Il curioso caso dello “sciopero al contrario” di Aboubakar Soumahoro nasconde dietro a un velo di umanitarismo mal-corrisposto, dinamiche contraddittorie e potenzialmente pericolose per tutto il movimento operaio e bracciantile della penisola.


Era luglio di quest’anno quando, Aboubakar Soumahoro, militante dell’USB, dopo poco tempo dalla manifestazione a Roma degli Stati Generali Popolari, fuoriusciva dal sindacato di base e annunciava di voler continuare a “meditare camminando per la stessa nobile e alta causa di difendere le lavoratrici, i lavoratori e li invisibili schiacciati dalla precarietà e dalla vulnerabilità”.

Il primo sciopero da sindacalista “non affiliato”, leader del movimento dei braccianti delle campagne, sarebbe dovuto essere questo 12 novembre, il 27 ottobre lo stesso Aboubakar annunciava sul proprio account twitter che “il 12 novembre noi braccianti porteremo a Roma gli stivali imbrattati di fango. Le nostre braccia sono considerate essenziali poiché funzionali alla filiera agroalimentare e ad arricchire la GDO. Siamo esseri umani e le nostre vite contano. ” Eppure, l’11 novembre, appena un giorno prima dello sciopero, il dietrofront, sempre diffuso attraverso l’account twitter in cui si invita i braccianti ad uno “sciopero al rovescio”, ovvero una giornata di lavoro per stare accanto al “popolo” in questo momento “drammatico”, e ancora un appello a favore della “popolazione” in difficoltà.

L’idea dello sciopero al rovescio e, se si ascolta con attenzione, tutto il discorso di Aboubakar esprime una posizione a-classista, una posizione in cui i braccianti, non scioperando, aiutano un generico popolo tutto schiacciato dalle difficoltà della pandemia. A prescindere dal tono perennemente volto a richiedere attenzioni e carità da parte dello Stato, questa visione è totalmente distaccata dalla realtà; non c’è nessun popolo che sta attraversando un momento drammatico, esistono migliaia, centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici in difficoltà e un pugno di industriali, banchieri ed agrari (legati o meno alla malavita organizzata) che se la passano più che bene, in molti casi che hanno moltiplicato i propri profitti, si pensi alla logistica, per fare un  esempio.

Nei fatti la proposta dello sciopero senza scioperare è una proposta che va contro i diritti dei lavoratori, contro i loro diretti interessi. Anche volendo ammettere che il “popolo” sia in difficoltà e questo c’entri qualcosa con i lavoratori dei campi, come è possibile non si veda l’evidenza: raccogliere più cibo in un giorno in una società che butta e distrugge scorte alimentari invendute, che si poggia sul lavoro stagionale e irregolare, in cui i giganti della distribuzione fatturano miliardi di euro l’anno, non aiuta di certo chi non ha le risorse ed i soldi per comprarselo quello stesso cibo e, in definitiva, non fa altro che arricchire le tasche dei padroni della terra da un lato e spegne le possibilità di una lotta vera contro il caporalato (nella sua dimensione reale, e non nella mitologia di alcuni sindacati, curiosamente tentennanti nel confronto combattivo con forme considerabili più “legali” di organizzazione della forza lavoro e di produzione), o contro lo sfruttamento, per l’acquisizione di diritti a cui i braccianti immigrati dovrebbero accedere senza nessun problema e che gli vengono negati, come quello dei documenti, di abitazioni e di un salario degno del lavoro fondamentale che svolgono.

Tutte queste rivendicazioni non sono campate in aria: i migranti delle zone dove Aboubakar ha cominciato la sua attività sindacale organizzano da anni azioni volte a chiedere diritti “a 360 gradi”, in maniera solidale e realmente combattiva. Stiamo parlando di realtà che esprimono necessità impellenti, coincidenti con la propria sopravvivenza, e che non hanno esitato, forti dell’autorganizzazione che sono stati in grado di esprimere, a bloccare la produzione, a scendere in piazza e a occupare centri importanti del business locale e nazionale della filiera agroalimentare, come nel caso del blocco del porto di Gioia Tauro dello scorso anno. Sono rivendicazioni, poi, che riflettono bisogni comuni a intere categorie di lavoratori, regolarizzati e precari: l’ingigantimento della forza lavoro migrante degli ultimi decenni non ha davvero coinciso con un percorso serio sulla documentazione, e come il tema dei documenti, quello dell’accesso alla sanità (specie in un momento di crisi pandemica), e quello dei salari, sono problematiche sentite in tutto il paese da decine di migliaia di lavoratori che, in caso di eventuale lockdown (comunque esso venga venduto), resteranno al lavoro, disponibili per le perverse dinamiche di sfruttamento cui abbiamo già assistito questo inverno passato. Dai magazzini della logistica, ai campi e le fabbriche agroindustriali, questa condizione è destinata a restare inalterata nei mesi che verranno.

Alla luce di tutto ciò, tale giornata, non sarebbe forse stata utilizzata meglio, invece, scioperando, costruendo percorsi di solidarietà fra i lavoratori dei campi e i lavoratori di tutta la filiera della GDO, tutti schiacciati da questi giganti che lo stesso Aboubakar indica come i primi sfruttatori? Non è forse l’autorganizzazione di quegli strati di lavoratori ipersfruttati e l’unità di questi percorsi con tutti gli altri percorsi di lotta portati avanti da lavoratori, lavoratrici e gioventù di questo paese che possono mettere in difficoltà le multinazionali della grande distribuzione organizzata?

 

CM