in realtà, nel periodo trattato da Rabinowitch. Sotto l’influenza della destra del partito guidata da Kamenev e Stalin, i bolscevichi si erano schiacciati su posizioni social-patriottiche, ritagliandosi implicitamente la funzione di ala sinistra della rivoluzione democratico-borghese di febbraio e flirtando anche con la possibilità di entrare a far parte del primo governo provvisorio guidato dal principe L’vov. Dal suo esilio svizzero Lenin aveva tuonato contro queste posizioni, conducendo un’implacabile battaglia propagandistica tra le fila del partito non appena rientrato a Pietrogrado nei primissimi giorni di aprile. Alla fine del mese, l’intera leadership del partito, inizialmente contraria, era stata conquistata dal programma politico di Lenin, noto come le ‘Tesi di Aprile’. In maniera sintetica, queste ruotavano attorno a tre capisaldi: per le condizioni storiche presenti in Russia, la rivoluzione non poteva arrestarsi allo stadio liberal-democratico, ponendo il dilemma tra la conquista del potere da parte del proletariato oppure un’aperta dittatura militare; in tale contesto, i bolscevichi dovevano lavorare per la conquista della maggioranza all’interno dei soviet, visti come gli organi del futuro governo rivoluzionario; e per ottenere la fiducia delle masse, il partito si poneva all’opposizione del governo provvisorio, smascherando il comportamento compromissorio delle altre forze socialiste – principalmente, menscevichi e socialisti rivoluzionari – che entravano a far parte di una compagine governativa decisa a continuare la guerra e contraria a qualsivoglia programma di vaste riforme sociali. Il secondo episodio nel quale la figura di Lenin assunse un ruolo determinante lo si incontra attorno alla metà di settembre. Nelle precedenti settimane Lenin aveva sostenuto una posizione conciliatrice, offrendo un ‘compromesso’ alle altre forze socialiste per la formazione di un governo di coalizione basato sui soviet. Tale posizione era stata ispirata dalla vittoriosa mobilitazione delle masse contro il tentativo di putsch guidato dal generale Kornilov e dall’apparente indisponibilità degli altri gruppi socialisti a rinnovare la collaborazione con le forze borghesi – soprattutto, il partito dei Cadetti – all’interno del secondo governo provvisorio guidato da Kerenskij. Un utile indicatore del carattere estremamente moderato di una buona parte della leadership bolscevica in quei giorni è fornito dalla querelle sulla pubblicazione dell’articolo dove Lenin si faceva promotore della posizione di compromesso. A meno di due mesi dal trionfo della rivoluzione, ritenendo che il passaggio del potere ai soviet fosse una misura eccessivamente ambiziosa, gli editori di Rabochii put’ – il principale organo del partito bolscevico in quel momento – rifiutarono la pubblicazione del pezzo. Al riguardo, Rabinowitch precisa come “soltanto su insistenza di Lenin, la decisione venne riesaminata e l’articolo pubblicato in data 6 settembre” (p. 172). In un tale contesto, non è difficile immaginare lo sgomento della leadership bolscevica quando il 15 settembre arrivarono due lettere che Lenin aveva scritto nei giorni precedenti dall’esilio finlandese, dove era costretto dai fatti di luglio. Compiendo una brusca giravolta rispetto a quanto sostenuto ad inizio mese, Lenin evidenziava come i bolscevichi, dopo aver conquistato la maggioranza (relativa) all’interno dei soviet dovessero prepararsi a prendere il potere nelle loro mani attraverso una sollevazione violenta. In maniera non sorprendente, “gli appelli di Lenin per il rovesciamento del governo provvisorio vennero rigettati bruscamente” (p. 181). A fine settembre, dopo non aver ricevuto alcuna risposta dal comitato centrale alle sue richieste di mettere all’ordine del giorno la sostituzione violenta del governo provvisorio e frustato dai secchi rifiuti alla pubblicazione dei propri articoli sul giornale del partito, Lenin giunse “perfino a minacciare le proprie dimissioni dal comitato centrale” (p. 193). In alcun modo, tuttavia, questa costituiva una resa. Anzi, Lenin diede avvio ad una campagna forsennata tra le fila dei bolscevichi, cercando di aggirare una leadership che si mostrava sorda ai suoi appelli e facendo perno, proprio come successo ad aprile, sugli organi intermedi di quel partito che stalinisti e reazionari hanno erroneamente rappresentato come il suo feudo indiscusso. Il fatto che il comitato centrale avesse mantenute nascoste per oltre due settimane le posizioni di Lenin senza neanche degnarsi di fornire una risposta a colui che indiscutibilmente rappresentava il dirigente più autorevole del partito provocò un moto d’indignazione, soprattutto tra le fila del comitato di Pietrogrado, indicato da Lenin come il soggetto incaricato di guidare la ventilata sollevazione armata. Le pressioni provenienti dal basso ed un certo cambio di orientamento di una parte della leadership bolscevica portarono alla storica riunione del comitato centrale tenutasi in clandestinità la sera del 10 ottobre. Vincendo la ferma opposizione della destra rappresentata da Kamenev e Zinoviev, la chiamata alle armi di Lenin ottenne 10 voti favorevoli sui 12 presenti. Le modalità e le tempistiche della sollevazione rimanevano imprecisate. Nonostante questo Lenin aveva vinto a sé il partito, orientandolo verso l’immediata presa del potere.
