Sara Farris è una ricercatrice dell’università londinese Goldsmiths, militante femminista e anticapitalista. È autrice di In the name of Women’s Rights. The Rise of Femonationalis (Duke University Press, 2017), recentemente tradotto in italiano da Alegre (Femonazionalismo: il razzismo nel nome delle donne, 2019). Nella sua opera Farris sviluppa il concetto di femonazionalismo per analizzare con maggior precisione il rapporto esistente tra governi, partiti di destra ed estrema destra europei e una frazione del movimento femminista, in concomitanza con la crescita dell’islamofobia. Un dibattito molto attuale nell’Italia governata da Giorgia Meloni.



Il concetto di femonazionalismo che hai sviluppato nel tuo libro fa riferimento alla strumentalizzazione della retorica sull’emancipazione femminile a scopi razzisti. Più precisamente, per femonazionalismo intendi la convergenza tra nazionalismi di estrema destra, neoliberismo, femocrati1 e femministe, in nome dei diritti delle donne. Questa convergenza non è da intendersi come una coincidenza accidentale, né/ma come un’alleanza deliberata. Come sei arrivata ad elaborare il concetto di femonazionalismo e la convergenza di cui parli?

Sara Farris: Ho cominciato a riflettere non tanto sul concetto di femonazionalismo quanto sulle criticità del femminismo tra gli anni 2010-2011. Abbiamo organizzato una conferenza dal titolo «Stato del femminismo e questioni di Stato» con dei colleghi della Jan Van Eyck di Maastricht. La nostra intenzione era quella di capire la progressiva strumentalizzazione delle tematiche femministe da parte dei partiti di destra in tutta Europa, come pure perché alcune femministe esprimano crescenti sentimenti islamofobi. Cercavamo veramente di capire che stava succedendo. Il libro di Jasbir Puar su l’omonazionalismo è stato pubblicato qualche anno fa ed è stato certamente una fonte di ispirazione importante per ricercatori e militanti, me compresa. In quell’opera Jasbir Puar cerca di comprendere la convergenza, che lui definisce più come una collusione, tra certe correnti del movimento gay negli Stati Uniti e il nazionalismo statunitense. Io volevo arrivare ai legami, quelle che ho appunto poi chiamato “convergenze”, tra certe correnti del femminismo in Europa e i nazionalismi europei. Dunque, ho deciso, dopo aver valutato accuratamente quali situazioni fossero comparabili, di concentrarmi sulla Francia, sull’Olanda e sull’Italia, poiché mi è sembrato che avessero molti elementi e tratti comuni. Tutti loro avevano un partito di destra di spicco: la Lega Nord in Italia, quello che una volta era Front National in Francia e il Partito per la Libertà in Olanda. Tutti questi partiti hanno mobilitato la questione dei diritti delle donne contro l’Islam e tutti hanno posizioni simili su vari ambiti. Inoltre, tra i tre partiti, c’è un’importante “tradizione femminista” e di femministe molto in vista che fanno campagna contro le pratiche islamiche e a favore di divieti quali quello dell’utilizzo del burqa, del velo, ecc. Ho pensato che la comparazione tra questi tre contesti fosse emblematica. È così che sono finita con l’elaborare il concetto di «femonazionalismo». Parlo di «convergenza», come spiego nel libro, piuttosto che di «collusione», perché credo che molti dei soggetti su cui ho indagato, come alcune militanti femministe o gli stessi neoliberali, non operino per collusione. Non c’è una collusione o un’associazione intenzionale con certi partiti di destra. Penso che sia più corretto parlare di convergenza perché questo concetto ci permette di comprendere gli interessi in gioco e anche di come parliamo realmente di un certo spazio ideologico nel quale convergono attori politici molto differenti, più di frequente non intenzionalmente piuttosto che coscientemente, come se si trattasse di una manovra orchestrata da parte loro.

