Il bilancio di un anno scarso di crisi pandemica in Italia è disastroso: un sistema sanitario collassato nella prima ondata e che non è stato poi strutturalmente rinforzato, oltre 50.000 morti, una società segregata e militarizzata seguendo una ricetta confindustriale di gestione della crisi. Alla cura medievale del governo va contrapposta un programma alternativo da parte di coloro che ancora una volta pagano la (doppia) crisi.
Sin dai primi contagi, la pandemia Covid-19 ha messo in chiaro tutte le ombre che si attanagliavano nella gestione della sanità pubblica in Italia. “Messo in chiaro” poiché, fino ad oggi, la sistematicità dell’impoverimento della sanità italiana era passata sottobanco: a nulla sono bastate le migliaia di migliaia di denunce pre-covid da parte del poco personale sanitario; le accuse sull’inadeguatezza delle strutture e delle cure ricevute da parte dei pazienti sono rimaste lettera morta; inutili sono state le toppe che i programmi di questo o quel governo degli ultimi trent’anni hanno provato a piazzare sulle falle che essi stessi compievano sistematicamente per supportare le varie manovre finanziarie ed i vari capricci della borghesia italiana – dalla regionalizzazione al supporto verso la sanità privata ed ibrida, dalla gestione commissariale centrale allo strapotere interno dei burocrati di partito.
Il COVID-19 e le morti mietute hanno posto tutto sotto i riflettori: una sanità decrepita, impoverita progressivamente, senza arte né parte, si è fatta carico del peso di una pandemia mondiale catastrofica.
Il personale sanitario, già in larga parte prossimo al pensionamento, le barriere imposte dai numeri chiusi alle università e la necessità di continuare a sfruttare i lavoratori neo-assunti con paghe base miserabili e contratti pecari a tempo determinato hanno accompagnato il boccone amaro servito alle masse povere dal capitalismo italiano.
Un dipinto drammatico sarebbe sicuramente all’altezza di rappresentare tutto ciò che negli anni ha subito e continua a subire quella era la migliore delle conquiste che la classe operaia era stata in grado di ottenere nel 1968: una sanità gestita (un tempo) dai lavoratori, pubblica e gratuita per tutti e tutte, in grado di rispondere a tutte le esigenze legate alla salute collettiva, radicata nel territorio, multidisciplinare etc…, questo era il Sistema Sanitario Nazionale (SSN).
La prima ondata ha smascherato la sanità italiana
Abbiamo già visto quanto sia stato fatto negli ultimi trent’anni per la sanità.
Una sanità, quella italiana, che è, dal primo contagio accertato, già partita svantaggiata: le terapie intensive erano poche persino rispetto agli standard che la Comunità Europea aveva chiesto dal 2006 in poi: parliamo di 15 anni in cui nessun direttore amministrativo, nessun presidente di regione, nessun commissario, nessun governo si è mai posto il problema di adeguare il numero di posti letto delle terapie intensive rispetto alla popolazione. Al 31 dicembre 2019 i posti letto totali in terapia intensiva (ossia quelli reali sommati a quelli “attivabili nell’immediato”) erano 5179 su tutto il territorio nazionale.
Facendoci due conti, con una popolazione nazionale di 60.244.639 abitanti (dati istat [1]), abbiamo 8,59 posti totali in T.I. ogni 100.000 abitanti. Con riconversioni, attivazioni urgenti di posti letto recuperati dalle camere operatorie etc…, si è poi arrivati a coprire 2,6 unità in T.I. ogni 1.000 abitanti. Un dato, questo, che se rapportato al resto d’Europa fa rabbrividire: la Francia già nel 2018 contava 3,1 posti letto ogni 1.000 abitanti, la Germania, invece, ben 6 posti letto ogni 1.000 abitanti – il dato più elevato d’Europa[2].