Una volta compresa l’importanza della figura di Lenin non sussiste alcun bisogno di trasformare il capo politico del partito bolscevico nel demiurgo della rivoluzione. Ancora più scorretto sarebbe poi non situare Lenin all’interno di quel corpo vivo, sfaccettato, e profondamente democratico che era l’organizzazione bolscevica. Tale affermazione merita una precisazione. Il partito bolscevico non era né un caffè letterario di discussione né un movimento sociale. Si trattava, al contrario, di un’organizzazione rivoluzionaria, seriamente impegnata nel tentativo di rovesciare il sistema capitalista. Questo richiedeva ovviamente un alto grado di unità e di disciplina interna. Non è un caso che a differenza di tutti gli altri partiti socialisti russi, i bolscevichi furono gli unici a non subire alcuna seria scissione nel corso della rivoluzione. Questo è senza alcun ombra di dubbio un elemento importante. Tuttavia, l’immagine di un partito iper-verticistico e ubbidiente alla leadership indiscussa di Lenin è palesemente falsa. Dopo tutto, se questo fosse stato il caso, i bolscevichi si sarebbero trovati, sospinti dalle posizioni di Lenin, su un binario morto in almeno due occasioni. Le conseguenze, sembra facile ipotizzare, sarebbero state disastrose.
A metà luglio, il comitato centrale assieme all’organizzazione militare bolscevica ed alcuni membri del partito di Pietrogrado e Mosca organizzarono una conferenza di due giorni per valutare la situazione dopo la fallita sollevazione di inizio mese ed il pesante clima anti-bolscevico che si era diffuso in tutto il paese. Lenin si presentò con una posizione di ultra-sinistra. Questa considerava le altre forze socialiste completamente compromesse con la borghesia ed evidenziava come il governo Kerenskij fosse finito interamente sotto il dominio della reazione capitalista e latifondista. In maniera ancora più esplicita, Lenin insisteva come lo slogan ‘tutto il potere ai soviet’ avesse perso la sua utilità dopo il 4 luglio, dichiarando esplicitamente come i “soviet attuali fossero falliti” (p. 62). Tali posizioni furono fortemente contrastate da numerosi leader bolscevichi. La critica più acuta venne formulata da Volodarsky: “coloro che affermano che la controrivoluzione è vittoriosa – con chiaro riferimento a Lenin – stanno giudicando le masse sulla base dei loro leader [..] mentre i leader dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari si muovano verso destra, le masse si orientano a sinistra” (p. 68). La conferenza raggiunse una soluzione di compromesso, rifiutando di considerare il governo Kerenskij completamente “sotto il controllo della controrivoluzione” (p. 60) e glissando sulla presunta trasformazione dei soviet intravista da Lenin. Simili posizioni vennero ribadite anche a fine luglio durante il tanto atteso sesto congresso del partito bolscevico, quando il gruppo di Trotsky entrò ufficialmente nei suoi ranghi. Lo slogan ‘tutto il potere ai soviet’ è effettivamente assente, come sottolinea Rabinowitch, “dai documenti ufficiali del partito nel corso della maggior parte del mese di agosto” (p. 89). Nonostante questo, proprio non aver seguito Lenin su una linea di ultra sinistra a luglio, permise al partito di promuovere l’unità tra tutte le forze socialiste a partire dai vari soviet per la difesa del governo Kerenskij, seriamente minacciato dalla marcia militare verso Pietrogrado guidata da Kornilov nel tardo agosto. Il fallimento del colpo di stato aprì indiscutibilmente una fase nuova nella rivoluzione e “tra i concorrenti per il potere nel 1917 è chiaro che i vincitori nell’affaire Kornilov furono i bolscevichi” (p. 167).
