La crisi storica delle vecchie correnti riformiste europee ha agevolato l’emersione di un nuovo tipo di strategia politica a sinistra, il neoriformismo. Un’opzione che, nella sua logica di fondo e nelle sue esperienze più mature, non costituisce un’alternativa valida per il rilancio della lotta di classe e di quella per la rivoluzione e il socialismo.
Il problema del soggetto politico mancante e la risposta neoriformista
La questione dell’evoluzione in soggetto politico dei dominati nella società capitalista, a partire dalle loro attività e lotte sociali, è tanto antica quanto di imperiosa attualità. Antica, perché si riconnette alla storia millenaria dell’azione e della soggettivazione politica degli sfruttati lungo la storia della società divisa in classi: per fare un solo esempio, Gramsci nei Quaderni (1975: 2284) nota come i coinvolgimenti crescenti dei ceti bassi nei conflitti tra i Comuni “davano la coscienza della loro forza ai popolani e nello stesso tempo ne rinsaldavano le file (cioè funzionarono da eccitanti alla formazione compatta e solidale di gruppo e di partito)”. In questo senso, si può notare con Lenin (1967: 70) che la guerra, se la intendiamo come parte e prosecuzione della politica con altri mezzi, è “espressione concentrata dell’economia”, dunque per nulla estranea alla vita e alla lotta economico-sociale dei salariati, e svariate volte ha giocato un ruolo di radicalizzazione e, appunto, soggettivazione dei subordinati; una dinamica che si potrebbe ripetere ‘in grande stile’ in questo tempo che assomiglia sempre più a quello di crisi, guerre e rivoluzioni (cfr. Albamonte 2021) che sconvolse il mondo un secolo fa. Dunque, dicevamo, una questione antica ma anche attuale, in modo particolare nel nostro paese: mentre i cicli storici passati di evoluzione e trasformazione della classe lavoratrice hanno finito per trovare ciascuno le sue forme di identità e organizzazione politica (nel senso ampio del termine), più o meno antagoniste rispetto alla classe dominante, quello posteriore alla crisi mondiale del 2008 ha sì visto un’evoluzione complessiva della classe lavoratrice in Italia, attraverso una serie di fenomeni (come la sua femminilizzazione, la precarizzazione sistematica delle nuove generazioni, la concentrazione di forza-lavoro immigrata in alcuni settori, eccetera), ma a quest’evoluzione non è corrisposta una nuova espressione politica sistematica; anzi, vi è tuttora una crisi, o quanto meno una stagnazione, delle correnti e delle organizzazioni politiche già esistenti prima di questo ciclo, e che ancora costituiscono la direzione delle istituzioni della classe lavoratrice.
In particolare, il malessere e la polarizzazione sociale, la rabbia verso i partiti di governo e il sistema capitalista sono stati spesso messi a valore, quanto meno in termini elettorali, da una parte dai vecchi partiti della destra riciclatisi con una rinnovata retorica nazionalista “trumpiana”, dall’altra dal populismo trasformista, oggi nella sua forma contiana neo-democristiana di sinistra, del Movimento 5 Stelle.
L’espressione della classe come soggetto sociale e politico distinto, tramite proprie organizzazioni, è ancora limitata nella quantità, nella qualità e nella prospettiva a partire dalla quale ci si mette in gioco. Così, le aree politiche che in qualche modo fanno riferimento alla classe lavoratrice si mischiano facilmente con le espressioni politiche più proprie degli strati medi della società, come è lo stesso M5S, che non a caso ha approfittato dell’ambiguità delle sinistre per sfondare elettoralmente con successo tra la classe lavoratrice, soprattutto in alcune aree del paese, e la popolazione povera. La larga sovrapposizione dei programmi politici di Sinistra Italiana-Verdi, Movimento 5 Stelle e Unione Popolare alle recenti elezioni è una conferma macroscopica di questa dinamica: le liste “di sinistra” presentano programmi e organizzazioni che volutamente non sono organiche alla classe lavoratrice o cercano quanto meno di aprirsi in senso interclassista (come Potere al Popolo e Rifondazione Comunista), senza fare dell’opposizione ai partiti ‘di governo’, cioè filo-borghesi, una questione di principio, trovandosi ad esempio ancora oggi in estrema difficoltà a condurre una lotta politica sistematica da sinistra sia al PD (e alleati) sia al M5S.
Ne consegue che anche i partiti della sinistra sono associati alle idee negative sui partiti in quanto tali, e non c’è nessuna ‘linea rossa’ percepita dalla popolazione tra essi e gli altri partiti. Sono visti sempre, o quasi, come un qualcosa di altro, confinato perlopiù nella sfera dell’amministrazione, del governo, che fa da tramite con entità ormai “celesti” e inapprocciabili come la grande burocrazia europea e internazionale, i colossi bancari, le multinazionali, i giganteschi fondi d’investimento, e tutte quelle articolazioni della classe dominante capitalista che si fa fatica a riconoscere e combattere in quanto tale, in modo sistematico, e non soltanto quando essa stessa mette alle strette questo o quel settore di lavoratori con licenziamenti o attacchi particolarmente intensi.
