Un termine che è entrato un secolo fa nel lessico del socialismo italiano, “borghesia stracciona”, ha col tempo assunto un’ambiguità tale da alimentare visioni “sovraniste di sinistra” sulle politiche economiche dei capitalisti italiani.


Da un po’ di tempo mi dà particolarmente fastidio l’espressione “borghesia stracciona”, riferito naturalmente alla borghesia italiana, perennemente scissa tra la predica di principi liberisti e l’ingente utilizzo di risorse pubbliche. Ci sono almeno due motivi per cui ultimamente mi irrita così tanto: il primo è che evidentemente anche il capitalismo cutting-edge americano vive di soldi pubblici, compreso (anzi, in prima linea) Elon Musk; il secondo – più strutturale – è che il capitalismo in sé non esiste senza la finanza pubblica e senza lo Stato, e questo per la ragione molto semplice che:

Il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato — dispotico, costituzionale o repubblicano che sia — imprime il suo marchio all’era capitalistica. […] Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria: come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usurario. In realtà i creditori dello Stato non danno niente, poiché la somma prestata viene trasformata in obbligazioni facilmente trasferibili, che in loro mano continuano a funzionare proprio come se fossero tanto denaro in contanti. Ma anche fatta astrazione dalla classe di gente oziosa, vivente di rendita, che viene cosi creata, e dalla ricchezza improvvisata dei finanzieri che fanno da intermediari fra governo e nazione, e fatta astrazione anche da quella degli appaltatori delle imposte, dei commercianti, dei fabbricanti privati, ai quali una buona parte di ogni prestito dello Stato fa il servizio di un capitale piovuto dal cielo, il debito pubblico ha fatto nascere le società per azioni, il commercio di effetti negoziabili di ogni specie, l’aggiotaggio […]. Fin dalla nascita le grandi banche agghindate di denominazioni nazionali non sono state che società di speculatori privati che si affiancavano ai governi e, grazie ai privilegi ottenuti, erano in grado di anticipar loro denaro [K. Marx, Il Capitale, Libro I, cap. XXIV, Roma, Editori Riuniti, 1970, p.817].

Se Marx ci pare troppo trinariciuto, va ricordato che questo passo è alla base di tutta la grande operazione di esame dei “piani alti” del capitalismo, il piano dei grandi monopoli che si sollevano dal livello del “libero mercato”, a partire da Fernand Braudel e da Max Weber e a seguire con la linea dei teorici del capitalismo come sistema-mondo (Giovanni Arrighi, Beverly Silver e Immanuel Wallerstein in testa). Su quanto sia fondamentale questo meccanismo per lo sviluppo dell’alta finanza basta leggere Giovanni Arrighi, Il Lungo XX secolo, pp. 17-34. Ma il meccanismo di ricatto e rapina con cui funziona l’istituzione delle banche centrali sulla base di un debito pubblico da risarcire è già chiaro verificando su Wikipedia la storia della casa delle compere e dei banchi di San Giorgio, in seguito Banco di San Giorgio. Gruppi di grandi privati – e fin dal Quattrocento! – mettono a disposizione le risorse che hanno accumulato – di solito col commercio – e innescano un meccanismo di debito e di pagamento di interessi che rimettono continuamente in circolo una macchina che consente la continua “reinvenzione” di denaro.