Il secondo passaggio cruciale nel quale il partito riuscì a rettificare la posizione di Lenin riguarda le due settimane che separano la decisione presa dal comitato centrale il 10 ottobre di lavorare ai preparativi per la presa del potere fino all’insurrezione del 25. In questo periodo emersero tre principali posizioni nel partito: la destra di Kamenev e Zinoviev che vedeva il secondo congresso dei soviet come l’occasione per l’instaurarsi di un governo provvisorio sostenuto da un fronte largo di forze democratiche (e quindi non necessariamente socialiste) che avrebbe dovuto cedere il potere dopo le elezioni dell’assemblea costituente; la sinistra di Lenin, che era “uno dei pochissimi tra gli alti dirigenti bolscevichi per cui i rischi di una traiettoria indipendente ed ultraradicale erano poco cosa a confronto dell’impazienza di creare subito un governo esclusivamente di sinistra” (p. 246-247); ed il centro del partito, rappresentato da Trotsky e da quanti Rabinowitch chiama “leninisti nello spirito” (p. 187), ovvero coloro che vedevano nel congresso dei soviet l’occasione per formare un governo socialista impegnato a terminare immediatamente la guerra e a varare importanti riforme sociali. Quest’ultima posizione giudicava probabilmente in maniera corretta l’atteggiamento prevalente tra i lavoratori e le truppe al fronte in quei giorni: un profondo desiderio di farla finita con il governo provvisorio di Kerenskij, che si combinava alla radicata convinzione che il nuovo organo legittimo del potere fosse rappresentato dai soviet – peraltro, la posizione che i bolscevichi avevano sostenuto durante l’intero, o quasi, periodo rivoluzionario. Esistevano inoltre molti segnali che indicavano come un colpo di mano autonomo da parte dei bolscevichi prima dell’inizio del secondo congresso dei soviet non sarebbe stato accettato da importanti settori delle classi subalterne. La forza del centro del partito di non cedere alle pressioni provenienti da Lenin per dare avvio alla sollevazione crearono le condizioni per il fatale errore del governo Kerenskij: la ventilata decisione di spostare al fronte la guarnigione di Pietrogrado, solidamente nelle mani dei bolscevichi. Questo produsse un moto di rabbia tra i soldati della guarnigione che crearono il comitato militare rivoluzionario: un’organizzazione formalmente a-partitica, ma nei fatti controllata dai bolscevichi. Non appena il governo Kerenskij dette avvio ad un’ampia repressione contro il comitato, questo passò alla controffensiva, mascherando quella che a tutti gli effetti era l’avvio della presa del potere da parte dei bolscevichi come il tentativo di resistere all’attacco di Kerenskij che, se non rintuzzato, metteva in pericolo anche lo svolgimento del secondo congresso dei soviet. Tra il 21 ed il 23 ottobre, il comitato militare rivoluzionario aveva già preso il controllo di gran parte delle unità militari di Pietrogrado, disarmando il governo provvisorio senza sparare un solo colpo. Eppure, quando Lenin arrivò nella notte del 24 ottobre a Smolny – il quartier generale bolscevico – con il successo a portata di mano, “la maggioranza del comitato militare rivoluzionario, per non parlare del comitato centrale, era ancora a disagio per la possibilità di andare troppo lontano troppo veloce” (p. 267). Ancora una volta il suo intervento risultò decisivo nello spingere avanti il partito. Proprio in quella notte catartica, il rapporto dialettico tra Lenin ed il partito bolscevico suggellò la sua apoteosi, sanzionando la prima vittoria di una rivoluzione socialista.
Il partito bolscevico e le masse
A distanza di oltre 100 anni, la presa del Palazzo d’Inverno rimane uno degli episodi più noti del ventesimo secolo. Nell’immaginario comune, questo rappresenta l’azione intrepida dei rivoluzionari russi per antonomasia ed il capolavoro strategico dei bolscevichi. Come le pagine di Rabinowitch rendono chiaro, tuttavia, l’assedio al palazzo dove si trovava riunito il governo provvisorio è costellato da una serie di difficoltà che hanno un retrogusto quasi comico. La più bizzarra riguarda forse quella che sarebbe dovuta essere il segnale dell’attacco finale: una lanterna rossa issata sull’asta portabandiera della fortezza di Pietro e Paolo, già caduta nelle mani bolsceviche. Non appena giunse il momento dell’azione però, i rivoluzionari scoprirono di non aver a disposizione alcuna lanterna. Questa venne quindi sostituita con una lampada, il cui problematico ancoraggio sull’asta portabandiera provocò numerosi grattacapi ai bolscevichi. Aneddotica a parte, la conquista del Palazzo d’Inverno non deve essere considerata meramente dal punto di vista della strategia militare. Proprio le parole di uno dei leader dell’operazione sembrano centrare pienamente il punto: “non aprimmo il fuoco dell’artiglieria, concedendo alla nostra arma più forte, la lotta di classe, un’opportunità per operare all’interno delle mura del palazzo” (p. 282). Questo è effettivamente quanto accadde: il governo provvisorio, difeso da un manipolo di fedelissimi, cadde senza opporre resistenza alcuna, o quasi. La ragione non deve però essere ricercata nel presunto attacco a sorpresa dei bolscevichi, ma nella loro straordinaria capacità di conquistare le masse nel corso del 1917. Per comprendere questo, occorre riavvolgere il nastro della rivoluzione.
Ad inizio 1917, mentre la popolazione di Pietrogrado era cresciuta fino a raggiungere i 2 milioni e 700 mila abitanti, i bolscevichi potevano contare su circa 2mila militanti in città. Si tratta di un numero che fa certamente invidia a tutte le forze della sinistra rivoluzionaria in Italia al momento. Al tempo stesso però, era ben lungi da rendere i bolscevichi un partito di massa. Questi lo sarebbero diventati nei mesi successivi. A partire da febbraio, infatti, la crescita del partito assunse un ritmo serrato. Ad aprile, gli iscritti erano saliti a sedicimila unità, raggiungendo i trentaduemila effettivi a fine giugno, quando anche circa duemila soldati della guarnigione della città erano entrati a far parte della organizzazione militare bolscevica (p. xlviii). Per il momento però, il partito disponeva di una reale capacità di conquistare la fiducia delle masse ristretta alla città di Pietrogrado. Il primo congresso generale dei soviet che si riunì proprio in quella che era ai tempi la capitale del paese il 3 giugno fornisce un’immagine limpida al riguardo. Dei 777 delegati che avevano dichiarato la propria affiliazione partitica, 533 erano menscevichi o socialisti rivoluzionari. Solamente 105 erano invece bolscevichi (p. xlxi). Questo è il contesto nel quale si situa la sollevazione di Pietrogrado di inizio luglio, scatenata dall’ennesima disastrosa offensiva dell’esercito russo cominciata verso la metà di giugno. La leadership bolscevica fronteggiava adesso una situazione delicatissima. Da un lato, le masse lavoratrici ed alcuni settori delle forze armate di stanza a Pietrogrado esprimevano un rifiuto netto del governo provvisorio, mostrandosi pronte a dar vita ad una sollevazione armata che realizzasse il passaggio del potere ai soviet. Voltare le spalle al movimento avrebbe scredito i bolscevichi per anni. Dall’altro, una sollevazione vittoriosa nella capitale sarebbe stata con ogni probabilità fronteggiata dalle campagne e da una buona parte delle truppe al fronte, che mostravano ancora fedeltà al governo provvisorio. A quasi cinquant’anni dalla Comune di Parigi, Pietrogrado rischiava di fare la stessa fine. Come evidenziato da Rabinowitch, “la scelta alla quale si trovava di fronte il partito era quella tra tentare di conquistare violentemente il potere oppure organizzare uno sforzo