Dunque, si pone un problema di rottura con questo consenso ideologico conservatore, che va tutto a danno degli sfruttati stessi, da parte del movimento operaio in generale e della sinistra radicale. Diciamo ‘sinistra’ radicale per distinguere quei settori che effettivamente rivendicano di lottare dalla parte della classe lavoratrice e degli oppressi contro il capitalismo, in opposizione alla sinistra borghese (sostanzialmente, il PD) e a quelle sinistre riformiste che hanno una (ormai lontana) origine nei vecchi partiti socialdemocratici o stalinisti, o che, come vedremo, hanno una nuova, diversa genesi.
Proprio la degenerazione o il dissolvimento delle correnti tradizionali, che hanno dominato il panorama della sinistra italiana, europea (e non solo) nel secolo passato, ha allargato lo spazio per tentare questo tipo di rottura. La caduta di un riferimento politico (e burocratico) come l’Unione Sovietica ha tolto molto del peso ideologico dei vecchi apparati dirigenti, e ha dato a maggior ragione lo spunto per lanciare un’alternativa alla strategia evidentemente fallita dell’instaurazione del socialismo in Occidente tramite metodi gradualisti, in particolare quello della vittoria alle elezioni parlamentari, che Gramsci (1917) definì “il programma delle anime pavide che aspettano il socialismo da un decreto regio controfirmato da due ministri”. In questo senso, però, va tenuto conto che il crollo dei vecchi apparati stalinisti ha messo in crisi il movimento operaio nel suo insieme, in parallelo allo sbilanciamento geopolitico enorme a favore degli USA e delle potenze imperialiste occidentali che il venir meno del contrappeso dell’URSS (e dei suoi ‘soci’) generò. L’idea stessa di socialismo, dal punto di vista ristretto del XX secolo, era sostanzialmente fallita, e il collegamento profondo che è stato fatto tra il marxismo, il socialismo col regime burocratizzato dell’URSS ha generato una disillusione diffusa verso la causa della rivoluzione socialista, come se le sue sconfitte del secolo scorso fossero insuperabili.
Il nuovo ciclo internazionale economico, politico e di lotta di classe aperto dalla crisi del 2007-8 ha ulteriormente stimolato la possibile emersione di nuove correnti, di fronte alla difficoltà che incontravano i vecchi schemi neoliberali, l’alternanza tra centrodestra e centrosinistra, e le soluzioni di governo “di estremo centro”. La smentita su più fronti, plateale e dolorosa, delle magnifiche sorti e progressive che la stagione neoliberista aveva promesso, ha incrinato irrimediabilmente l’idea di un capitalismo che possa vivere in eterno, e ha reso le idee e i sentimenti anti-capitalisti molto più ‘ragionevoli’ per una vasta platea di persone, specie tra le nuove generazioni a cui il capitalismo non offre alcun progetto di un mondo migliore dove crescere e invecchiare.
Il crollo, il riciclo o la graduale dissoluzione dei vecchi partiti “socialisti” e “comunisti”, insieme alla rinuncia diffusa, da parte della classe dominante, a cooptare le sinistre quanto meno non-liberali dentro i propri governi, offrivano in effetti un buon potenziale per mettere finalmente in campo un’alternativa anticapitalista alle soluzioni di centrosinistra e di fronte ampio, dove le sinistre fungevano da stampella dei “veri” partiti “progressisti” di potere e di governo.
Il principale sviluppo politico, partitico a sinistra in quest’ultima tappa storica, però, si è avuto in un’altra direzione, attraverso nuove formule politiche che definiamo complessivamente come neoriformismo, poiché rimuovono di fatto dal loro discorso la classe lavoratrice come soggetto politico rivoluzionario, il socialismo come fine politico, e dunque una strategia e una condotta politica coerenti con questo obiettivo. L’utilizzo di questo particolare termine per distinguere una serie di formazioni politiche dai riformismi “tradizionali” è molto utile a non confondere in un groviglio indistinguibile qualsiasi forza “progressista” che proponga strategie di gestione o di riforma del capitalismo, catalogandole tutte semplicemente come “sinistra” o come “riformismo”. La differenza fondamentale, come abbiamo recentemente ricordato nel nostro commento al programma di Unione Popolare, consiste nel rifiuto del neoriformismo di presentarsi come un’espressione politica della classe lavoratrice e del suo movimento, a differenza del vecchio riformismo di origine socialdemocratica o stalinista. Le organizzazioni che hanno caratterizzato maggiormente questa evoluzione in Europa sono Syriza (in Grecia), il Fronte de Gauche, poi France Insoumise, poi NUPES (in Francia), e Podemos in Spagna. In Italia, questo ciclo politico è stato ripreso, con molta minore fortuna, da Potere al Popolo. Ragioneremo di seguito, allargandoci allo spazio europeo, sul carattere di queste organizzazioni e sul perché le loro forme “innovative” non superano i vecchi problemi che hanno portato all’indebolimento devastante delle sinistre e all’abbandono di una politica centrata sulla lotta di classe che si batta apertamente per il socialismo tramite la rivoluzione, e non la mera riforma sociale. In questo quadro, dati i limiti di spazio, non entreremo nel dettaglio della variante italiana, che merita uno scritto a sé (e che sulla quale d’altronde si è già scritto su questa rivista e sulla Voce delle Lotte), ma ci occupiamo della logica generale a cui essa risponde a livello europeo, internazionale. Il piano su cui noi marxisti la contestiamo, al di là del suo carattere più embrionale (e settario) in Italia, è quello della strategia su cui si è fondata e della “grande politica” che ha messo in campo, proprio per non sottovalutarla o giustificarla perché ancora non è “sbocciata” come i suoi omologhi europei.
Lo sviluppo e la logica del neoriformismo
Va chiarito innanzitutto che non c’è una cesura netta, una soluzione di continuità tra le correnti riformiste pre-2008 e quelle che sono venute alla ribalta negli anni successivi, tant’è che spesso le une sono nate in seno alle altre, e che si sono spesso e volentieri alleate, se non fuse in organizzazioni comuni. Rimanendo ai casi europei più importanti, è bene avere un quadro di massima della nascita e dell’ascesa di queste correnti. Ciò che le accomuna, e sul quale non possiamo qui dilungarci, è la capacità di convogliare almeno in parte l’enorme disaffezione verso i vecchi politici e la loro gestione post-crisi del 2008: un fenomeno che è sfociato in mobilitazioni di massa e che, soprattutto nel caso francese, ha alimentato nuovi cicli di lotta di classe e di scontro acceso con le forze repressive dello Stato. Passiamo dunque in rassegna i casi che abbiamo già richiamato:
_in Grecia, una scissione di destra del vecchio partito comunista (il KKE, particolarmente radicale nei toni e radicato rispetto ai suoi omonimi europei) diede vita nel 1991 a Synapsismos (“Coalizione della Sinistra, dei Movimenti e dell’Ecologia”), fu la principale forza di una serie di raggruppamenti ulteriori della sinistra radicale – contrapposta sia al KKE sia al vecchio partito “socialdemocratico” Pasok – che portarono nel 2004 alla formazione di Syriza (“Coalizione della Sinistra Radicale”). Quest’ultima ebbe un primo successo notevole alle elezioni del 2007 (oltre il 5%), per poi unificarsi formalmente e diventare il secondo partito greco (2012) sull’onda delle mobilitazioni di massa del 2010-11, e successivamente il primo (2014-15), formando un governo “contro natura” con la destra di Anel nel 2015-19, e mantenendo comunque oltre il 31% dei consensi nelle elezioni del 2019 che hanno visto la vittoria della destra di Nea Demokratia;
_in Francia, il Parti de Gauche (“Partito di Sinistra”) nacque nel 2008 come scissione a sinistra del vecchio Partito Socialista guidata da Jean-Luc Mélenchon, fondando il più largo Front de Gauche (“Fronte di Sinistra”) nel 2009 (col partito comunista e altre formazioni minori, sia riformiste sia provenienti dall’estrema sinistra) e superando l’11% dei voti nel 2012. Nel 2016, la coalizione viene rifondata col nome di La France Insoumise (“La Francia Indomita”), consolidandosi come quarto polo elettorale nazionale nel 2017. Diventa la forza centrale della coalizione Union Populaire, poi NUPES (“Nuova Unione Popolare Ecologica e Sociale”) alle elezioni del 2022, consolidandosi come terzo polo, a poca distanza dalla destra di Le Pen e dal centro di Macron, alleandosi coi Verdi e il vecchio Partito Socialista, ormai nettamente minoritario nel panorama politico nazionale;
_in Spagna, Podemos nasce nel 2014 a partire da un appello di un’area di intellettuali di sinistra, raccolta attorno a Pablo Iglesias, che aveva partecipato al movimento di massa degli Indignados, nato nel 2011 a seguito della crisi del debito spagnolo sull’onda di quella finanziaria mondiale del 2008. Podemos raccoglie molto rapidamente un numero impressionante di attivisti e si consolida come terzo partito spagnolo, fondendosi o alleandosi con altre forze di sinistra (soprattutto con Izquierda Unida, coalizione dominata dal vecchio partito comunista spagnolo). Rimane all’opposizione finché, a inizio 2020, accetta di formare un governo di coalizione col centrosinistra del PSOE, in seguito alla doppia elezione generale del 2019 dove tutte le sinistre perdono posizioni a fronte dell’avanzamento delle destre del Partido Popular e di Vox.
Tutti questi processi descrivono una traiettoria identica, se non nei risultati, quanto meno nelle aspirazioni: quella di costruire una sinistra separata (almeno inizialmente) dai vecchi partiti socialdemocratici e stalinisti, che possa avere una massa di voti sufficiente ad accedere al governo locale e nazionale dello Stato, o quanto meno di esercitare una pressione sul governo come parte della maggioranza parlamentare (come è successo nel caso del Bloco de Esquerda portoghese tra 2015 e 2021). L’asse centrale della strategia, dunque, è quello della vittoria elettorale per riformare la società capitalista e i suoi organi di potere politico dall’interno, rivendicando una società più giusta dove il capitalismo possa conservarsi in una nuova forma ‘equa’, ‘sostenibile’. Ciò deve avvenire sulla scorta della vittoria elettorale e prevedendo alleanze politiche o anche solo blocchi di governo con forze che vanno al di là della sinistra legata al movimento operaio (come era il PSI in Italia) o addirittura oltre il campo interclassista del “centrosinistra”.
Questa logica è un marchio di fabbrica che ha caratterizzato da più di un secolo varie politiche catastrofiche dentro il movimento operaio e la sinistra operaia, compresi tutti quei tentativi di avviare la transizione al socialismo tramite la vittoria elettorale e la presenza nel governo del vecchio Stato borghese, provando a evitare una delle caratteristiche fondamentali delle rivoluzione socialista, cioè la disarticolazione e l’abbattimento del vecchio Stato per instaurarne uno nuovo, fondato su organi democratici della classe lavoratrice e delle masse popolari. Col risultato che la classe dominante, che accetta invece lo scontro politico su tutti i terreni, può tentare di logorare con strumenti economici e politici l’avversario temporaneamente alla ribalta, o ricacciarlo indietro con gli strumenti militari, infischiandosene della legalità, delle costituzioni, di qualsiasi criterio democratico. L’esempio del Cile di Allende, dove il moto verso il socialismo sembrava inarrestabile o quasi per i sostenitori del presidente socialista Salvador Allende, fu istruttivo in questo senso, e diede un forte stimolo ai partiti ‘comunisti’ europei (e non solo) a lasciare perdere anche formalmente il programma massimo dell’instaurazione del socialismo. Appena due settimane dopo il golpe dei militari guidati da Augusto Pinochet, il segretario generale del PCI Enrico Berlinguer inaugurava una serie di articoli sulla rivista teorica del partito Rinascita che saranno alla base della successiva strategia del compromesso storico. Nel caso di ‘presa del potere’ in situazioni geopolitiche particolari, la disarticolazione del movimento operaio e la reazione neoliberista hanno potuto svolgersi lentamente e ‘dolcemente’, senza colpi di mano o scontri militari, come nel caso della Scandinavia, dove la sinistra socialdemocratica ha governato a lungo anche senza doversi appoggiare sul centro liberale, senza che al giorno d’oggi le differenze con l’Europa occidentale siano tali da riconoscere una differenza qualitativa tra le “normali” democrazie borghesi e la “transizione al socialismo” scandinava.
Su un piano molto più modesto e arretrato, la necessità rivendicata di andare al governo sempre e comunque e di mantenere le alleanze che lo permettevano, hanno prodotto l’assecondamento, da parte della sinistra ‘radicale’ (con Rifondazione in prima fila, in Italia), di interi cicli di controriforme e attacchi alle condizioni di vita della classe lavoratrice e della popolazione subalterna: in Italia, questo ciclo reazionario è stato portato avanti più dal centrosinistra che dal centrodestra. Fin qui, appunto, nulla di particolarmente diverso dalle molteplici varianti strategiche che le sinistre riformiste di ispirazione socialista avevano prodotto. Anzi, si può dire che i casi in cui le vecchie correnti riformiste e centriste (cioè rivoluzionarie a parole) riuscirono a rilanciarsi con nuove sigle tra gli anni ‘90 e 2000, come nel caso di Rifondazione, esse hanno fatto da esperimento e anticipazione del ciclo neoriformista. Non è un caso che i neoriformisti a livello europeo abbiano costituito la tendenza “Ora il popolo” internamente al gruppo della Sinistra Unitaria Europea insieme al Partito della Sinistra Europea, cioè il coordinamento di buona parte dei vecchi partiti “comunisti” europei e degli apparati loro eredi che hanno mantenuto quanto meno un orientamento riformista piccoloborghese, a differenza della parabola italiana del PDS fino al PD, e che agiscono uniti sostanzialmente solo quando si tratta di presentarsi alle elezioni del parlamento europeo. “Ora il popolo” peraltro, a soli due mesi dalla sua nascita nell’aprile 2018, aveva già inglobato i partiti scandinavi omologhi di Rifondazione Comunista, cioè quei partiti riformisti plasmati dall’evoluzione a destra del vecchio stalinismo nel cosiddetto “eurocomunismo” (animato in Italia dallo stesso segretario del PCI di allora, Enrico Berlinguer) fra gli anni ‘70 e ‘80. La nascita in Grecia di Synaspismos, principale fondatore di Syriza, ha la stessa genesi politica, cioè la scissione degli eurocomunisti dal KKE.
La nascita ed evoluzione delle organizzazioni neoriformiste, a ben guardare, ha a che fare con manovre e riposizionamenti dall’alto di gruppi dirigenti già formatisi nei vecchi tronconi della sinistra, o con operazioni di appello alla base da parte di un ristrettissimo entourage, già più o meno affermato nella scena politica – nel caso di Podemos, con un precedente lavoro di egemonia meramente “culturale” da parte di un gruppo di intellettuali divenuti poi capi del partito; nel caso della France Insoumise, tramite un lungo lavoro di ricomposizione dell’equilibrio tra i partiti “progressisti” e le sinistre capitalizzando la crisi del Partito Socialista. Dunque, non si può dire che questi processi abbiano rilanciato e consolidato il ritorno della classe lavoratrice come soggetto politico organizzato, né sul piano pratico né sul piano del dibattito politico pubblico.
Lo stesso fallimento completo nell’aggregare le sinistre “radicali” italiane dentro Potere al Popolo come incubatore di un possibile partito unico, come in parte fu il Front de Gauche in Francia, non ha avuto particolari ricadute nel dibattito su quale strategia sia necessaria oggi, né tanto meno sul bilancio delle precedenti attività. Si è semplicemente preso atto che l’alleanza elettorale del 2018 era soltanto elettorale e la si è riproposta, con un’impostazione ancora più moderata e interclassista, senza tentare di convincere nessuno sul perché fosse necessario un allargamento a destra verso forze impalpabili dal punto di vista militante ed elettorale. Una metodologia che in altri paesi ha avuto il contrappeso del successo elettorale, ma non in Italia: la differenza, in voti alla Camera, tra la Potere al Popolo “larga” del 2018 e Unione Popolare quest’anno è stata di appena 30mila voti, da 372mila a 402mila!
La discussione su quale politica serva alla classe lavoratrice e ai movimenti esistenti, e su quale tipo di organizzazione possa permettere lo sviluppo e la vittoria di tale politica, non è cosa da risolversi a tavolino e in circoli ristretti, magari di compagni “intellettuali” esterni o al massimo “solidali” al movimento stesso, concependo il proprio legame alla lotta di classe e il bilancio delle esperienze passate come elementi marginali. Tale discussione strategica deve essere una componente importante della stessa lotta politica, del movimento stesso. L’ascesa del neoriformismo, in totale contrapposizione con questa necessità, segna effettivamente una discontinuità con l’impostazione originale dei vecchi riformisti che si mostra con due facce. Da una parte, il proprio discorso politico ha come riferimento il popolo, cioè la massa indistinta dei cittadini, con una disintermediazione tra il vertice del partito e la sua base elettorale (più che “sociale”) e la rinuncia cosciente a porsi come direzione politica nel movimento operaio organizzato, a partire dalla massa dei lavoratori sindacalizzati; si può dire che questi partiti, anche quando eleggono dozzine di deputati, nella lotta di classe non provano mai ad assumere un ruolo riconoscibile come direzione, costruendo rapporti diplomatici con burocrazie che sono perlopiù fuori dal loro controllo. D’altra parte, la progressione elettorale di queste forze non ha mai significato una scommessa sull’approfondimento e la radicalizzazione dei movimenti che hanno portato loro il vento in poppa ma, al contrario, non ha fatto che assecondare il riflusso di questi stessi movimenti o, quando questi comunque si riattivavano in nuovi cicli, non ci si dava l’obiettivo di mettersi alla loro testa e dare loro una direzione politica generale; anzi, spesso il peso elettorale (e di governo) è stato investito nel frenare e persino reprimere questi stessi movimenti.
In Grecia, ciò ha significato che non era più importante quanti voti e scioperi facessero i lavoratori greci per spingere Syriza a rompere con la Troika, perché Syriza non voleva basare la propria strategia sulla mobilitazione di quelle stesse masse: la linea fino a lì assunta si scontrava sia con le regole del governo “democratico” dello Stato e dell’Unione Europea – cioè con la sottomissione ai capitalisti greci e agli avvoltoi finanziari imperialisti europei – sia con quello che sarebbe stato il logico sviluppo dei movimenti del 2011-15, cioè una rottura con la Troika e una serie di misure radicali unite tra loro dall’instaurazione di un governo operaio, cioè basato sulla forza della classe lavoratrice e delle masse popolari stesse.
In Francia, l’enorme aumento dell’influenza della figura di Melenchon come uomo solo al comando della sinistra non ha minimamente scalfito il consenso trasversale tra i partiti attorno all’ideologia nazionalista della grandeur francese, rimuovendo qualsiasi profilo chiaramente classista a favore di quelli sul popolo, e schiacciando qualsiasi prospettiva internazionalista sugli “interessi della Francia”, cioè dei capitalisti francesi. Questa retorica è stata infiocchettata in un discorso in cui “l’interesse della Francia” diventa la promessa dell’esaudimento dei desideri un po’ di tutti, dagli imprenditori al ceto medio alla gioventù della banlieue: una linea che si è evoluta con diversi scossoni, in risposta alle critiche sul profilo politico delle prime fasi del melenchonismo, quando si adattava molto di più al profilo “imperialista democratico” del vecchio centrosinistra, a partire dalle campagne islamofobe che hanno attraversato la politica francese ben oltre il campo della destra nazionalista. Melenchon, più che considerare l’imperialismo francese come il nemico numero uno della classe lavoratrice e della sinistra in Francia, vuole ricondurlo alla ragione: vincere un nemico contro il quale non si dichiara nemmeno di voler combattere, diventa impossibile.
Nel frattempo, il tentativo di scontro politico direttamente con lo Stato francese, che avuto il suo culmine nell’inverno 2018-19 col movimento dei gilets jaunes – che pure era sociologicamente abbastanza confuso da risultare appetibilissimo a Melenchon – non ha visto La France Insoumise investire le proprie forze per spingerlo fino alle estreme conseguenze, ma anzi gli attivisti (dopo una dozzina di morti e migliaia di feriti) si sono sentiti dire che era ora di votare, piuttosto che di andare in corteo.
Nello Stato spagnolo, la conquista della posizione di soci minoritari di governo da parte di Podemos ha portato, tra l’altro, alla co-responsabilità della difesa dell’unitarietà della monarchia spagnola contro il movimento indipendentista della naziona catalana, negandole il diritto ad autodeterminarsi tramite la brutale repressione militare.
Sul piano europeo, qualsiasi critica strutturale alla UE viene rimpiazzata da formule vaghe dove questa associazione imperialista non viene messa in questione in quanto tale al fine di abbatterla ma, al massimo, si rivendica di “rompere il giogo dei trattati europei che impongono l’austerità e favoriscono il dumping fiscale e sociale”, come recita la dichiarazione del 2018 di “Ora il popolo” (Martinis, Mélanchon, Iglesias 2018). Un po’ poco, di fronte allo sfruttamento brutale dei lavoratori, alla disoccupazione di massa, alla catastrofe ambientale, al riarmo generalizzato, alla repressione brutale dentro e fuori i confini dell’Unione Europea. Non solo: il vecchio reticolato dei trattati europei, culminato in quello di Lisbona del 2007, è stato di fatto reso obsoleto e in parte inapplicabile a seguito della crisi del 2008 prima e della pandemia del Coronavirus poi, che hanno imposto la necessità oggettiva di rivedere le regole del gioco, o quanto meno di non applicare integralmente quelle più rigide che erano state concordate. Ironia della sorte vuole che, nel caso dove si sia voluto dare una lezione esemplare, in Grecia durante il governo Syriza, i piani di lotta di “Ora il popolo” si siano polverizzati sotto i colpi della Troika BCE-FMI-CE guidata da Mario Draghi.
Oltre le elezioni, una strategia assente
È a partire da questo vicolo cieco politico di un neoriformismo che si scontra con la contrarietà dei capitalisti a concedere pacificamente nuove stagioni di “grandi riforme” che, ad esempio, si comprende la presa di posizione del fondatore di Podemos Pablo Iglesias, così come di molte altre organizzazioni riformiste italiane ed europee, sulla mancanza di alternative all’obbedienza del governo greco di Syriza e del suo presidente Alexis Tsipras alle direttive della Troika BCE-FMI-Commissione Europea, capeggiata da “Super” Mario Draghi.
Il problema – dice Iglesias– è che ancora si deve verificare che qualcuno a partire da uno Stato possa lanciare una sfida del genere […] Se noi, governando, ci impegniamo in un’azione dura all’improvviso, hai una buona parte dell’esercito, dell’apparato della polizia, tutti i mezzi di comunicazione […] hai tutti contro, assolutamente tutto. E in un sistema parlamentare è molto difficile assicurarsi una maggioranza assoluta […] Per cominciare si sarebbe dovuto arrivare ad un accordo con il Partito Socialista (Albamonte & Maiello 2017: 27).
Iglesias centra il problema da una prospettiva opposta alla nostra: c’è una volontà politica organizzata, armata, dotata di istituzioni pervasive di ogni tipo, il cui scopo è difendere la classe dominante e i suoi capitali. Senza una volontà organizzata che le si contrapponga con il fermo intento di sfaldare questo sistema con tutti i mezzi necessari per farlo, ragionare in termini di superamento del capitalismo è pressoché impossibile. Già la “nebbia di guerra” sale quando si inizia a ragionare di come arrivare alla maggioranza parlamentare (dunque avendo ottenuto grandi successi nell’ascesa di partiti di sinistra, quanto meno riguardo l’influenza elettorale) e a cosa si farebbe una volta a capo del governo in questo sistema. Sull’ultima questione le risposte empiriche si sprecano, come abbiamo visto, facendo accumulare altre sconfitte e riflussi alla lotta di classe e ai movimenti popolari.
Ci si potrebbe sempre obiettare che il periodo e lo spazio che abbiamo preso in considerazione sono troppo ristretti per giudicare se la strategia neoriformista possa “vincere” in un senso che non sia quello della mera gestione ordinaria del capitalismo con qualche postura progressista in più. È chiaro che non abbiamo qui lo spazio per elencare le numerosissime esperienze storiche analoghe, se non proprio sovrapponibili, al corso del neoriformismo. Il problema fondamentale della strategia (neo)riformista rimane però a monte dei casi singoli: in un senso stretto, non è una vera e propria strategia. In che senso? Se riconosciamo che ci sia un conflitto tra le classi sociali e che questo conflitto possa essere vinto o perso nel suo insieme – non rispetto a singoli episodi -, avere una strategia significa impiegare i combattimenti agli scopi della guerra, come sostiene il famoso teorico militare Clausewitz nel suo Della guerra:
Quanto al combattimento in se stesso, la strategia deve conoscerlo dal punto di vista dei suoi risultati possibili […]. Essa deve dunque porre ad ogni atto bellico uno scopo immediato che possa condurre a quello finale. In altri termini, elabora il piano di guerra, collega allo scopo immediato predetto la serie delle operazioni che ad esso debbono condurre, e cioè progetta i piani delle campagne e ne coordina i singoli combattimenti (1970: 173).
