La vittoria del Marocco contro la Spagna negli ottavi di finale del campionato mondiale di calcio ha dimostrato ancora una volta che la normalizzazione di alcuni paesi arabi è tutto tranne che accettata dalle rispettive società. Sebbene le borghesie marocchina, sudanese, bahreinita ed emiratina trovino un certo grado di legittimità con l’imperialismo occidentale dopo aver normalizzato le relazioni con lo Stato sionista, la storiella della ‘pace ritrovata’ non trova alcun riscontro se si guarda alle reazioni delle rispettive popolazioni.

Se c’è una cosa che è sempre presente in ogni partita, in ogni tribuna o curva e in ogni strada del Qatar durante i mondiali di calcio, questa è sicuramente la bandiera palestinese: la portano con sé i giocatori tunisini, marocchini, sauditi e qatarioti e la portano con sé i rispettivi tifosi.

I giornalisti israeliani, accorsi in Qatar per commentare la kermesse, sono stati costretti a tagliare le dirette poiché i supporters delle squadre (non solo ‘arabi’) concludevano le interviste con sonori ‘free Palestine’. La più eclatante è stata un’intervista ad un tifoso inglese che con molto zelo ha urlato in faccia al cronista la fatidica frase costringendolo a chiudere il microfono e dare la linea allo studio.

Vi sono stati addirittura casi in cui i tifosi si sono rifiutati di rilasciare interviste per il semplice fatto che la TV era israeliana.

Una risposta di censura e “prevenzione” razzista, quella dei media israeliani, che molto dice sul livello di negazionismo che è in atto dal 1948, data di costituzione dell’entità sionista.

Già in un precedente articolo avevamo sottolineato come questa edizione dei mondiali sia centrale il fattore ‘geopolitico’ e le relazioni tra Stati (non proprio una novità: basti pensare ad Argentina 1978). La presenza della bandiera palestinese, in questo caso, ci dice molto, soprattutto se a sventolarla sono i tifosi e i giocatori della nazionale del Marocco.

Infatti, la monarchia nordafricana è stata uno dei paesi, insieme a Bahrein, Sudan ed Emirati Arabi, che negli ultimi anni, a seguito dei famigerati trattati noti come “Accordi di Abramo”, ha normalizzato le sue relazioni con lo Stato sionista.

Una normalizzazione che di fatto non ha tenuto conto, come sempre, dei palestinesi e che si è rivelata come un’opportunità per i singoli paesi, per Israele e per l’imperialismo occidentale: una ghiotta occasione per far fiorire i propri interessi economici, politici e strategici.

Restando all’interno del quadrante regionale mediorientale, i singoli paesi che hanno normalizzato le proprie relazioni con Israele hanno tutti avuto un proprio tornaconto che si è tradotto non solo nel rafforzamento delle relazioni economiche, ma anche per rafforzare una propria posizione strategica in questioni regionali e interne ai singoli paesi.

Vediamo un po’ più in dettaglio le implicazioni di questo processo di normalizzazione.

Il Marocco, al momento della firma, è stato assicurato dagli USA riguardo al loro pieno sostegno alla decennale disputa sul Sahara Occidentale.

Infatti, nel dicembre del 2020 Trump aveva di fatto riconosciuto la sovranità del Marocco sul Sahara Occidentale e aveva espresso la volontà di aprire un consolato americano a Dakhla (poi non se ne fece nulla) come segno di mantenimento della promessa, e per convincere la monarchia a normalizzare i rapporti con lo Stato sionista.

Dal momento che il Marocco ha firmato gli Accordi di Abramo, una maggior cooperazione si è aperta tra i due paesi. I media occidentali hanno salutato questa mossa con un giubilo che neanche la stretta di mano tra Arafat e Rabin aveva destato. La riapertura dei voli diretti tra i due paesi e la spinta di maggiori opportunità di cooperazione economica hanno fatto il resto.

Ma non è tutto: i legami con Israele per gli Stati arabi non significano soltanto vantaggi economici. Si tratta soprattutto di importare tecnologia di sorveglianza da uno Stato che ha reso la vita dei palestinesi un vero e proprio ‘Grande Fratello’. Ne è la dimostrazione l’importazione di sistemi tecnologici di controllo dei dispositivi elettronici, come Pegasus, che già in Europa aveva destato diverse polemiche dopo che diversi ministri francesi erano stati spiati (si dice proprio dal governo marocchino) tramite questo stesso sistema.

Il Marocco utilizza queste tecnologie per reprimere l’opposizione interna e per tenere sotto controllo ogni minimo movimento sospetto anche all’interno del Makhzen (ovvero lo stretto circolo di uomini attorno al potere).

Non è un caso che diversi attivisti siano stati prima intercettati e poi arrestati proprio grazie a questa tecnologia. I più bersagliati, come riporta Amnesty International, sono proprio gli attivisti della causa Sahrawi.

In questo quadro, il Sudan non fa eccezione, seppur con differenze rispetto al Marocco, soprattutto in termini di ‘stabilità’ interna. Infatti, proprio per accaparrarsi la legittimità internazionale di cui aveva bisogno, all’indomani della rivoluzione popolare del 2019, l’allora governo golpista sudanese a guida militare, aveva normalizzato le relazioni con Israele in cambio di supporto al potere costituito. Questa mossa, al di là della valenza politica, ha di fatto anche un valore storico. Khartoum, capitale del Sudan, era stata la sede del summit dei ‘Tre No’ arabi all’indomani della guerra del ‘67 (no alla pace con Israele; no al riconoscimento di Israele; no ai negoziati con Israele).

