Di fronte ai bombardamenti e all’intervento israeliano in corso a Gaza, le organizzazioni femministe e LGBT+ che lottano quotidianamente contro l’oppressione devono esprimere il loro sostegno al popolo palestinese, che da decenni soffre, oppresso da un regime di apartheid.


A più di dieci giorni dall’offensiva delle organizzazioni armate di resistenza palestinese, guidate da Hamas, Israele continua le sue violente rappresaglie nell’ambito di un’operazione militare su vasta scala, con il massiccio bombardamento della Striscia di Gaza che ha già ucciso più di 3.000 persone e l’annuncio, il 9 ottobre, dell’assedio totale di Gaza, con l’interruzione delle forniture di elettricità, acqua, gas e cibo ai 2 milioni di palestinesi stipati nell’enclave. Martedì, un attacco israeliano contro un ospedale nel cuore di Gaza ha ucciso più di 500 palestinesi. “Stiamo combattendo contro animali umani e stiamo agendo di conseguenza”, ha dichiarato Yoav Galant, ministro della Difesa israeliano: mentre i riservisti israeliani vengono mobilitati per una possibile invasione di terra di Gaza, si annuncia la prospettiva di una nuova pulizia etnica del popolo palestinese.

 

Un movimento femminista diviso o silenzioso di fronte all’imperialismo

Le immagini dell’offensiva palestinese hanno fatto il giro del mondo. Da un lato, hanno ispirato manifestazioni di solidarietà con il popolo palestinese, nei campi profughi, nei Paesi arabi e persino negli Stati Uniti, dall’altro, la condanna di tutti i leader dei Paesi imperialisti. Il governo francese, come quello italiano, ha definito l’operazione di Hamas un “attacco terroristico” e ha sostenuto “il diritto di Israele a difendersi”, in linea con le dichiarazioni dell’Unione Europea e di Joe Biden. Da allora, chiunque esprima sostegno alla lotta del popolo palestinese, senza rivendicare la responsabilità degli attacchi perpetrati dai combattenti di Hamas contro le popolazioni civili, è stato attaccato per “apologia del terrorismo”. In particolare in Francia, partiti politici come La France Insoumise, l’NPA, Révolution Permanente e associazioni come il Collectif Palestine Vaincra e l’Ujpf rischiano così di essere processati o addirittura disciolti per decreto governativo.

In questo contesto di campagna internazionale a favore di Israele, veicolata da tutti i media e gli intellettuali dominanti, il movimento femminista appare diviso. Da parte femminista, figure di sinistra come Sandrine Rousseau hanno mostrato il loro sostegno a Israele denunciando “un attacco intollerabile” il 7 ottobre, prima di chiedere “un corridoio umanitario” per “le donne e i bambini” di Gaza il 10 ottobre. La deputata Clémentine Autain (di La France Insoumise) ha inizialmente condannato gli attacchi alla popolazione civile e ha chiesto “la pace e il diritto dei popoli all’autodeterminazione”, come tutto il suo partito, ma ha poi affermato che la mancata descrizione di Hamas come organizzazione terroristica è stata un “errore politico” da parte de La France Insoumise.

D’altro canto, figure femministe antirazziste si sono espresse a sostegno della lotta del popolo palestinese, come Françoise Vergès, che ha descritto “da un lato un’occupazione coloniale con la sua violenza sistemica, il razzismo strutturale, l’illusione della democrazia, il furto della terra, la tortura, dall’altro una legittima lotta di liberazione. Nient’altro”. La sociologa Kaoutar Harchi ha affermato: “Ogni popolo sulla terra ha diritto alla terra, a un tetto politico sopra la testa. Ma è evidente le vite civili non sono considerate uguali, un civile non vale un civile. Altrimenti, il mondo condannerebbe la morte quotidiana dei civili palestinesi. Ma si condannano solo le morti dei civili israeliani”. Anche Fatima Ouassak, attivista antirazzista e ambientalista, ha preso posizione: “Nella guerra tra coloni e colonizzati, dobbiamo sostenere (senza tremare) la parte dei colonizzati”. La giornalista femminista Mona Chollet si è detta scioccata dalla violenza del processo di disumanizzazione scatenato contro i palestinesi: “È ormai chiaro che sono stati (almeno in Occidente) definitivamente espulsi dall’umanità. Questo non è mai, e probabilmente non sarà mai, il momento del loro diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza. La loro sofferenza non avrà mai un posto. