Ribaltando i pronostici, Elly Schlein, vicepresidente dell’Emilia-Romagna, ha battuto Stefano Bonaccini alle elezioni primarie, diventando segretaria del Partito Democratico. Un cambio di guardia che presenta molti più tratti di continuità del mito di una “svolta a sinistra” capeggiata dalla candidata “outsider”.


Una vittoria contro i pronostici

Elly Schlein ha vinto le elezioni primarie del Partito Democratico tenutesi lo scorso fine settimana, diventandone la nuova segretaria. Un ribaltamento dei pronostici che davano sin dall’inizio come favorito Stefano Bonaccini, presidente della regione Emilia-Romagna e dirigente storico proveniente dalle fila del PCI.

Il PD rivendica la partecipazione di circa un milione e 100 mila persone alle primarie. Su questo va chiarito che le elezioni per il segretario nazionale sono del tutto aperte, per cui basta una sottoscrizione di due euro e una dichiarazione informale di appoggio al PD. Una modalità che storicamente ha avvicinato il PD, rispetto ai partiti “storici” del nostro paese, al partito come comitato elettorale, con un corpo dirigente piuttosto autonomo rispetto al suo stesso corpo militante, sul modello del Democratic Party degli Stati Uniti, a cui il fondatore del PD italiano Walter Veltroni si è sempre richiamato.

Il risultato, dicevamo, ribalta quello interno che aveva stabilito i due candidati con più sostegno della base, scartando Gianni Cuperlo, burocrate storico più vicino alla sinistra interna ex-PCI, e Paola De Micheli, manager più vicina alle ali democristiane: Schlein ha vinto col 53,8% contro il 46,2% di Bonaccini.

Il risultato viene celebrato da Schlein come una “piccola rivoluzione” e ha potuto contare sull’appoggio entusiasta di figure con carriere a cavallo della sinistra interna del partito, oggi riunite dentro il PD, come Pierluigi Bersani, Roberto Speranza, Laura Boldrini; sulla convergenza dei voti di origine democristiana, con l’appoggio esplicito anche del segretario uscente Enrico Letta; infine, di personaggi pubblici più giovani come l’autoproclamato capo del movimento delle sardine del 2019-20 Mattia Santori, oggi consigliere comunale del PD a Bologna.

Il PD è “riformabile” dalla segretaria Schlein?

Al di là della autopromozione del PD, c’è da chiedersi in cosa consista concretamente la “piccola rivoluzione”, la “svolta a sinistra” che Schlein rivendica, e che i suoi detrattori le rimproverano, paventando un’evoluzione del PD come partito di sinistra radicale e dedicato a distruggere la famiglia tradizionale e a saccheggiare i risparmi della popolazione benestante: una inevitabile propaganda che deve fare i conti con la necessità di Giorgia Meloni di non passare ora come il nemico giurato del PD, che rimane il partito a cui la burocrazia UE, il grande capitale finanziario e i vertici NATO guardando con fiducia nel nostro paese, tanto che la prima ministra ha dichiarato che “una giovane donna può aiutare la sinistra a guardare avanti”. 

Al polo opposto, la suggestione che proviene da quei settori di sinistra che hanno in sostanza abbandonato qualsiasi progetto concreto di un partito chiaramente di sinistra e anticapitalista della classe lavoratrice è quella di una possibile evoluzione in senso neoriformista della segreteria Schlein, a patto di condurre una lotta contro l’apparato dirigente del PD, che sicuramente non può essere “purgato” e sostituito dall’oggi al domani. In questo senso, non rivendicando esplicitamente una politica di “dirty break” (“rottura sporca”, caratterizzata dal carattere repentino) di un’ala sinistra del Partito Democratico in un processo di lotta aperta e senza quartiere, Lorenzo Zamponi della redazione di Jacobin non si arrischia a ipotizzare una strategia di entrata in massa della sinistra del PD con lo scopo di provocare questa dirty break, analogamente a ciò che hanno sostenuto sin dalle loro origini i fondatori del Jacobin originale, quello statunitense. Zamponi suggerisce la prospettiva – per noi ancora peggiore, dato che lascia la palla ai capi del PD che fanno fronte con una politicante borghese “radicale” a parole – di una lotta interna in cui Schlein capeggi una crociata contro il vecchio apparato conservatore del partito. “Rotture e conflitti” che permetterebbero di “invertire la rotta neoliberista” del PD. 