Oggi, la normalizzazione è stata un’operazione che puntava a rafforzare il governo militare e ristabilire, dopo anni di crisi, intense relazioni e finanziamenti da parte degli USA all’esercito sudanese. Infatti, se negli anni ‘70 l’esercito del Sudan rappresentava un vero e proprio cane da guardia a servizio dell’imperialismo a stelle e strisce, l’epoca di Bashir a metà degli anni ‘80 e la successiva guerra al terrore di Bush avevano spinto il paese ad essere isolato e inscritto nella lista degli Stati canaglia sponsor del terrorismo internazionale.

La rivolta nel 2019 e la presa del potere da parte dei militari hanno portato a una revisione dei rapporti con Israele, in cui la ‘clausola della normalizzazione’ sembra essere stata determinante.

Dal momento in cui il Sudan ha firmato gli accordi, ingenti finanziamenti sono pervenuti nelle casse dell’esercito sudanese da parte degli Stati Uniti e d’Israele stesso. Addestramenti, mezzi militari e tecnologia militare, anche in questo caso, la fanno da padrone.

Discorso diverso, invece, se si analizza il disgelo con gli Stati del Golfo.

Bahrein ed Emirati di fatto rappresentano un’opportunità per Israele all’interno della regione, sia sotto il punto di vista economico-commerciale sia per quanto riguarda la loro ostilità verso l’Iran e la Fratellanza Musulmana.

La normalizzazione è in prima istanza un’opportunità per gli investimenti all’interno del paese, soprattutto in campo energetico per Israele, e in termini di investimenti e infrastrutture per i due paesi del Golfo.

Inoltre, sembrano trovare un certo grado di accordo anche le strategie dei tre paesi in termini politici all’interno della regione, soprattutto in funzione anti-Iran e contro i movimenti islamisti legati alla Fratellanza Musulmana (FM).

Non è un caso, per esempio, che per il Bahrain l’Iran rappresenti, già all’indomani della rivoluzione del 1979, una vera e propria minaccia per la stabilità interna e al potere sunnita per via della folta presenza della componente sciita all’interno del paese.

Quanto agli Emirati, la loro ostilità nei confronti di gruppi legati alla Fratellanza Musulmana ha di fatto trovato terreno fertile nelle relazioni con lo Stato ebraico che vede in Hamas (ramo palestinese della FM) uno dei principali nemici sul campo.

La normalizzazione con gli Emirati ha segnato un vero e proprio punto di svolta poiché, essendo ricchi di petrolio e giocando un ruolo cardine nelle relazioni all’interno della regione, fungono da apripista per la formalizzazione anche da parte di altri paesi: Arabia Saudita, Egitto, Giordania e Libano.

Sebbene la normalizzazione di questi quattro ultimi paesi sia avvenuta in tempi, modi e motivazioni diverse, ciò che li accomuna è una forte avversione da parte delle rispettive popolazioni rispetto a questa linea politica.

Sia Marocco che Emirati, per far fronte a una sempre maggiore massa critica contro la normalizzazione, hanno varato leggi che di fatto impediscono di esternare critiche contro gli accordi con lo stato ebraico.

Dunque, non è un caso che l’opposizione interna alla decisione di normalizzare le relazioni con l’ex-nemico sionista sia diventata, oltre che una forma di solidarietà con il popolo palestinese, anche un modo per denunciare il forte autoritarismo che caratterizza questi paesi.

Lo è stata in Sudan dove, durante le manifestazioni, represse nel sangue dalla cricca del Generale Burhan, i manifestanti accusavano il potere di essere come lo Stato sionista nei confronti dei palestinesi (l’attacco del 2021 contro Gaza avveniva in contemporanea alle manifestazioni davanti il quartier generale dell’esercito sudanese dove persero la vita diversi manifestanti).

In Egitto, Stato che non ha normalizzato le relazioni con Israele ma che non ha mai nascosto la sua volontà nel farlo, nel 2021 sono stati diversi gli arresti di attivisti che portavano con sé la bandiera palestinese.

Tornando al Qatar, la presenza delle bandiere palestinesi sta a significare che che tale normalizzazione per nulla rappresenta una chiara volontà popolare di dialogare con uno Stato razzista e violento come quello israeliano.

Lo dimostrano i tifosi e i giocatori marocchini i quali, nonostante il loro governo e il loro re dall’alto dei palazzi abbiano deciso di stringere forti relazioni con l’entità sionista, non accettano (e forse mai accetteranno) alcuna relazione con chi occupa, uccide e segrega un’intera popolazione.

 

Mattia Giampaolo

Laureato in storia contemporanea dei paesi arabi alla Sapienza di Roma, nel 2018 ha conseguito il master in Lingue e Culture orientali alla IULM University.
Dottorando alla Sapienza presso il Dipartimento di Scienze Politiche, con una tesi su Gramsci, la rivoluzione passiva e la Primavera Araba.