per far terminare le manifestazioni” (p. 10). Non sembra eccessivo dire che il più grande capolavoro della leadership bolscevica nel corso dell’intera rivoluzione debba essere situato proprio nelle convulse ore del 4 luglio. A differenza dell’organizzazione militare del partito che in maniera avventuristica ed autonoma aveva cominciato le operazioni per la presa del potere, il comitato centrale bolscevico rimase in costante ascolto delle masse: non per farsi guidare da queste, ma per non muovere contro la loro volontà. Non appena nelle primissime ore del 5 luglio emerse chiaramente come importanti distaccamenti di truppe di base fossero in marcia verso Pietrogrado, il partito bolscevico, che aveva appoggiato contro la propria volontà le dimostrazioni nei giorni precedenti per non perdere contatto con le masse, ordinò ad operai e soldati di terminare immediatamente le mobilitazioni. Gli eventi non furono senza conseguenze per il partito: alcuni leader furono arrestati, altri forzati in clandestinità. Per alcune settimane, una vera e propria caccia contro ogni segno di bolscevismo si diffuse in tutta la Russia, non risparmiando neanche le roccaforti del partito nei quartieri operai della capitale. Nonostante questo, i bolscevichi riuscirono a salvare miracolosamente intatta, o quasi, la propria organizzazione, che a partire dai primi giorni di agosto “era entrata in un nuovo periodo di crescita” (p. 90).
Due elementi lo testimoniano chiaramente. Per prima cosa, nelle elezioni per il nuovo consiglio comunale di Pietrogrado tenutesi il 20 agosto, il partito bolscevico raccolse oltre 180 mila voti, giungendo secondo alle spalle dei soli socialisti-rivoluzionari con 205 mila preferenze. Rispetto alle elezioni di maggio, in una fase quindi di forte espansione del partito, i bolscevichi erano cresciuti di circa il 15%. In maniera ancora più importante, l’apertura del secondo congresso generale dei soviet il 25 ottobre a Pietrogrado, proprio mentre era in corso la presa del potere da parte dei bolscevichi, segnava in maniera lampante la poderosa espansione del partito tra operai, contadini e soldati. Dei 670 delegati, ben 300 erano bolscevichi. Rispetto al congresso di giugno, “la pattuglia del partito era tre volte più grande” (p. 291). Considerato che oltre la metà dei 193 socialisti-rivoluzionari facevano parte della tendenza di sinistra e in virtù del fatto che vi erano anche 14 menscevichi internazionalisti, il congresso presentava una netta maggioranza, circa i due terzi, di sinistra. Al riguardo, non sembra superfluo ricordare come queste forze disponessero di non più di un quinto dei rappresentanti nel congresso di giugno. Il trionfo della rivoluzione è quindi in primo luogo la capacità del partito bolscevico di conquistare il sostegno della maggioranza della classe lavoratrice e della base dell’esercito. In alcun modo questa può essere mistificata come una cospirazione. Quanto sarebbe successo nei mesi e negli anni successivi lo avrebbe provato con ancor più forza: come avrebbe potuto un colpo di stato di un gruppo di devoti seguaci di un leader dispotico resistere al congiunto attacco delle massime potenze capitaliste e della borghesia interna? Questa però è una storia che scivola oltre l’interesse immediato del libro di Rabinowitch, che ci ricorda in conclusione come “i bolscevichi erano giunti al potere a Pietrogrado e una nuova era nella storia della Russia e del mondo era cominciata” (p. 304). Alcuni immagino che il crollo del capitalismo di stato sovietico abbia mandato in soffitta una volta e per tutte la rivoluzione bolscevica del 1917. Sembra vero l’opposto. Proprio in quanto liberata dalla grottesca e paradossale torsione burocratica ed autoritaria che ha annichilito le sue premesse di liberazione ed emancipazione, l’esperienza dell’Ottobre continua a rimanere di straordinaria attualità per i rivoluzionari di tutto il mondo.
Gianni Del Panta
Gianni Del Panta, studioso di scienze politiche, vive a Firenze ed è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione: da Piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).