Questa discussione chiama in causa il carattere di classe di un partito politico che, in questo caso, dal nostro punto di vista è maturato irrimediabilmente come partito centrale del capitalismo italiano già agli inizi della sua esistenza, se possibile ancora più scorporato dalla classe lavoratrice e dalle sue organizzazioni rispetto ai suoi “cugini” stranieri come il Labour britannico. Ciò non toglie che sia utile vedere più nel dettaglio perché l’idea di una sua evoluzione verso sinistra, seguendo in ritardo l’ondata neoriformista europea, è del tutto irragionevole, e confonde le acque proprio quando è fondamentale chiarire nel dibattito pubblico che abbiamo bisogno di una sinistra radicale, centrata nella classe lavoratrice, contrapposta al centrosinistra e al Movimento 5 Stelle (che spera proprio in Schlein per agganciarsi al PD e non scomparire alla prossima crisi).


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Neoriformismo e centrosinistra: il contesto europeo

Nel corso dell’ultimo decennio, abbiamo assistito al sorgere di numerose esperienze neoriformiste in Europa. Si tratta di progetti politici che affondano le proprie radici nella crescente concentrazione di ricchezza in poche mani e nella polarizzazione sociale: fenomeni che dalla crisi mondiale del 2008 hanno fatto un salto di qualità anche in Europa. Il rimedio a questi mali è indicato nella conquista del governo, spesso in coabitazione con altre forze del centrosinistra, e nel successivo varo di leggi a favore delle fasce considerate più deboli. Le forze neoriformiste si differenziano rispetto al riformismo ‘classico’ per un radicamento debole o del tutto assente nei ranghi della classe lavoratrice. Il loro punto di riferimento è quindi un generico ‘popolo’ (della sinistra) – nei fatti un’ipotetica alleanza tra classi popolari e settori di classi medie ‘progressiste’. Il collante ideologico è fornito da una batteria di valori che legano insieme la tradizione socialista e quella cattolica: giustizia sociale, solidarietà e inclusione. 

La maggior parte di queste esperienze neoriformiste è sorta al di fuori e in opposizione ai partiti del centrosinistra che, gradualmente epurati da qualsiasi elemento di progressismo sociale, sono diventati in tutta Europa i principali punti di riferimento di frazioni importanti della classe capitalista, spesso dei settori dominanti del capitale finanziario imperialista. Vi sono state però delle eccezioni. La più importante è certamente quella della conquista da parte di Jeremy Corbyn della segreteria del Labour Party britannico. Proprio dove il social-liberismo di Tony Blair aveva per primo svuotato dall’interno uno dei partiti riformisti europei per antonomasia, il neoriformismo di Corbyn se lo era ripreso con un processo analogo, anche se ovviamente a parti invertite.

Quanto successo nel contesto britannico, anche se solamente per un breve periodo, dimostra come il neoriformismo possa anche prendere piede all’interno di strutture quasi completamente sclerotizzate che mantengono comunque un orientamento che è formalmente “di sinistra”. Vogliamo essere chiari qui: non si tratta di pesare quanto il Labour pre-Corbyn o il PD pre-Schlein fossero di sinistra. Anche perché la risposta la conosciamo noi così come la conosce chi legge. Il punto è che la necessità della classe dominante e del suo apparato ideologico di presentare qualcosa o qualcuno, che si trovi in apparente alternativa alla destra che governa o aspira a farlo, come di sinistra connatura necessariamente quel qualcosa come la sinistra. Nei fatti, tale sinistra è la negazione di qualsiasi cosa possa voler dire tale parola. Ma proprio questo cortocircuito – un partito formalmente di sinistra che si comporta come la destra – apre anche le porte a potenziali tentativi interni di riposizionare quel partito, soprattutto di fronte a recenti fallimenti elettorali e all’incapacità del neoriformismo di sgorgare altrove.

Schlein a capo del PD: svolta neoriformista o riarticolazione del social-liberismo?

Tutto questo ci conduce alla domanda centrale di questo dibattito: la vittoria di Elly Schlein è un nuovo fenomeno neoriformista, oppure rappresenta una semplice riarticolazione interna al campo social-liberale? A nostro avviso, ciò che ci aspetta è la seconda opzione. La nuova segretaria non trasforma quindi il Partito Democratico in un soggetto neoriformista, ma lo riposiziona con maggior precisione politica all’interno del campo social-liberale, guardandosi bene dall’ipotizzare, purghe del gruppo dirigente, rotture e un riassetto anche sociale del partito. Non modifica il blocco sociale che rappresenta – il grande capitale – ma fornisce potenzialmente a questo blocco una base elettorale più ampia, riproponendo alcuni temi di sinistra – dal salario minimo a servizi pubblici più inclusivi e meglio funzionanti, da una maggiore enfasi sulle tematiche ambientali ad un allargamento dei diritti civili – che non sono politiche formalmente avversate dal grande capitale. In altre parole, sembra fornire una risposta più convincente rispetto a quella avanzata da Stefano Bonaccini al classico dilemma della classe capitalista all’interno delle democrazie borghesi: governare per i pochi con il consenso (attivo o passivo, che sia) dei molti.

Vi sono numerose ragioni che lasciano intendere come Elly Schlein non abbia alcuna intenzione, tanto meno possibilità, di trasformare il Partito Democratico in una forza neoriformista. In queste ore, quando molti a sinistra del PD sono preoccupati che un leggero riposizionamento del principale partito del centrosinistra possa togliere loro spazio, vi è un’accanita ricerca nella carriera politica di Schlein di tutti quegli elementi che ne sottolineano la complementarietà piuttosto che la diversità rispetto a Bonaccini. Sono ormai noti e non li ripetiamo qua: facciamo solo notare che non c’è stato il minimo conflitto né spostamento a sinistra del PD in Emilia-Romagna, nonostante il buon risultato elettorale della lista “Emilia-Romagna Coraggiosa” della Schlein, e il suo ruolo di vice-presidente, cioè di braccio destro dello stesso Bonaccini. Non ci sembra essere questo, tuttavia, il motivo principale. Dopo tutto, anche sulla parabola politica di Corbyn ci sarebbe abbastanza da obiettare: sopravvivere per decenni in un partito che porta avanti le peggiori politiche neoliberiste e invade con prove false uno Stato sovrano e indipendente (per quanto si possa votare contro le singole misure) rappresenta, a nostro giudizio, più un elemento di opportunismo che di coerenza politica. Esistono, è vero, differenze profonde tra le due figure. E come Corbyn a un primo impatto trasuda socialismo, Schlein puzza di borghese: d’altronde è letteralmente una borghese, una ricca, con una storia personale ben diversa da un’altra figura a cui viene paragonata, Alexandria Ocasio-Cortez, la paladina dell’ala sinistra del PD americano, proveniente da una famiglia della classe lavoratrice newyorchese. Eppure ridurre tutto alla singola figura sarebbe scorretto. Le ragioni per ritenere Schlein un fattore di continuità ci sembrano altre, principalmente due.

Elly Schlein non è credibile come leader di un movimento à la Corbyn

La vittoria di Corbyn giungeva contro tutto l’apparato, quella di Schlein con il sostegno di una parte sostanziale di questo. E cosa ancor più significativa di quell’apparato che aveva sostenuto in precedenza tutte le politiche pro-capite – dalla cancellazione dell’articolo 18 all’alternanza scuola-lavoro, tanto per citarne un paio – che adesso Schlein vorrebbe, a parole, combattere. La sua vittoria rappresenta quindi un elemento di rigenerazione gattopardesca e non di rottura con quanto il Partito Democratico è stato fino adesso. 

Elemento ancora più importante, Corbyn è stato un incidente della storia (la sua candidatura era stata suggerita come copertura a sinistra in una competizione che doveva essere scontata) all’interno dello sviluppo di un movimento reale dal basso. Quest’ultimo ha preso principalmente la forma di Momentum, una campagna di massa per creare un cambiamento in senso progressista e socialisteggiante all’interno del Labour. Schlein è all’opposto elemento cosciente calato dall’alto per rigenerare un soggetto moribondo e prevenire che qualcosa si possa muovere nella società. Nello specifico, la sua ascesa elettorale in Emilia-Romagna si è appoggiata al movimento delle Sardine, pompato ad arte dal centrosinistra per scongiurare il suo tracollo nella sua regione vitale: un movimento che, per nulla casualmente, è morto non appena le urne hanno decretato la vittoria del PD. 

La candidatura di Corbyn e il suo successo sono giunti come il prodotto di una campagna che ha portato le fila del Labour ad ingrossarsi da 180 mila militanti a circa 600 mila – quando il PD registra circa 450 mila iscritti, non sta vivendo particolari campagne di crescita e con le primarie attira solo un votante esterno per ogni militante, o poco più. Molti si ricorderanno gli stadi pieni e anche le discoteche – e sì, perché quando qualcosa si muove nella società prende tutte le forme, anche quelle più impensabili – che ballavano e cantavano sul ritornello intonato a favore di Jeremy Corbyn. Il successo di Schlein coincide con il nadir della partecipazione nelle primarie del Partito Democratico. I votanti erano stati 3.554.169 nel 2007; 3.102.709 nel 2009; 3.110.210 nel 2012; 2.814.881 nel 2013 (con limite d’età portato a 16 anni); 1.839.000 nel 2017; e 1.582.083 nel 2019. Come già detto in apertura, i votanti sono stati circa 1 milione e 100 mila la scorsa domenica. Stesso discorso vale per la partecipazione degli iscritti. In altri termini, Corbyn era il prodotto involontario di una mobilitazione dal basso che si incanalava in senso neoriformista, Schlein è l’effetto cosciente di una rigenerazione dall’alto in assenza di partecipazione dal basso. Il primo doveva virare a sinistra per giustificare la sua leadership, la seconda muoverà a destra, soprattutto quando sarà chiamata ad avere incarichi di governo, per non essere disarcionata. E questo secondo fattore non creerà nessuna frizione proprio perché Schlein non è in alcun modo il prodotto di qualcosa che si muove nella società.

La prospettiva a sinistra dopo la vittoria di Schlein

La vittoria di Elly Schlein toglie forse spazio a quelle forze che si candidavano ad essere l’ala sinistra della coalizione a guida Pd – Sinistra Italiana su tutte – oppure a quelle che aspiravano (coscientemente o meno, poco importa) a dar vita ad un progetto neoriformista – Potere al Popolo. Questo non perché il carattere social-liberale del PD venga meno, ma perché nella percezione generale, anche per la campagna di demonizzazione che stanno facendo i media di destra, vi è un ritorno ad un PD come forza genuinamente di sinistra. Ancora una volta, non sono i fatti a contare, ma la percezione. E la percezione sarà ingigantita da quanto la destra del PD farà – restare con apparenti mal di pancia oppure passare con Renzi e Calenda – e da quanto la destra dirà. L’uscita immediata di Beppe Fioroni dal partito è un’anticipazione di quello che può succedere su un’altra scala.

Per le forze che si candidano a qualcosa di più della mera amministrazione dell’esistente non cambia però molto. La leadership di Schlein reintroduce un vocabolario più progressista, ma lo cala dall’alto e lo sovrappone con una figura che rappresenta il ceto piccolo-borghese intellettuale per eccellenza. Tanto apre, tanto chiude. Nello sviluppo di una sinistra politica di opposizione che contesti il sistema capitalista in quanto tale, il fattore Schlein non gioca alcun ruolo positivo.        

Quanto successo domenica è però anche un segnale interessante e che giunge abbastanza inaspettato. Sarebbe sciocco non registrarlo. Si aggiunge a quello del 25 settembre quando dopo la mancata alleanza con il Partito Democratico, il Movimento 5 Stelle (M5S) era riuscito, dopo una legislatura nella quale aveva fatto l’esatto contrario, ad auto-rappresentarsi come forza di giustizia sociale. E aveva intercettato una parte del voto delle classi popolari e del ‘popolo della sinistra’, soprattutto in alcune regioni. La scorsa domenica, pur in un contesto di generale apatia, Schlein ha fatto lo stesso con una parte dei ceti urbani progressisti. La sua vittoria non sposta il baricentro della politica italiana e non apre contraddizioni all’interno o all’esterno del PD. Ma come la ‘miracolosa’ rigenerazione del M5S, questo rappresenta un segnale in controtendenza rispetto al dominio pressoché assoluto del liberismo nel campo del centrosinistra per due decenni. Questo fastidio verso lo strapotere del mercato – perché non si tratta più che di un fastidio – prende oggi la forma più spuria e maleodorante che possa esistere: Elly Schlein. Ma non poteva essere diversamente, date le circostanze. Non gioiamo e non lo pesiamo sulla bilancia di quanto il fatto in sé sia di sinistra. Lo registriamo, però, perché alcuni anni fa non sarebbe successo.

Gianni Del Panta, Giacomo Turci

Gianni Del Panta, studioso di scienze politiche, vive a Firenze ed è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione: da Piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.