L’inadeguatezza e l’impreparazione del SSN e del Governo alla
prima ondata epidemica – denominata Fase 1 – hanno prodotto un risultato disastroso: 35mila vittime, prevalentemente parte della popolazione più a rischio, potevano essere evitate. Così come esposto anche dalla magistratura (con tribunali tutt’ora all’opera), la gestione della prima ondata del Sars-CoV-2 è stata criminale. [3]
I Dipartimenti di Emergenza ed Accettazione (DEA, ossia i ponto soccorso degli ospedali), ad eccezione di due strutture specializzate a livello infettivologico – ospedali Cotugno di Napoli e Spallanzani di Roma – non hanno adottato una differenziazione dei percorsi, ciò significa che un sospetto o confermato paziente Covid-19 positivo sostava nelle stesse sale con altri pazienti negativi, senza essere posto quantomeno in isolamento. [4]
In aggiunta a ciò, nelle regioni italiane “avanzate”, Lombardia, Veneto e Piemonte, le strutture sanitarie di degenza e riabilitazione (RSA, case di cura, etc…), ossia tutte strutture che ospitavano, in maggioranza, pazienti a rischio, hanno subìto ricoveri di pazienti Covid-19 positivi, ossia si è volontariamente portato il virus nelle strutture, infettandone gli ospiti e producendo l’ecatombe delle RSA Covid nel nord Italia. [5]
In tutto ciò, due fattori politici hanno contribuito a far sì che la prima ondata sia stata così disastrosa nel bel paese: da un lato, l’autonomia regionale in materia sanitaria, dove i sistemi ibridi “pubblico-privato” del Nord ricevevano sempre più finanziamenti rispetto alle prestazioni erogate (eppure senza produrre alcun effetto “d’eccellenza”, e lo abbiamo notato tutti) mente il Sud veniva continuativamente “minato”, venendo erogate poche prestazioni -indice di un problema sistemico della sanità -, i finanziamenti andavano riducendosi di mese in mese, con alcuni casi eclatanti e di risalto nazionale dove per ricevere prestazioni ci si doveva recare in regioni confinanti; dall’altro, e su questo non vi è possibilità di sindacare, le azioni intraprese dal governo sono da sempre state improntate da un principio di conservazione primaria dell’economia nazionale, anziché di garanzia della salute collettiva.
Se poi a tutto ciò sommiamo che i tamponi sono stati fatti soltanto a pazienti sintomatici e paucisintomatici (ossia con sintomi lievi dell’infezione Covid-19), l’esclusione dallo screening per gli asintomatici, considerati come pazienti da cui il virus non potesse diffondersi, ha concesso un’ulteriore rampa di lancio per i contagi.
Garantire la salute o i profitti? Un link tra il lockdown e la “Fase 2”
Le azioni del governo sono state sempre improntate sul filone della garanzia dei profitti a scapito dei contagi e per confermarlo basta analizzare il “lockdown all’italiana”: una chiusura che nei fatti ha limitato soltanto la vendita dei beni “non essenziali” (non essenziali secondo le scelte arbitrarie del governo, su indicazioni della Confindustria, non quelle realmente non essenziali, ossia più della metà delle merci prodotte pre-covid).
L’obbligo di “restare a casa” è valso soltanto per quella fetta di popolazione non più o non ancora impiegata nell’ingranaggio dello sfruttamento capitalistico: giovani disoccupati, precari in settori non strategici per il capitalismo italiano, pensionati, studenti etc…
Gli operai e le operaie di fabbrica, i lavoratori della logistica, del settore agroalimentare, gli impiegati statali, in sostanza una buona fetta della popolazione è stata ugualmente esonerata dalla quarantena. Questi dovevano e devono lavorare. Ad ogni condizione. Persino col Covid. Persino da positivi.