Naturalmente questo meccanismo consente una serie di operazioni molto trendy, specialmente quando si arriva, attraverso le espansioni successive del capitalismo come sistema-mondo, ai periodi delle rapine coloniali, ma per quello basta leggere un paio di libri di storia – che però di solito edulcorano, rimuovono o dribblano il punto con grande eleganza, continuando a consegnarci una storia delle spoliazioni coloniali in forma di mito eroico dell’esplorazione geografica… ma vedremo fra poco quanto questa rimozione c’entra con l’espressione “capitalismo straccione”. Il punto è che l’espressione in questione chiama in causa una specie di ingiustizia nell’uso del debito pubblico da parte della grande borghesia, specialmente se gioca su un tavolo internazionale, che è invece semplicemente uno dei fondamenti portanti del motivo per cui questa grande borghesia, banalmente, esiste. Il debito pubblico è solo questo? Certamente no, ma anche pensando come assolutamente fondamentale continuare a dare battaglia affinché la spesa pubblica venga diretta al welfare e alle persone che lavorano anziché alle imprese, il debito pubblico resta prima di tutto il meccanismo fondamentale di ricatto dei capitalisti ai danni dello Stato, e contemporaneamente in qualche modo uno degli atti fondativi dello Stato stesso. Se per la cosa pubblica “spendere” è necessariamente legato a un indebitamento sempre più grosso nei confronti dei privati, una politica strategica di rifiuto del meccanismo del debito deve sempre essere mantenuta in asse. Con questo “peccato originale” vanno fatti i conti prima di impostare qualunque ragionamento su finanziamento pubblico e finanziamento privato, perché è a partire da questo gioco che seguono la maggior parte di tutti gli altri equilibri e disequilibri politici relativi a chi-mette-i-soldi-dove-e-chi-li-prende.

 

Borghesia stracciona”: com’è nata l’espressione?

Ho deciso di provare anche un po’ a vedere da dove nasce questa espressione abusata di “borghesia stracciona”. A chi ha letto Lenin l’espressione dovrebbe suonare familiare, ma non per L’imperialismo, fase suprema del capitalismo – dove l’espressione non compare mai e dove la borghesia italiana è a mala pena citata – ma per via di un articolo dello stesso periodo, pubblicato nel 1915, intitolato “Imperialismo e socialismo in Italia” (pubblicato sulla rivista Kommunist, 1-2, p. 16, contenuto in V. Lenin, Opere complete, Tomo. XXI, Roma, Editori Riuniti, 1966, pp. 327-335), in cui Lenin usa più precisamente l’espressione “imperializmom bednjakov”, ovvero “imperialismo della povera gente”, con riferimento alla strumentalizzazione della poverissima classe lavoratrice italiana all’altezza delle avventure coloniali del secondo Ottocento e probabilmente con più puntuale riferimento alla Prima Guerra Mondiale (l’espressione peraltro Lenin non la conia, ma la cita, probabilmente da Roberto Michels). Dal 1927 Palmiro Togliatti la usa abbastanza ossessivamente, traducendola con “imperialismo straccione” e con riferimento non più alle politiche italiane anteriori al 1915, ma alle avventure coloniali del fascismo. Sulla ricostruzione di questo passaggio il riferimento è a Carlo Carbone, Italiani in Congo: Migranti, mercenari, imprenditori nel Novecento, pp. 68-70.

La cosa più sorprendente però è il passaggio successivo, col quale “imperialismo” viene sostituito con “borghesia” o “capitalismo straccione”, trasferendo quindi il piano di analisi dalla “fase suprema” del capitalismo (nell’espressione di Lenin) alla normalità ineluttabile del capitalismo italiano. La tesi di Togliatti naturalmente rifletteva anche un dibattito nazionale: Lucio Magri, per esempio, ricorda come la pubblicazione dei Quaderni del Carcere di Gramsci orchestrata dal PCI seguisse una linea interpretativa specifica che sottolineava il giudizio sul capitalismo italiano che Gramsci condivideva non solo con Togliatti, ma anche con gran parte della politica liberale dell’epoca:

Ciò che giustamente collegava Gramsci ai Salvemini, ai Dorso e ai Gobetti […], ma mettendo in ombra la critica del compromesso cavourriano, il rapido corrompimento del parlamentarismo nel trasformismo, le ambiguità del giolittismo, la polemica con il crocianesimo, i veleni insorgenti del nazionalismo, la «questione romana» come remora non ancora superata nella Chiesa, insomma quei processi parziali e distorti di modernizzazione, che avrebbero portato alla crisi dello Stato liberale e alla nascita del fascismo [Lucio Magri, Il sarto di Ulm. Una possibile storia del PCI, p. 48].

