La recente ripresa della politica di annessioni di suolo palestinese da parte di Israele è l’ennesima conferma del pieno fallimento della via istituzionale “armoniosa” per la risoluzione della questione palestinese: gli Accordi internazionali di Oslo non hanno minimamente fermato la politica colonialista di Israele.


L’annuncio del premier israeliano Benjamin Netanyahu sulle annessioni di alcuni territori nella West Bank-Cisgiordania da parte di Israele ha scatenato varie reazioni sia all’interno dei territori palestinesi e sia da parte dei governi regionali e occidentali.

Nessuno sembra si stia opponendo al piano: gli Stati Uniti di Donald Trump, che dopo il trasferimento della propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, hanno di fatto dato il via libera ad ogni mossa del colonialista Bibi Netanyahu.

Non sembrano batter ciglio neanche quelli che all’interno della Lega Araba si considerano fratelli dei palestinesi, ovvero i paesi arabi.

Gli Emirati Arabi da molto tempo stanno tessendo relazioni più che stabili con Israele -scatenando la rabbia persino dell’accomodante ANP- così come l’Egitto, che con la questione del gas nel mediterraneo orientale ha addirittura formalizzato l’alleanza con lo Stato sionista per proteggere i propri interessi dalle ambizioni turche.

Se dai governi borghesi regionali e occidentali non ci si aspetta nulla di eclatante in opposizione al piano del presidente israeliano, la passività del governo palestinese ancora una volta amplifica la frustrazione all’interno della società palestinese. Dopo aver collaborato per anni con il sionismo, soprattutto in termini di sicurezza, l’Autorità palestinese ha perso ogni legittimità agli occhi del suo stesso popolo. L’annuncio di Mahmud Abbas (Abu Mazen) di interrompere la collaborazione con Israele sulla sicurezza è stata per molti tardiva e gode di pochissima credibilità.

Dopo aver aiutato Israele a reprimere le già deboli sacche di resistenza palestinesi, l’ANP ha gradualmente acquisito sempre più i caratteri di un regime simile a quelli della regione. Le azioni della polizia palestinese contro gli scioperi e le manifestazioni dei comitati popolari hanno di fatto aumentato le distanze tra società e ‘stato’ palestinese.

Se da un lato, l’azione israeliana di annessione fa leva sulla superiorità militare e la sponsorship occidentale, dall’altro è pur vero che la divisione della società palestinese – tenendo conto anche della politica iper-pragmatica di Hamas a Gaza – non aiuta a costituire un fronte unico palestinese schierato contro il sionismo come contro la borghesia palestinese e le sue autorità di governo.

La lunga resistenza palestinese al colonialismo israeliano: l’Intifada

Questa divisione ha origini storiche molto radicate e getta le sue basi nel periodo successivo alla prima Intifada palestinese nel 1987 e nel successivo processo di Oslo che ha gettato la pietra tombale sulle aspirazioni di liberazione dei palestinesi per via istituzionale.

Oslo di fatto blocca il processo rivoluzionario, durato anni con forme di lotta perlopiù nonviolente (al di là degli episodi reali di scontri fisici e armati) della Prima Intifada, che fu caratterizzata dal protagonismo delle masse palestinesi e dal successivo ruolo centrale delle forze politiche palestinesi nella coordinazione e organizzazione della resistenza.

Nata dall’esperienza dell’ultima guerra arabo-israeliana del 1973, la prima Intifada nasce da un lungo processo di politicizzazione durato circa 15 anni1 e rappresenta una ‘Primavera Araba’ anti-litteram, nella quale le masse oppresse e colonizzate iniziano una lunga esperienza di resistenza all’invasore.

Per la prima volta il governo israeliano era stato messo in difficoltà ed i palestinesi, che resistevano ai carri armati con le pietre, ricevevano per la prima volta le attenzioni delle masse occidentali.

Molte furono le manifestazioni in solidarietà al popolo palestinese in Europa come in America Latina e negli Stati Uniti e questo preoccupò, e non poco, i governi occidentali che sino ad allora non avevano avuto alcun dubbio sul cieco sostegno ai governi sionisti -basti pensare, ma è solo la punta dell’iceberg, a tutta una filmografia, contro le azioni della resistenza palestinese, negli stati uniti o al dibattito, ancora oggi in voga, tra anti-sionismo e anti-semitismo2.

Oslo, tuttavia, arriva proprio dalla necessità di riportare le rivendicazioni palestinesi nella ‘normalità’, appiattite dalla retorica dei due Stati e dalla ‘pace in Medioriente’. Due assunti tanto “edificanti” quanto privi di senso e a favore degli occupanti sionisti.