Nella svolta femonazionalista, la difesa dei diritti delle donne viene portata avanti facendo fronte unico contro l’Islam, che diverrebbe la religione del patriarcato per eccellenza, come pure tramite la sessualizzazione del razzismo e la razzializzazione del sessismo, ma anche attraverso lo sfruttamento del lavoro migrante. Basandoti sullo studio sul campo nei tre paesi, la Francia, l’Italia e l’Olanda, tra il 2000 e il 2013, tu descrivi questa svolta femonazionalista come derivante dalla riconfigurazione molto specifica del mercato del lavoro, delle migrazioni e dei movimenti di forza lavoro tra il Nord e il Sud del mondo. Quali sarebbero le caratteristiche di questa riconfigurazione? Analogamente, la donna migrante del Sud globale è al centro dell’economia politica del femonazionalismo come lavoratrice sfruttata nei settori del lavoro domestico e dell’assistenza. Puoi dirci di più su questo ruolo che incarna/al quale è assegnata?

S.F.: Penso che il principale contributo del mio libro sulla mobilitazione da parte della destra sui temi femministi sia l’economia politica. Ho tentato di articolarlo nell’esaminare il ruolo giocato dalle donne musulmane migranti nel settore economico, nella realtà economica europea. La questione principale, la questione chiave, è sapere come, in un contesto di crisi economica e finanziaria mondiale, i migranti giocano sempre di più il ruolo di capro espiatorio della crisi. In questo ambito, per la destra i migranti “rubano il lavoro” e sono descritti come una minaccia economica. Come mai, in un quadro come questo, le donne migranti sembrano svolgere un ruolo differente? Non sono affatto rappresentate come delle “ladre” del lavoro altrui, ma piuttosto come individui che hanno bisogno di essere salvate, che hanno bisogno di emancipazione. La mia risposta è che il fatto che le donne migranti siano rappresentate come individui meno minacciosi e anzi bisognose di emancipazione e di essere salvate sia dovuto, almeno in parte, al fatto che loro giocano un ruolo estremamente importante nel mercato del lavoro europeo e nel benessere europeo in generale. Sempre più spesso hanno infatti colmato le lacune dello Stato e dell’assenza di politiche di welfare, specialmente nei confronti degli anziani e dei minori. Queste donne sono arrivate a fornire in maniera crescente questo aiuto sociale che lo Stato non fornisce. E sempre di più fanne le tate, le baby-sitter per bambini, le badanti per persone anziane, le domestiche o donne delle pulizie. Svolgono tutti quei lavori che chiamiamo lavori consacrati alla “riproduzione sociale”. Lavori che, in realtà, mantengono in funzione l’economia. Abbiamo visto, del resto, durante la pandemia, come siano stati classificati come “impieghi essenziali”. Ci dimentichiamo, in effetti, che molte di queste donne fanno parte delle EPHAD2, sono anche infermiere o lavorano negli ospedali, in varie posizioni a bassa qualificazione. Direi quindi che è importante capire come queste diverse storie sono collegate. Non pretendo che la narrativa attorno alle donne migranti come bisognose di emancipazione si spieghi solo da una prospettiva di politica economica. Non penso che possiamo permetterci questo genere di riduzionismo. Penso però che sia una delle ragioni, a suo modo importante. Penso che esistano anche delle spiegazioni culturali, legate al colonialismo, all’eredità coloniale e alla maniera in cui le donne in generale, ma in particolare quelle non bianche, sono state tradizionalmente e storicamente dipinte come meno minacciose degli uomini, più assimilabili, come dei soggetti che possono essere integrati. Ho utilizzato anche questo termine nel mio libro: c’è un processo di «denazionalizzazione» che si verifica nel caso di queste donne che devono, in qualche modo, essere strappate dal loro milieu culturale. Ecco perché chiedono loro costantemente di togliere il burqa, il velo più in generale, al fine di “rinazionalizzarle” correttamente e assimilarle culturalmente.

RPD: Il lavoro sul campo di cui parli nella tua opera si è svolto nel 2013. Come si è evoluta la situazione, in Europa, nel corso degli anni successivi?