Altrove, lo stesso Magri ricordava però che

Gramsci parte sì dal riconoscimento dell’arretratezza produttiva, dal carattere straccione del capitalismo italiano, ma – ed è decisivo per lo sviluppo del suo pensiero politico – considera che l’arretratezza del capitalismo in Italia ha ragioni diverse, opposte alle ragioni della arretratezza del capitalismo russo. Se una notevole parte degli «Scritti dal carcere» sono dedicati da Gramsci alla storia d’Italia dal 1300 al 1500, è perché lì Gramsci vede le ragioni dell’arretratezza del capitalismo italiano; un’arretratezza che non deriva da una mancata rivoluzione borghese ma dal carattere per un verso prematuro e per l’altro verso estremamente capillare e consolidato nei secoli della rivoluzione borghese [Origini del manifesto. Appunti per l’introduzione al seminario di Rimini (sett. 1973) sulle Tesi, disponibile online qui].

Il “capitalismo straccione” italiano dentro la dottrina ufficiale del PCI

La tesi del “capitalismo straccione” come normalità del capitalismo italiano diventerà, di fatto, la linea del PCI dal dopoguerra, mai davvero abbandonata. Le ragioni sono state riassunte molto bene in un articolo di Francesco Barbagallo [“Il PCI, i ceti medi e la democrazia nel Mezzogiorno (1943-1947)”: Studi storici, Anno 26, n. 3 (luglio-settembre, 1985), pp. 523-544], e passano, fra le altre cose, dalla necessità di una normalizzazione del PCI dopo la lotta di liberazione nazionale dal fascismo. Essendo effettivamente la linea del partito, è difficilissimo attribuire precisamente la responsabilità del passaggio da “imperialismo” a “capitalismo straccione”. Unanimemente il responsabile dell’operazione dal punto di vista politico è individuato in Giorgio Amendola, e una ricerca su Google è sufficiente a rintracciare la quantità di volte in cui viene ripetuta meccanicamente l’attribuzione dell’espressione a lui: segnalo qui solo un’invervista di Rossana Rossanda a Guglielmo Epifani apparsa sulla rivista de il manifesto (n. 47, febbraio 2004), ma non c’è traccia dell’uso letterale di questa formula nel testo in cui si troverebbe, ovvero le conclusioni del convegno all’istituto Gramsci sulle tendenze del capitalismo italiano [Giorgio Amendola, Lotta di classe e sviluppo economico dopo la Liberazione, in Tendenze del capitalismo italiano, atti del convegno del 1962], dove Amendola tiene rigidamente – contro Pietro Ingrao, contro Bruno Trentin, contro lo stesso già citato Magri – la linea di un capitalismo italiano fondamentalmente incapace, col quale il movimento operaio deve cooperare per far avanzare l’economia – e specialmente nel Meridione – lottando anzitutto contro la sua arretratezza e la sua rendita: un capitalismo “straccione”, per l’appunto, perennemente dipendente da sostegni statali. Già al tempo del convegno al Gramsci l’idea generale, se non l’espressione in sé, aveva dovuto confrontarsi con il problema costituito da Keynes e dalle politiche keynesiane.

Amendola ne dava un’interpretazione diametralmente opposta rispetto a quella di tutti i nomi citati, che vedevano invece nel keynesismo non tanto una posizione riformista da assumere, quanto piuttosto – nella sua versione adattata al capitale italiano – la prova della capacità espansiva del capitalismo che già all’inizio degli anni Sessanta mostrava gli effetti del boom economico: la capacità di espandere i confini della “società dell’opulenza” e la necessità, dunque, di partire fermamente dalla lotta nei luoghi di lavoro (all’epoca quelli “per eccellenza”: le fabbriche).