All’interno di questi meccanismi, la leadership palestinese, soprattutto quella legata al partito di al-Fatah (all’epoca confinata a Tunisi) hanno sposato la via diplomatica seppellendo di fatto le rivendicazioni popolari palestinesi, giustificandosi con la “inevitabilità” di tale scelta, che concretamente ha consentito oggi all’Autorità Palestinese di sposare appieno il progetto neo-liberale di uno Stato palestinese ai piedi di Israele, generando una divisione all’interno dei suoi territori che ha permesso ad Israele di annettere ulteriori pezzi di terra palestinese.

Oslo: un trionfo controrivoluzionario

A ventisette anni dagli Accordi di Oslo, che – ricordiamolo! – rivendicavano l’obiettivo di porre le basi per la costituzione di uno Stato palestinese indipendente, l’occupazione israeliana nei territori palestinesi della Cisgiordania non si è arrestata e, seppur in essere, l‘Autorità Palestinese, retta da una direzione sempre più delegittimata, rappresenta agli occhi di tanti una struttura debole e strettamente dipendente dalle potenze regionali – Israele in primis – e internazionali.

La prima Intifada palestinese (1987), il crollo dell’URSS e la Prima Guerra del Golfo (1991) sono stati tre eventi fondamentali che hanno portato Israele e la leadership palestinese alla firma, nel 1993, degli accordi di Oslo.

La scelta di sostenere l’Iraq durante la guerra del Golfo, la dipendenza logistica e politica dall’URSS e l’emergere di Hamas durante la prima Intifada, hanno portato l’OLP (l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina) ad allinearsi ai nuovi equilibri internazionali e a lavorare per una soluzione politica alla questione palestinese.

Se dal punto di vista della leadership palestinese gli accordi avrebbero potuto rappresentare la base su cui costituire il futuro Stato, dal punto di vista israeliano gli accordi erano un modo per legittimare i meccanismi che avevano portato all’occupazione dei territori palestinesi (Cisgiordania e Gaza) sin dal 19673.

Oltre all’asimmetria degli accordi di Oslo4 dettata soprattutto all’assenza di fatto e de jure di una struttura statale palestinese e dalla solidità istituzionale israeliana, la maggiore criticità risiede, secondo molti, nel contenuto stesso degli accordi poiché privo di riferimenti rispetto alle questioni territoriale del futuro Stato palestinese e dei profughi espulsi nel 19485.

L’enfasi che gli accordi pongono sulla sicurezza è uno dei principali fattori di una sempre più graduale presenza israeliana all’interno dei territori palestinesi causando, tra le altre cose, un graduale abbandono e svuotamento dell’idea di resistenza contro l’occupante promosso ed attuato dall’Autorità Palestinese stessa.

Considerati come la Versailles palestinese6, gli accordi di Oslo rappresentano tuttora la piattaforma sulla quale l’Autorità Palestinese cerca di affermare, sia internamente che esternamente, la propria legittimità7.

Se da un lato Oslo ha svuotato l’idea di resistenza palestinese, depoliticizzando di fatto la società palestinese, dall’altra ha fatto emergere una leadership sempre più cooptata dall’occupante e che sfrutta, come l’occupante stesso, il fattore sicurezza per contenere tutti i dissensi che, col passare degli anni, la popolazione di Gaza e Cisgiordania esprimevano attraverso azioni che minavano alla base l’essenza degli accordi.

Il moltiplicarsi di azioni terroristiche, l’affermarsi del movimento islamista di Hamas e la continua resistenza da parte della popolazione alla colonizzazione dei territori hanno fatto emergere tutta l’inconsistenza delle neonate strutture istituzionali nate in seno ad Oslo.

L’Autorità Palestinese, completamente dipendente sotto il profilo economico agli aiuti internazionali e da Israele stessa, ha mostrato tutta la propria debolezza nel rivendicare la fine della colonizzazione, dei soprusi da parte israeliana e promuovere un vero Stato indipendente palestinese.

Inoltre, la sempre più diffusa corruzione all’interno delle istituzioni palestinesi e la creazione di un vero e proprio network clientelare8 ha alimentato un maggiore senso di frustrazione dei palestinesi che, insieme ai fattori indicati in precedenze, getterà le basi per la seconda rivolta popolare palestinese, conosciuta come Intifadat Al-Aqsa (L’Intifada di Al-Aqsa).

Sebbene la questione centrale è il ruolo dello stato di Israele e i suoi sponsor internazionali – gli USA in testa – come principale ostacolo alla formazione di unoStato palestinese indipendente, è altrettanto di cruciale importanza è il ruolo dell’Autorità Palestinese.

Oslo ha formalizzato definitivamente la creazione dello Stato borghese palestinese delineando in modo netto la struttura del modo e rapporti di produzione capitalistici e le loro sovr-strutture.

Infatti, il periodo intercorso tra il ’73 e l’87, oltre ad esser stato un momento di preparazione alla prima intifada, è stato, allo stesso tempo un periodo in cui il moderno capitalismo palestinese iniziava a prender forma soprattutto tra i grandi proprietari terrieri e proprietari di società che prendevano in subappalto servizi direttamente dalle aziende israeliane.

