La ripresa di mobilitazioni e proteste di piazza in Egitto scuote una volta di più la proclamata pace sociale del regime egiziano, che scricchiola da più parti e che si sorregge sulla repressione e sui rapporti con i grandi capitali e le potenze imperialiste.


Il 20 settembre scorso, ad un anno esatto dalle proteste che erano costate il carcere a più di tremila persone, le strade delle zone periferiche egiziane hanno cominciato a riempirsi di nuovo.

No, non è il preludio di un nuovo 25 gennaio [quando scoppiarono i moti di Piazza Tahrir], tuttavia la distribuzione geografica delle proteste e la composizione sociale delle stesse ci conferma che le classi subalterne egiziane non ne possono più delle aggressioni economiche, sociali e fisiche del regime del generale al-Sisi.

A manifestare, almeno nei primi giorni sono per lo più lavoratori, disoccupati e contadini delle zone periferiche dei grandi centri abitati; proletari che stanno soffrendo delle politiche economiche della borghesia militare egiziana che da sette anni governa il paese con mezzi repressivi senza precedenza.

Se per molti, ancora una volta, ha esercitato una forte influenza l’autoesiliato imprenditore egiziano Mohammed Ali al fine di trovare il coraggio per rompere il muro della paura e scendere in strada, a nostro avviso è di primaria importanza che, in un clima di forte repressione, il deterioramento delle condizioni materiali di milioni di egiziani abbia giocato un ruolo centrale in questa nuova, seppur ancora limitata, ondata di proteste.

Il clima è molto teso, soprattutto dopo l’uccisione di Owasi al-Rawi per mano della polizia di Luxor. L’uomo si era scontrato verbalmente con alcuni agenti dopo che quest’ultimi avevano schiaffeggiato il padre, reo di essersi opposto all’arresto di un altro dei figli il quale era accusato -si dice pretestuosamente – di aver preso parte alle proteste dei giorni precedenti.

Per di più, le 15 condanne a morte eseguite nella giornata di sabato e l’arresto della giornalista Basma Mostafa hanno surriscaldato il clima di indignazione nel paese.

Inoltre, il fattore internazionale sta mettendo sempre più sotto pressione il dittatore egiziano. Dopo il semi-fallimento nel sostegno a un altro generale, Haftar in Libia, e l’annosa combutta con l’Etiopia per le acque del Nilo, il governo egiziano sta in tutti i modi cercando di stringere ancor di più con l’imperialismo occidentale con l’obiettivo di farsi proteggere da eventuali capovolgimenti di fronte interni ed esterni.

 

La ricetta di al-Sisi per le masse povere egiziane:alle decurtazioni dei salari alla demolizione delle abitazioni

Nonostante i toni trionfali degli istituti di credito internazionali all’inizio del 2019 sulla crescita e il miglioramento dell’economia egiziana, i dati che oggi emergono dal paese sono tutt’altro che incoraggianti. Già durante le proteste dello scorso anno i dati economici erano tutt’altro che incoraggianti. Sono quasi il 40% gli egiziani che vivono ormai sotto la soglia di povertà e le riforme strutturali volute dal FMI, dopo il prestito del 2016, stanno aggravando le condizioni di vita di milioni di egiziani.

Le politiche di sviluppo del paese, basate per lo più su giganti opere di costruzione (non ultima una superstrada che taglia a metà la piana delle piramidi a Giza) finanziate dai prestiti, di fatto colpiscono le fasce più basse della popolazione con aumenti dei prezzi di prima necessità, una tassazione regressiva e, non ultimo, con aumenti fiscali sui salari dell’1% dei lavoratori e dello 0,5% per ogni mensilità delle pensioni.

La crisi generata dal coronavirus inoltre, ha di fatto alimentato la grave crisi economica, spingendo lo Stato a varare misure restrittive sui sussidi: diminuendo la fornitura del pane e dei beni di prima necessità, aumentando per la seconda volta in due anni i biglietti dei trasporti pubblici e aumentando del 19% le imposte sull’energia elettrica.