Denunce su denunce sono state fatte, ma nelle fabbriche “essenziali” la produzione doveva continuare, non si poteva perdere tempo e profitti se qualche operaio fosse risultato positivo, tutti gli altri dovevano lavorare. La quarantena preventiva non è mai stata applicata per chi entrasse in contatto con il virus e i tamponi sono arrivati nelle fabbriche di tutt’Italia troppo tardi. Tutt’oggi la maggior parte dei lavoratori effettua lo screening soltanto con il pressoché inutile test sierologico capillare: tanto vale decidere chi va in quarantena con il lancio di una monetina.
In tutto ciò, le donne obbligate al lavoro di cura domestico, dalla fase 1 fino ad oggi hanno incessantemente potato avanti ciò che è stato loro obbligato dalla società. Uno stop al patriarcato, all’obbligo di lavoro di cura domestico non è mai stato posto sul tavolo della politica borghese, anzi.
Inoltre, così come fatto recentemente dalla regione Lombardia (ma non solo), delle raccomandazioni per il personale sanitario che, comunque, erano già state applicate sin dalla prima ondata a macchia di leopardo su tutto il territorio nazionale, in tal senso sospendevano ancor più l’utilizzo della quarantena preventiva: se una persona qualunque dovesse entrare in contatto con casi sintomatici, poi sottoposti a tampone con esito positivo, questa ha l’obbligo di isolarsi in quarantena preventiva, a meno che non si tratti di personale sanitario. La raccomandazione, infatti, dice che il personale sanitario, a meno di sintomi evidenti e tampone positivo, deve continuare a lavorare per poi adempiere al regime di isolamento nel tempo extra-lavorativo.[6]
Insomma, del “chiudiamo tutto”, del “lockdown” in Italia c’è stato ben poco: in tal senso possiamo benissimo palare di “lockdown all’italiana”, ossia di una misura monca, inutilmente repressiva e soprattutto deresponsabilizzante per il governo e per le regioni…
Con l’idea generalizzata di caccia all’untore, alla persona che singolarmente “disobbediva” alle misure monche del governo, la responsabilità della strage pandemica era totalmente celata al pubblico, troppo impegnato a seguire i vari runner e le varie feste di laurea.
E poi, che le intenzioni fossero queste è stato fin troppo chiaro quando i contagi si sono attenuati, certamente grazie alla responsabilizzazione obbligatoria ma soprattutto spontanea dei singoli individui nel proteggere le persone più a rischio e la collettività: non è stato grazie all’(in)efficace lockdown che il virus ha smesso di circolare, si è trattato semplicemente di autoconservazione della specie. Si è evitato di incontrare parenti, amici, anziani, di esporsi al rischio per poi esporre altre persone: si è pensato alla tutela della salute collettiva, certamente non grazie ai vari De Luca ed al proibizionismo del governo, anche perché il loro “andrà tutto bene” poco combaciava con le decine di migliaia di morti e con i contagi in crescita proprio grazie al loro operato ed alla loro negligenza.
Le intenzioni del governo erano quelle di riaprire tutto e sùbito, alla prima occasione utile per garantire i profitti dell’estate, non certamente per effettuare uno screening di massa e garantire la salute collettiva.
Così, l’avvento della Fase 2 ha rappresentato la possibilità di tirar su i profitti derivanti dalla stagione estiva, di riaprire al turismo, eccetera… insomma di permettere ad un virus di continuare a diffondersi per poi riesplodere nell’ottobre, senza farsi troppe domande sul significato del calo del contagio, e senza pensare a come evitare davvero una seconda ondata.
Un ottobre rosso… giallo ed arancione: Fase 3, la seconda ondata della pandemia
Partendo da fine agosto, pesino l’OMS ha dovuto correggere il tiro: gli asintomatici trasmettono il virus e gli sforzi fatti per ricostruire i link epidemiologici, ossia tutti i contatti che un positivo sintomatico avesse avuto con altri individui, erano stati, sostanzialmente, vani.