Quest’emergente borghesia ebbe ruoli di prim’ordine, soprattutto all’interno del partito di Al-Fatah9, e ricoprirono posizioni dirigenti all’interno dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

Non c’è da meravigliarsi, dunque, se essi stessi hanno avuto un ruolo preponderante nella firma degli accordi di Oslo e nella costituzione dello stato palestinese.

La formazione dello stato avrebbe permesso loro di ingrossare i profitti e mantenere una certa stabilità soprattutto nel sedare il conflitto di classe all’interno della società palestinese, non a caso F. Engels, ne L’origine della famiglia e della proprietà privata e dello Stato, affermava che ‘lo Stato è un prodotto della società giunta a un determinato stadio di sviluppo… queste classi con interessi economici in conflitto, non distruggano se stessi e la società in una sterile lotta, sorge la necessità di una potenza che sia in apparenza al di sopra della società’.

Non è un caso dunque che nella costituzione del neo-stato palestinese all’articolo 21 è specificato che la ‘politica economica dello stato della Palestina è l’economia del libero mercato’10.

Ciò ha contribuito a portare avanti, oltre ad un aumento della repressione delle numerose proteste delle classi subalterne palestinese contro le politiche liberiste e di privatizzazione, ha contribuito ad un graduale indebolimento delle rivendicazioni palestinesi sia a livello nazionale che a livello internazionale.

L’annessione di Netanyahu: ultima fase di Oslo… per ora

Oggi l’annuncio di Netanyahu sembra riscuotere molte critiche all’interno dell’Autorità Palestinese e dal suo premier Abu Mazen: la minaccia, a parole, di interrompere la sicurezza  -è la seconda volta che lo afferma negli ultimi sei mesi – con l’occupante è una presa di posizione tardiva e che non muoverà di un centimetro le aspirazioni israeliane.

La mancanza di credibilità insieme alla scarsa legittimità popolare hanno di fatto ridotto la questione palestinese ad esser sempre più dipendente dalle scelte prese in ambito internazionale.

Il forte appoggio di Trump al piano di Netanyahu potrebbe rappresentare un pericoloso colpo alle aspirazioni palestinesi.

Nonostante tali meccanismi di potere, c’è da dire che la lotta palestinese continua, soprattutto all’interno dei comitati popolari e negli atti di resistenza dei palestinesi che tutti i giorni devono affrontare i checkpoint israeliani.

Naturalmente ciò non basta.

I palestinesi oggi devono combattere contro due nemici giurati: l’occupazione israeliana e il regime borghese dell’ANP.

Per far ciò c’è bisogno dell’unità delle classi lavoratrici, comitati popolari e contadini palestinesi per una nuova organizzazione che punti a sgomberare il campo da inutili motti che richiamano ad uno Stato che fino ad ora è stato solo simbolo di oppressione. Uno Stato adattato al sistema imperialista e alla sua economia non potrà mai garantire l’emancipazione e la libertà del popolo palestinese.

Per concludere, non basta più in occidente mostrare solidarietà al popolo palestinese non tenendo conto delle rivolte che si stanno consumando in tutta la regione contro l’autoritarismo neo-liberale. Non si può rivendicare l’appoggio al popolo palestinese e allo stesso tempo dei regimi criminali come quello di Bashar al-Asad in Siria o di Al-Sisi in Egitto.

Non si può essere anti-imperialisti contro lo spauracchio americano – che imperialista è – continuando a legittimare più o meno apertamente il ruolo russo o turco in Siria o in Libia.

O si è contro il neo-colonialismo sionista, i suoi compari e i suoi camerieri “riluttanti” o, nel migliore dei casi, li si appoggia di fatto.

Palestina libera!

Mat Faruq

Note

1. Linda, Tabar, People’s power: Lessons from the First Intifada, Birzeit University, Center for Developments Studies, aprile 2013.

2. Ricca è la filmografia americana sul tema, qui si segnalano due film che mettono molto in risalto la narrativa anti-sionismo vs anti-semitismo: “The Delta Force” e “I leoni della Guerra”.

3. Adam, Hanieh, L’illusione di Oslo, Jacobin, 03/05/2013, .

4. Andrew, S., Buchanan, Peace with Justice: A history of the Israeli-Palestinian Declaration of Principles on Interim self-Government Arrangements, Londra, MacMillan, 2000.

5. Edward, Said, The Morning After, London Review Books, Vol.15 n°20, 21 ottobre 1993; Hanieh, op. cit.

6. Said, op. cit.

7. Hanieh, op. cit.

8. Markus E. Bouillon, Gramsci, political economy, and the decline of the peace process, Critique: Critical Middle Eastern Studies, Fall 2004, 13 (3), 239-264.

9. Tariq, Dana, The Palestinian Capitalists That Have Gone Too Far, Al-Shabaka, 14/01/2014.

10. Dana, op. cit.

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