S.F.: Si, ci sono stati certamente degli sviluppi e alcuni elementi possono essere cambiati dal 2013. Una delle cose che mi vengono in mente è il fatto che l’immagine della donna musulmana come una minaccia sia diventata sempre più presente e in certi casi, ancora più forte di quella della donna musulmana come vittima. E penso anche alla rilevanza crescente data allo Stato Islamico in numerosi paesi. Ci sono numerosi casi di giovani donne musulmane che si sono unite allo Stato Islamico e penso che questo, in qualche modo, abbia fatto evolvere la situazione, contribuendo a rinforzare la rappresentazione della donna musulmana come una minaccia. Attualmente direi che le due rappresentazioni coesistono. Basti pensare ad ogni volta in cui la stampa o i media in generale parlano di donne musulmane che si uniscono a terroristi in Siria e in altre parti del mondo e a come si racconta che abbiano subito il lavaggio del cervello perché sono generalmente molto giovani, che si siano innamorate di certi terroristi che le hanno sedotte per indurle a seguirli. L’idea è sempre che queste donne siano delle vittime. Non hanno mai un’agency e possono essere sottomesse a qualsivoglia d’imperativo culturale o alla volontà di un uomo. Si percepisce sempre che queste donne mancano di autorità e dunque sono intrinsecamente delle vittime. Ecco alcuni dei cambiamenti a partire dal 2013. Certamente direi anche che i partiti di estrema destra sono sempre molto forti, ma hanno perso una parte del consenso perché le preoccupazioni xenofobe e antimmigrati non sono più così pressanti, o almeno non quanto lo erano prima della pandemia. Ci sono stati sicuramente degli sviluppi interessanti. Direi che in generale, per questi partiti, per i partiti di destra, la strumentalizzazione generale delle tematiche femministe ha pagato e probabilmente continueranno a sfruttarla. Infine, per ciò che concerne le femministe, direi che non ci sono state delle novità sostanziali tra le femministe che hanno fondamentalmente posizioni anti-islam e che ritengono che i valori occidentali in materia di parità di genere siano superiori. D’altra parte, oggi forse la voce delle femministe musulmane e non occidentali, non bianche e non laiche è diventata più forte. Spesso sono a capo di processi di decolonizzazione in università e scuole e di quello della stessa storia. Penso che queste voci femministe non siano rimaste senza risposta di fronte all’altro femminismo. Evidentemente, la crescita del movimento femminista a livello globale con Niunamenos in America Latina e le sue diverse incarnazioni, avendo ovviamente le proprie specificità in tutto il mondo, ha contribuito a fare la differenza. Penso che questa nuova ondata femminista che attraversa l’Europa abbia delle posizioni anti-razziste e anti-universaliste molto più forti.

RPD: In Europa il movimento femminista appare diviso sulle questioni dell’islamofobia e in difficoltà nell’articolazione tra femminismo e antirazzismo. Parallelamente, c’è sfiducia da parte del movimento antirazzista nei confronti del movimento femminista per via della strumentalizzazione delle tematiche femministe nelle narrazioni razziste e islamofobe. Cosa pensi di questa divisione? E quali sono, dal tuo punto di vista, le strade da seguire oggi per la ricostruzione di un movimento femminista di massa?

S.F.: Penso che, come ho già detto, l’ala antirazzista e anti-islamofoba del movimento femminista stia diventando più forte. Penso che sia molto più presente nella coscienza di molte femministe, specialmente nei movimenti che sono emersi dal 2016. Che bisogna fare per ricostruire un movimento femminista radicale e di massa? Penso che l’antirazzismo sia una priorità assoluta, che questo si radichi e divenga una parte del movimento femminista. Chiaramente ho detto che questa è la chiave perché è essenziale che si incontri fortemente con la lotta di classe. Dico questo perché credo che il movimento femminista debba sempre di più rendersi conto che ci sono diversi femminismi, che le femministe vengono da tradizioni e culture differenti, che alcune delle principali categorie intorno alle quali noi articoliamo il femminismo come il patriarcato, la famiglia o la riproduzione non sono necessariamente le stesse per molte altre donne e penso che sia veramente importante avere un movimento femminista forte costruito attorno alle idee e alle concezioni della solidarietà piuttosto che sull’universalismo.

 

Intervista a cura di  RP Dimanche

 

Note

[1] termine con cui si intendo le donne che entrano nell’agone politico, o quanto meno nell’ambito delle istituzioni dello Stato, come funzionarie (tecnocrati) e sfondano il “soffitto di cristallo” – ndt.

[2] Établissement d’hébergement pour personnes âgées dépendantes, strutture paragonabili alle nostre case di riposo

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