Inoltre, le conseguenze dei vari prestiti dal FMI si sono abbattute sulle industrie di proprietà dello stato e sul ruolo dei lavoratori all’interno dei consigli direttivi delle aziende.

La nuova riforma del settore pubblico taglia la presenza dei lavoratori all’interno delle assemblee aziendali negando la rappresentanza dei lavoratori e limitando il potere degli stessi sulle decisioni aziendali.

Seppur molti rappresentanti dei lavoratori sono spesso cooptati dal regime e dai capi delle aziende statali – e anche private – i lavoratori rappresentavano il 50% dei consigli di amministrazioni delle aziende: la nuova riforma prevede che il numero dei dipendenti nel consiglio di amministrazione scenda a percentuali di gran lunga minori (massimo uno o due unità) a seconda del numero di lavoratori di una data fabbrica.

Tale mossa del regime che toglie posizioni ai lavoratori finora “troppo” rappresentati, si inserisce in un’azione più generale di repressione e limitazione giuridica, formale del movimento operaio che si era reso protagonista nel periodo precedente alla caduta di Mubarak e durante le manifestazioni che hanno messo fine alla pluridecennale dittatura.

Un altro versante di aggressione statale è quello costituito dall’abbattimento degli abusi edilizi e sulle abitazioni informali presenti in varie parti del paese.

Secondo un articolo di Mada Masr – uno dei pochi portali indipendenti del paese – in Egitto sono più di due milioni le abitazioni informali e abusive e dall’inizio di settembre il governo sta portando avanti una serie di demolizioni come atto esecutivo della legge sulle abitazioni.

Proprio nell’aprile del 2019, si legge nell’articolo di Mada Masr, il presidente al-Sisi ha ratificato la legge di Riconciliazione sulle violazioni abitative. Questa legge è una vera e propria sanatoria che consente ai proprietari delle abitazioni (che rispettano le norme di sicurezza) di sanare le irregolarità architettoniche. Con l’obiettivo di fare cassa (secondo le stime, se tutte le abitazioni venissero sanate, lo Stato avrebbe un tesoretto di 100 miliardi di lire egiziane, circa 5 miliardi e mezzo di euro), il governo ha messo in campo la sanatoria che di fatto però, come confermano i dati, non ha raggiunto il 10% del totale: per i milioni di abitanti poveri di queste abitazioni, non era scontato poter regolarizzare la propria posizione.

Sono proprio le demolizioni del governo che hanno scatenato la rabbia dei residenti, soprattutto delle aree periferiche. Con la promessa di dar loro delle abitazioni sostitutive, il governo ha proceduto con le demolizioni, tuttavia l’assenza di un piano abitativo per le classi meno abbienti della società ha scatenato la rabbia del proletariato e del sottoproletariato delle periferie e delle campagne egiziane.

Alle proteste di strada non è mancata la risposta da parte delle forze di sicurezza del regime che in appena due giorni hanno arrestato circa 200 persone, tra cui diversi bambini e donne. Negli scontri sono rimasti uccisi tre ragazzi, uno di soli 14 anni.

 

Debole in patria, al-Sisi cerca di stare a galla appoggiandosi sull’imperialismo occidentale

L’intervento turco in Libia ha fatto saltare il banco del generale Khalifa Haftar che, con il sostegno di Emirati Arabi, Russia, Egitto e, più informalmente, Francia, puntava a mettere sotto il proprio controllo la ‘nuova Libia’ del post-Gheddafi e liberare il campo politico dai ‘terroristi dell’ovest’.

L’Egitto aveva scommesso decisamente sul sul generale della Cirenaica, un potenziale nuovo al-Sisi in grado di instaurare una dittatura militare e securitaria. Ma l’intervento turco in sostegno della controparte di Haftar – al-Serraj e il suo Governo di Accordo Nazionale – ha fatto tramontare l’idea di una nuova Libia ‘stabile e sicura’ sulla falsariga del vicino Egitto.

