Negli ultimi giorni ed in poco meno di 24 ore si sono succeduti due naufragi al largo delle coste libiche in cui hanno perso la vita quasi 100 persone tra cui anche dei bambini.


I primi soccorritori che si sono messi in azione nel cercare di salvare queste vite, sono stati i marinai della Ong Open Arms, che ha dato soccorso all’imbarcazione in avaria cercando di salvare quante più vite possibili. Scrive l’Ong spagnola che “il mediterraneo è un cimitero senza lapidi”. In questa affermazione c’è tutta la realtà di ciò che sta accadendo già da anni nel Mediterraneo, storie tragiche che di volta in volta appaiono e scompaiono dalle cronache dei giornali di tutta Europa. 

L’Ong Open Arms è l’unica imbarcazione attualmente attiva nel Mediterraneo per il soccorso dei migranti. Il presidente della Ong in Italia, Riccardo Gatti, ha sottolineato che in questo momento stanno operando da soli: “Possiamo contare solo sui nostri mezzi” e aggiunge che sia necessario “prima di tutto un’operazione congiunta in mare da parte dei governi dell’Unione Europea e l’apertura di corridoi umanitari”.

La morte di questi naufraghi solleva più di un interrogativo sulle politiche migratorie dell’Unione. A livello Italiano, molte imbarcazioni di soccorso tra cui Sea Watch 4, Alan kurdi, Luise Michele e la Ocean Viking sono state bloccate nel corso degli ultimi mesi dalle autorità italiane per presunte irregolarità amministrative. Per Luigi Giardino, capo del VI reparto sicurezza della navigazione del comando della guardia costiera, le Ong in questione svolgono un’attività sistematica di salvataggio di migranti, che può essere identificato come un impiego, e salvare delle vite dovrebbe essere presentato tra gli impieghi più nobili esistenti, ma in questo caso criminalizzato e sottoposto al fermo delle imbarcazioni. Insomma, a causa di alcuni cavilli burocratici e fermi amministrativi viene impedito a soccorritori e medici di bordo la possibilità di poter svolgere il proprio compito: soccorrere persone in mare.

La Ong Sea Watch, bloccata dopo un soccorso tra il 17 e il 18 giugno è ancora impossibilitata a riprendere il mare, dopo che aveva trasferito dei migranti salvati da morte certa sulla nave-quarantena Moby Zazà, avendo fatto loro dei tamponi per verificare se ci fossero contagiati dal covid-19, e riscontrando 28 risultati positivi. La nave Sea Watch a quel punto è stata messa in quarantena e messo in isolamento l’equipaggio. Il blocco successivo alla data del salvataggio, quindi continuativo ancora ad oggi, risulta essere ingiustificato, la stessa Ong aveva denunciato che “le persone salvate in mare avevano trascorso ore, a volte giorni ammassate in imbarcazioni fatiscenti” per poi aggiungere “che quasi tutti i naufraghi provenissero da periodi di confinamento o detenzione di massa in condizioni disumane in Libia”.

Alcune ispezioni hanno riscontrato delle irregolarità come il poco spazio sulla nave nel momento del salvataggio tra i soccorritori e i naufraghi possa ledere alla sicurezza durante la navigazione, ed altri fermi amministrativi, dovuti anche dalla bandiera quindi dalla provenienza della nave, che in questi casi si adoperava al soccorso dei migranti. Insomma tali divieti impediscono il normale svolgimento delle missioni umanitarie e, a prescindere dai motivi del blocco delle navi, dovrebbe essere palese al mondo intero che se non ci fossero queste navi di soccorso i numeri dei morti nel Mediterraneo sarebbero moltiplicati.

La maggior parte dei migranti partono dalla Libia che, per l’organizzazione delle nazioni unite (ONU), non è un porto sicuro. Il ministro dell’interno Marco Minniti nel passato governo PD del 2016 dimostrò la brutalità dello Stato siglando accordi con il governo libico per la gestione dei migranti per arrestarne le partenze. I migranti che vengono riportati in Libia, subiscono violazioni dei diritti umani, anche secondo l’ONU, tra cui detenzione, abusi, tratta e sfruttamento. È scandaloso, per non dire criminale, reputare la Libia come un luogo dove poter riportare i migranti (o dove poterli bloccare prima della partenza) dopo che si è avuto modo di conoscere ciò che accade nei centri di detenzione che punteggiano le coste del paese.

Uomini e donne di tutte le età denunciano le violenze a cui sono sottoposti in questi centri e dopo tutto ciò senza abbandonare la speranza affrontano quest’ultima traversata per cercare un po’ di serenità al di là del mare. Quello che però troveranno una volta arrivati in Italia non sarà certo un caloroso benvenuto dopo tutto l’orrore subito. Troveranno al contrario altre mille difficoltà. Conosciamo benissimo lo sfruttamento che subiscono i lavoratori, in particolare immigrati, nelle campagne di tutta la penisola Italiana, o come vengono sfruttati nei magazzini e nelle fabbriche.

Le istituzioni europee sono colpevoli di queste morti quanto chi si arricchisce con la tratta degli esseri umani, questo continente, in mano a multinazionali e banchieri e ai loro governi, non è nient’altro che un altro continente dove milioni di lavoratori immigrati e autoctoni sono costretti a lavorare in condizioni molte volte al limite della schiavitù. Non è un caso che molte delle lotte più coraggiose e determinate in questo paese siano portate avanti innanzitutto da immigrati, nelle campagne e nei magazzini della logistica. Il coraggio mostrato nell’affrontare il deserto ed il mare, lo ritroviamo nella determinazione dei percorsi conflittuali che questi stessi soggetti riescono a costruire e che devono essere esempio per i lavoratori e i giovani europei, devono essere una chiamata all’unità per una sola lotta che punti a costruire un’altra Europa, un altro mondo, un’altra società.

 

Vanja

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