Se in un conflitto, cioè una situazione dove si scontrano volontà contrapposte dove la sintesi è ottenuta tramite una prova di forza, si partecipa per vincere, è evidente che il proprio scopo finale debba essere nettamente distinto da quello del nemico, e che il suo raggiungimento significhi una sconfitta per l’avversario, compreso il caso della sua eliminazione totale. Ora, nel campo della lotta di classe, non si dà una forma in cui la popolazione subalterna possa diventare semi-subalterna e semi-dominante, che gli sfruttati possano essere sfruttati a metà1. O la classe dominante conserva il suo dominio, o il suo dominio viene abbattuto, gettando le basi del superamento storico, definitivo della lotta di classe stessa. Ciò significa che le progressive riforme del capitalismo (anche quelle promosse dalle sinistre al governo) non costituiscono una vittoria complessiva, strategica di questo conflitto ma, al massimo, delle vittorie parziali, delle vittorie “tattiche” che non hanno dietro di sé una logica comune, un principio ordinatore che le colleghi in un’unica direzione, verso un unico scopo. In modo analogo, la conquista di un margine di “autonomia” dentro il sistema garantisce solo e soltanto una cosa: che quando il sistema non può tollerare nemmeno delle isole “liberate”, ha tutti i mezzi per riassorbire o reprimere queste anomalie, e non esita a farlo, mentre le autonomie stesse, per definizione, non hanno la forza per fronteggiare e sconfiggere il sistema stesso.
In una parola, tutto questo significa precludersi la possibilità di vincere, e dunque di avere una vera e propria strategia. Appunto, in questo senso stretto, la riforma conservatrice del sistema o la resistenza “autonoma” possono essere difficilmente considerate delle strategie vere e proprie sulle quali valga la pena impostare la lotta di classe e il conflitto sociale. Ciò non toglie che da secoli, in varie forme, esse siano presenti, quando non egemoni, nei partiti di sinistra e della classe lavoratrice, e che l’affermazione di politiche coerentemente anticapitaliste contro di esse sia un compito fondamentale che richiede tutta la nostra intelligenza, tutto il nostro entusiasmo, tutta la nostra forza. Si tratta di scegliere tra un’eterna sconfitta (e forse una comune rovina delle classi in lotta per una catastrofe ambientale o sotto le bombe nucleari) e la vittoria nella lotta di classe, cioè l’emancipazione di tutta l’umanità.
La vittoria non si improvvisa: perché rivendichiamo un partito di tipo rivoluzionario
La nostra rivendicazione di un partito di tipo rivoluzionario, dunque, non si basa solo su differenze formali di programma o ideologiche che si sovrappongono ad altre in uno stesso spazio politico ideale, negli stessi possibili contesti organizzativi. Si tratta di un piano alternativo e divergente agli altri, sulla base del quale accumulare forze, organizzarsi e vincere singoli episodi di lotta in modo diverso da quello proposto da altre posizioni e strategie. Si tratta, ad esempio, di costruirsi a partire dagli strati più oppressi e sfruttati della popolazione, facendone emergere i propri militanti e dirigenti, senza trattarli perlopiù quali meri ‘elettori’ o adattarsi al loro confinamento in riserve etniche, di genere, religiose separate dal movimento politico generale nelle nostre metropoli imperialiste. Si tratta di valorizzare l’iniziativa politica e l’azione di lotta dei militanti politici nei luoghi di lavoro, per collegare e radicalizzare i cicli di lotta economico-sindacale, senza affidarsi a una direzione “radicale” di sindacati separati e minoritari che dall’alto cala ‘la linea giusta’ senza che i lavoratori stessi si radicalizzino seriamente e partecipino convinti alla lotta politica.
Noi rivendichiamo questa prospettiva a partire dal patrimonio politico che ereditiamo dal marxismo rivoluzionario, che è riuscito a superare la terribile epoca dell’ascesa del fascismo, della controrivoluzione staliniana e della seconda guerra mondiale grazie al movimento trotskista che si organizzò nella Quarta Internazionale.
Nella situazione italiana attuale, dove manca anche un singolo affermato partito della classe lavoratrice, con migliaia di militanti, cosa più essere più urgente del dibattito tra le diverse ipotesi per condurre la nostra lotta politica, e la loro verifica tramite l’azione in tutti i “combattimenti parziali” che stiamo affrontando? Non affrontare questo nodo come lavoratrici e lavoratori, giovani, attivisti e attiviste, significa lasciarlo in mano ai ceti burocratici dei rispettivi movimenti e organizzazioni di settore. Siamo invece convinti che, anche in una situazione di scarsa lotta di classe e larga diffusione delle ideologie della classe dominante come in Italia, sia possibile e doveroso discutere ed organizzarsi per costruire insieme un’organizzazione politica rivoluzionaria che mano a mano possa evolvere come riferimento politico per una platea sempre più larga, in connessione con la lotta politica dei socialisti negli altri paesi, e dare una prospettiva concreta perché emerga un partito socialista, rivoluzionario della classe lavoratrice nel nostro paese, rompendo la cappa delle sinistre sottomesse ai liberali del PD e a quelle ancora schiacciate dall’eredità disastrosa del PCI.