Eppure tutto ciò era già risaputo, rientrando a pieno titolo nella massa di denunce fatte dal personale sanitario: già a febbraio era inspiegabile il primo contagio autoctono, ossia non c’era un link epidemiologico sintomatico che potesse spiegare come il virus fosse entrato in Italia.
Ma questa ammissione di colpa è arrivata troppo tardi. I contagi risalivano, l’indice di crescita dei posti occupati per le terapie intensive mostrava una curva di crescita abbastanza continuativa, i decessi ritornavano a crescere nell’ordine delle centinaia a settimana: insomma, il virus era circolato molto in Italia, già durante la prima ondata, più di quanto affermasse il Comitato Tecnico Scientifico del Governo, l’equipe scientifica che si è prostrata ai diktat del capitalismo italiano, che ne ha assecondato la schizofrenia e le scelte anti-conservative rispetto alla salute collettiva.
Bisognava quindi porre una prima toppa: l’innalzamento del numero dei tamponi giornalieri eseguiti ne è indicativo. Si è passati dal picco massimo di 80mila tamponi della prima ondata ad un picco massimo raggiunto di circa 255mila, da una positività del 2-4% ad una del 14/16%, dal picco di quasi 1.000 morti in un giorno in marzo agli 850 del 24 novembre.
Ma alla prima toppa seguiva necessariamente una seconda. L’incremento delle postazioni di terapia intensiva non c’è stato ovunque: alcune regioni hanno speculato, infatti, sia sulle gare d’appalto che sul costo di queste ultime -casi eclatanti a Milano e Napoli -, altre hanno preferito trincerarsi dietro alla denuncia di carenza di organico mentre in tutta Italia l’incremento che le regioni dovevano rispettare – lo spettro dell’autonomia differenziata è sempre lì – era di 14 posti letto ogni 100.000 abitanti: pochi, ma bastevoli nell’ottica di misure contenitive dei contagi che “abbassano” il numero di contagi giornalieri e lo spalmano nel tempo.
Solo tre regioni hanno rispettato la soglia: Veneto con 16,8 posti letto/100.000 abitanti, Valle D’Aosta 15,9 e Friuli 14,4.
Altre regioni, invece, sfiorano la soglia fissata (14 degenze per 100.000 abitanti), mente le restanti sono totalmente inattrezzate, con incrementi ridicoli, tra cui Campania (7,3), Abruzzo (10), Lombardia (9,8), Marche (8,3), Piemonte (8,4), Trento (9,4), Puglia (9), Umbria (7,9). [7]
Questa “triplice” realtà nazionale sull’incremento delle terapie intensive ha dato, con ogni probabilità del caso, adito al governo per emettere il suo decreto in vigore dal 6 novembre: un’Italia divisa per colori, rosso, arancione e giallo, ricalcanti il numero di terapie intensive presenti e le varie peculiarità/necessità territoriali – dalla densità abitativa alla possibilità di sub-intensive e ricoveri in reparti covid-, con “libertà maggiori” nelle regioni gialle”rispetto alle arancioni, in cui la gestione del virus è in bilico, ed alle rosse dove i contagi ormai imperversano e la gestione è emergenziale.
Già dal primo aggiornamento dei codici regionali, il peggioramento è evidente: alle prime quattro regioni “rosse” – Piemonte, Lombardia, Valle D’Aosta e Calabria – si sono aggiunte Campania, Toscana e la provincia autonoma di Bolzano, mentre dacché la quasi totalità dell’Italia era “gialla”, le sole regioni oggi rimaste sono Lazio, Molise, Veneto, più la provincia autonoma di Trento.
Un andamento, quello dei colori, che ricalca ancora una volta l’inadeguatezza delle scelte governative nonché delle misure messe in campo.