Il fallimento del generale Haftar ha di fatto tolto la terra sotto i piedi di al-Sisi che prontamente ha preso in mano – con l’assenso di USA e Russia – il ‘nuovo processo di riconciliazione’ e apparendo agli occhi della comunità internazionale il pacificatore dell’area. Un ruolo di cui al-Sisi ha bisogno e che le potenze occidentali sfruttano a loro favore per la corsa alle risorse energetiche, e non solo, del Mediterraneo.

Allo stesso tempo, le nuove scoperte di gas nel mediterraneo orientale hanno aperto una profonda crisi tra l’asse turco e lo stesso Egitto, insieme ad Israele, Grecia e Cipro, per accaparrarsi gli introiti delle risorse energetiche.

Anche in questo caso, l’Egitto insieme ai suoi partner, è riuscito ad accaparrarsi il sostegno dell’Unione Europea che, con l’Italia in primis – alla faccia della verità per Giulio Regeni e la libertà di Patrick Zaki -, ha istituito il Forum del Gas del Mediterraneo Orientale che punta a pacificare la combutta sulle risorse energetiche (soprattutto tra il quartetto citato e Turchia) e sistematizzare e ottimizzare, a vantaggio dei soliti, lo sfruttamento degli enormi giacimenti di gas nelle acque del mediterraneo.

Questa operazione rafforza ancor di più il regime politico egiziano e la burocrazia militare che detiene il potere economico del paese.

Un potere economico minacciato, tra le altre cose, dall’annosa crisi con l’Etiopia per la diga che lo stato del Corno d’Africa sta costruendo (la ditta di costruzione è italiana!) e che potrebbe avere conseguenze disastrose per la fornitura idrica dell’Egitto.

Il progetto del governo etiope punta alla realizzazione di questo mega impianto con l’obiettivo di poter generare corrente elettrica in tutto il paese (6.000 MW) e assicurare al paese una riserva di acqua di circa 74 miliardi cubi di acqua.

La costruzione della diga, tuttavia, avrebbe conseguenze gravissime per l’Egitto – il 90% dell’acqua in Egitto è fornita dal Nilo – sia in termini di fornitura di acqua potabile che per l’agricoltura. Secondo le stime, se l’Etiopia completerà i lavori entro sei anni, l’Egitto perderebbe il 17% della terra coltivabile, mentre nel caso in cui il paese del Corno terminerà la sua opera entro tre anni, il paese dei faraoni rischierebbe di perdere più della metà (51%) delle sue terre coltivabili.

Anche in questo caso il regime è in piena difficoltà. Una grande fetta di popolazione, soprattutto nelle zone meridionali del paese, per lo più le aree rurali di Qena, sta avendo difficoltà nella fornitura di acqua potabile e sta affrontando l’emergenza sanitaria in precarie condizioni igieniche.

Il governo, nonostante la gravità di tali ripercussioni, sotto il profilo interno continua a minacciare l’Etiopia e portare avanti una vuota retorica nazionalista e militarista che ormai non ha più presa all’interno alle orecchie dell’opinione pubblica.

Il dittatore ha più volte sottolineato come la questione idrica egiziana e la decisione dell’Etiopia di costruire la diga siano il risultato del periodo a cavallo delle proteste del 2011 e della fase di instabilità che il paese ha vissuto dopo la caduta del regime di Mubarak: un tentativo vile di dare la colpa ai lavoratori e alle masse popolare egiziane, rinfacciando la loro eroica sollevazione.

Sotto il profilo internazionale, tuttavia, il regime sembra ridimensionarsi e cerca di affidarsi alla buona relazione che il dittatore ha con Donald Trump e con le Nazioni Unite, portando avanti un processo di mediazione che ad ora non ha mosso di una virgola la posizione dell’Etiopia.

 

Il blocco storico attorno ad al-Sisi scricchiola: la mobilitazione operaia e popolare deve farlo crollare!

Le sollevazioni di questi giorni mostrano ancora una volta quanto il potere di al-Sisi e del suo clan militare neghino categoricamente alle classi subalterne egiziane di mantenere uno standard di vita dignitoso.

Lo slogan del 2011 ‘il popolo vuole la caduta del regime’ rimbomba di nuovo nelle strade egiziane a dimostrazione che le politiche aggressive della borghesia egiziana e dei suoi ufficiali militari hanno ridotto alla fame milioni di egiziani.