Si tratta di formare un’avanguardia politica organizzata, riconoscibile, autorevole, che possa costituire la prima linea e la direzione dei movimenti larghi che lottano concretamente contro il sistema capitalista, perché questi combattimenti isolati possano legarsi in una lotta e in una vittoria finale, e non convivere con l’esistente, cosa difficile e dolorosa per miliardi di persone.
Siamo convinti che questo tipo di organizzazione, e non altre, possa farsi trovare pronta sia nella sua comprensione del mondo, sia nella risposta alle crisi, alle guerre e alle rivoluzioni che verranno, di cui nell’ultimo quindicennio abbiamo già avuto abbondanti anticipazioni, a partire dal crack finanziario del 2007-2008. In questo senso, ci ha colpito il candore con cui Giuliano Granato, chiudendo a fine maggio la settima Assemblea Generale di Potere al Popolo, dopo aver rivendicato (giustamente) che “se quando ci sarà la svolta della storia noi ci faremo trovare pronti, allora potremo costruire un futuro diverso”, ha dichiarato:
Quando mai c’è stata nella storia un’epoca in cui si diceva “sì, questa è l’epoca delle rivoluzioni”! Nessuno di quelli che hanno fatto la rivoluzione, il giorno prima di farla, diceva “sì, domani faccio la rivoluzione”. Non è stato vero per i bolscevichi di Lenin…
Ecco, in negativo Granato conferma ciò che pensiamo: che il recupero del socialismo e del marxismo non si può fare un tanto al chilo, mischiandolo con posizioni politiche di moda in patria o all’estero, e con mistificazioni teoriche, spesso legate all’eredità stalino-maoista. Che questa sua affermazione sia stata accolta da un tripudio, e non da pernacchie, è un segnale della serietà del problema. Ci limitiamo a ricordare in questa sede (ma l’argomento sicuramente merita altro spazio) che gli stessi Engels e Marx nel 1847 prevedevano un’epoca rivoluzionaria che era necessaria per la conquista del pieno potere economico e politico da parte della borghesia. Pochi mesi dopo scoppiò la primavera dei popoli, il ciclo di moti rivoluzionari che sconvolse l’Europa. Anche oggi, come scrivevamo a inizio articolo, la situazione internazionale, con le continue e varie crisi, gli scontri militari, i fenomeni di lotta di classe e ribellione (oltre che alla catastrofe climatica in corso!) a tutto fanno pensare, tranne che alla necessità di una attesa di un secolo o due per poter scatenare il “cozzo finale”, come lo chiamavano i socialisti italiani di inizio Novecento.
Sui bolscevichi, che dire: non esiste un singolo studio che abbia mai argomentato che la Rivoluzione d’Ottobre sarebbe avvenuta comunque senza la preparazione attiva dei bolscevichi all’insurrezione (quella vera, non quella delle chiacchiere domenicali) e la loro capacità di organizzare nel proprio partito un’importante quota dell’avanguardia sociale di quel momento, e attorno al proprio partito un’enorme periferia di consenso attivo nei soviet. In quel caso e in altri successivi, al contrario, il valore di un partito rivoluzionario già presente emergeva innanzitutto perché attraverso di esso l’avanguardia politica della classe lavoratrice di un paese individuava l’avvicinamento di una situazione rivoluzionaria e lavorava per farla evolvere in una rivoluzione socialista. E proprio in quel periodo storico, ma non solo in quello, per Lenin e per i rivoluzionari seri non c’erano problemi a parlare di un’epoca di crisi, guerre, rivoluzioni. Concetti già ampiamente diffusi a inizio Novecento nel socialismo internazionale dal suo “Papa rosso” di allora, Karl Kautsky, che non aveva dubbi sull’epoca rivoluzionaria che si stava avvicinando.
Costruire un’organizzazione rivoluzionaria con la prospettiva di un partito vero e proprio, vuol dire anche e soprattutto non perdere e non mistificare le minime basi storiche e teoriche del nostro stesso movimento per giustificare strategie confuse o proprio assenti. Da chi ha l’ambizione di contribuire alla lotta per un partito della classe lavoratrice, e anzi di dirigerla, è lecito aspettarsi di più, molto di più: “farsi trovare pronti” includerà, letteralmente, prepararsi a guidare la rivoluzione sociale, non a farsi travolgere da essa. Proprio come fece il partito bolscevico di Lenin e Trotsky nei lunghi mesi che precedettero quel famigerato 25 ottobre 1917.
Giacomo Turci
Note
1. Con sfruttamento non intendiamo una situazione lavorativa spiacevole, particolarmente sottopagata o intensa – che è il significato giornalistico che purtroppo le attribuisce anche gran parte della sinistra nel suo discorso politico. Intendiamo la condizione – generalizzata nel capitalismo, non limitata ai settori inferiori dei salariati – per cui la ricchezza prodotta nel processo lavorativo finisce solo in una parte ben limitata ai lavoratori stessi. Lo sfruttamento non è che il profitto dei datori di lavoro dal punto di vista dei loro sottoposti. È chiaro che “eliminare lo sfruttamento” può significare soltanto eliminare la società divisa in classi sfruttatrici e classi sfruttate.
Questo articolo fa parte del numero 4, autunno 2022, della rivista Egemonia.
Bibliografia
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Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.