E su tutto ciò, un velo pietoso andrebbe steso proprio sulla Regione Calabria dove la responsabilità della “mancata attuazione e formulazione” del piano di emergenza sanitaria covid dovrebbe ricadere appieno sul governo, essendo la sanità regionale calabrese commissariata ed essendo che il commissario fa capo proprio al governo. Eppure, questo governo continua con il piano di de-responsabilizzazione rispetto alla pandemia. “Andrà tutto bene” dicevano a marzo: nulla è andato bene.
Hanno diviso l’Italia con dei colori, stanno giocando con la pandemia: i morti crescono, siamo oltre le 50mila vittime; i contagi aumentano, ben oltre i limiti considerati per il “chiudiamo qualcosa” di marzo.
Le loro misure sono un continuo fallimento!
Alla classe lavoratrice, alla popolazione povera e oppressa serve una gestione efficace della pandemia a tutela della salute collettiva: l’alternativa è pagare non solo la crisi economica con disoccupazione e fame, ma la crisi pandemica con migliaia e migliaia di altri morti!Recentemente, una ricerca ha dimostrato come ci siano circa 900mila patogeni che potranno fare il famigerato salto di specie per poter contagiare l’umanità, e tutto ciò grazie alla distruzione dell’ecosistema, all’inquinamento, all’intromissione dell’uomo in ambienti un tempo in equilibrio, dove questi patogeni certamente non avrebbero intaccato l’umanità, se un pugno di capitalisti non avesse deciso di intaccare il loro ecosistema. [8]
Bisogna cambiare rotta, intervenire e lottare sulla base di un programma operaio e popolare di uscita dalla crisi pandemica!
Ci vuole un programma classista per lottare contro la cura confindustriale
Abbiamo accertato quanto questa società non sia in grado di gestire la pandemia, di garantire il benessere e la salute collettiva.
Rivendichiamo la necessità di tamponi di massa gratuiti, di una imposta patrimoniale straordinaria del 10% sul 10% più congiuntamente ad un aumento salariale ed alla reintroduzione della scala mobile, come abbiamo già elaborato nel nostro piano di emergenza per garantire la sopravvivenza della popolazione povera e lavoratrice, nonché il funzionamento dei settori essenziali alla salute collettiva – non ai profitti.
Continuano a perdurare le condizioni critiche pre-covid per la sanità in Italia, e dunque non solo la necessità della centralizzazione di tutta la sanità regionalizzata, con esproprio senza indennizzo di quella privata, e di porla sotto al controllo dei lavoratori stessi della sanità, ma anche un concreto piano di assunzioni a tappeto a tempo indeterminato di tutto il personale sanitario attualmente precario, con la cancellazione dei test di ingresso per le facoltà sanitarie.
I contagi sono aumentati e nuovamente la sanità è sotto assedio e con essa la vita di migliaia di migliaia di persone. E questa non è una rivendicazione meramente “umanitaria”. Questa è una rivendicazione di classe! Abbiamo già visto come i capitalisti riescano a farla franca grazie alla possibilità di quarantene dorate, mentre noi siamo abbandonati in una barella di un pronto soccorso poco e male attrezzato, con altri cinquanta pazienti in attesa, con personale sanitario iper-sfruttato, pensando al lavoro che abbiamo perso dopo aver garantito per anni ed anni i soliti profitti a chi oggi si fa curare in cliniche private di lusso per noi inaccessibili!
La nostra vita vale molto più dei loro sporchi profitti!
La salute su cui speculano è la nostra e noi dobbiamo difenderla!
La crisi che hanno generato dovranno pagarla loro!
Michele Sisto
Note
[1] https://www.tuttitalia.it/statistiche/popolazione-andamento-demografico/
[2] https://www.google.it/amp/s/it.euronews.com/amp/2020/03/20/coronavirus-quali-paesi-europei-hanno-piu-posti-in-terapia-intensiva
[3] https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2020/04/24/news/coronavirus-rsa-strae-1.347485
Redattore della Voce delle Lotte, nato a Napoli nel 1996. Laureato in Infermieristica presso l'Università "La Sapienza" di Roma, lavora come infermiere.