Il potere economico e politico dell’esercito e del suo più alto rappresentante, il generale al-Sisi, continua, nonostante le difficoltà economiche del paese, a sbranare risorse per la realizzazione di opere infrastrutturali che di fatto rimangono inutilizzate e inaccessibili ai più.

La nuova capitale amministrativa, nella zona della nuova Cairo – Masr al-Jadida – ad un anno dalla sua nascita appare come una delle tante capitali del deserto, figlia della corruzione del sistema capitalismo egiziano che espropria risorse ai poveri e ai lavoratori con l’obiettivo di generare profitti.

Tutti gli appalti di queste mega-opere sono affidate a ditte ed aziende vicine all’apparato militare che, oltre a detenere il monopolio in questo settore, gestisce di fatto il giro d’affari dell’intero settore produttivo del paese (dai beni di prima necessità all’erogazione di alcuni servizi di base).

Per proteggere gli interessi della classe dominante egiziana e i suoi profitti, il regime egiziano ha costruito uno Stato repressivo senza precedenti, sulla cui natura gettano nuova luce le proteste di questi giorni.

Le piccole città e le zone periferiche e rurali non hanno lo stesso livello di sicurezza delle grandi città (in questi giorni il Cairo e altri centri urbani hanno adottato misure di sicurezza belliche); per questo motivo le manifestazioni stanno continuando più del previsto, seppur limitate in termini di numeri: gli arresti e le uccisioni per ora non riescono a fermarle.

Tuttavia, l’assenza di mobilitazione nei grandi centri rende tali proteste ancora deboli, al punto che sembrano non impensierire più di tanto il potere e la conseguente repressione delle stesse è stata molto più morbida delle manifestazioni del 2014 e dello scorso anno (3.000 arresti in una settimana nel 2019, 300 nei primi sette giorni quest’anno).

Quanto alla mobilitazione delle grandi città, è giusto rimarcare il fatto che non hanno preso parte da subito alla protesta, ma anche in questo caso, come evidenziano i dati statistici, le condizioni di vita degli abitanti dei grandi centri urbani è peggiorata sensibilmente con un aumento spropositato del costo della vita.

Se da un punto di vista della mobilitazione per ora la paura di una brutale repressione la fa da padrone, non è escluso che nel prossimo breve termine anche i ceti medio-bassi urbani possano scendere in strada.

Inoltre, restano più che mai vive le fratture in seno al blocco militare. L’egemonia politica ed economica dell’esercito non significa che manchino tensioni e linee di faglia all’interno delle forze armate, come se fossero un’enorme, compatta massa allineata ai diktat dei padroni. Tali fratture, nonostante restino sigillate dentro il perimetro delle forze armate, esistono e sono note ai più, e le mosse di al-Sisi di circondarsi di famigliari, parenti e amici ai vertici dell’esercito ha generato molto malumore all’interno degli alti ranghi delle forze armate.

Inoltre, non sono ancora guarite le ferite delle purghe del 2017 di Sami Anan e Ahmad Shafiq (i due candidati presidenti che hanno sfidato il generale alle urne) e non è un caso che, seppure si tratti di fake news, in questi giorni giravano sui social false dichiarazioni di Anan in appoggio alle proteste.

In questo contesto è più che mai necessario unificare le lotte e far sì che le contraddizioni sociali in seno al regime egiziano vengano in superficie, a partire dalla critica organica all’apparato militare e i suoi affari, sino al risveglio politico del movimento operaio.

L’unione delle lotte sociali, insieme alla galassia delle associazioni a difesa dei diritti dei detenuti e dei diritti umani, possono creare una crisi all’interno del blocco storico egiziano e mettere in crisi le élite di governo.

Solo in questo modo, le classi subalterne possono aspirare a liberarsi dall’oppressione del regime golpista di al-Sisi e dal giogo delle grandi istituzioni economiche internazionali (Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale) che hanno ridotto all’osso milioni di proletari in tutto il paese.

 

Mat Farouq

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