Questo dibattito, si capisce bene perché, diventa in qualche misura uno dei momenti fondativi di tutti i conflitti interni alla sinistra – riformista o rivoluzionaria che sia – italiana, per la maggior parte cresciuta all’ombra del partito stalinista più grande d’Europa e mai stata davvero in grado di muovergli guerra fino in fondo e di emanciparsene. Su quanto abbia influito sulla vera e propria scissione tra un linguaggio marxiano e rivoluzionario e delle proposte e pratiche al più riformiste – e quindi su una conciliazione impossibile di queste due caratteristiche del PCI – c’è un bellissimo articolo di Patrick Mc Carthy, I comunisti italiani, il “New Deal” e il difficile problema del riformismo [Studi storici, Anno 33, n. 2/3, (aprile-settembre, 1992), pp. 457-478].

Fatto sta che la formula “capitalismo straccione”, che dopo il boom economico non può che avere un carattere giustificativo delle politiche del PCI, viene rimasticata e ripetuta a pappagallo fino ai giorni nostri – uno dei numerosissimi episodi è in questo numero dell’Unità (martedì 23 settembre 1969). Doveva però essere usata in modo talmente insistito, fin nelle conversazioni più informali, da diventare un luogo comune che si ritrova puntualmente in tutti i quotidiani ogni volta che ci si voglia dare una postura aggressiva verso le imprese italiane – di solito è la FIAT, oggi FCA, a essere nel mirino. Ma si trovano innumerevoli versioni della favoletta, una delle quali a firma persino di – ebbene sì – Renato Brunetta, nel pieno di una disputa tra le grandi imprese capitalistiche italiane e gli immobiliaristi romani nel 2005 (se ne trova traccia qui); è notevole anche l’uso dell’espressione contro gli 80 euro di Renzi da parte padronale, non troppi anni fa, nel 2014.

Le implicazioni di questa tesi sono le più diverse: alcune sono quelle che ho sottolineato all’inizio – l’eccezionalità supposta del capitalismo italiano rispetto alla borghesia internazionale, che impedisce una lettura del capitalismo come interamente dipendente dal rapporto con lo Stato e con la finanza pubblica – altre si colgono più che altro come sfumature. Tra queste mi pare che ci sia una incidentale quanto inconscia sottovalutazione della violenza con cui il capitalismo italiano opera, in patria e altrove, ai danni della classe lavoratrice, e una specie di automatismo che fa riemergere continuamente come problema principale dell’Italia l’incapacità della sua borghesia di manovrare le leve dell’economia. Non solo: nel nascondere l’iniziale riferimento di Lenin, tende a rimuovere la storia coloniale italiana, e in questo senso è uno dei numerosi tic del “rimosso coloniale” italiano che ci viene giustamente ricordato costantemente da Igiaba Scego. Infine, proprio nella politica del PCI plasmata da Togliatti e Amendola, l’espressione mi pare nascondere e riprodurre la questione meridionale non solo come contraddizione materiale, ma come sistema concettuale: la colpa dell’arretratezza del Sud Italia viene, ancora oggi, attribuita all’incapacità di questa borghesia “stracciona” di creare ricchezza indipendentemente dallo Stato e di assicurare corporativamente migliori condizioni di vita al suo bacino di forza-lavoro, anziché – come dovrebbe essere evidente con le tesi avanzate da tutte le parti del padronato italiano dopo due mesi di Covid – alla capacità magistrale del capitalismo italiano di continuare a concentrare ricchezza stando nei giochi di prestigio della finanza globale e contemporaneamente gestendo un paese a due velocità economiche, dotato di un ampio parterre di forza-lavoro sempre sfruttabile e sempre ricattabile al Sud.

 

Enrico Gullo

Enrico, nato a Palermo nel 1990, dottore in storia dell'arte, vive a Bologna, lavora come precario nell'editoria. Ha attraversato diverse mobilitazioni, tra cui quelle studentesche, quelle sulla precarietà universitaria e nei beni culturali, e quelle dei movimenti LGBTQIA+. Fa parte di Stati Genderali Lgbtqia+ & Disability.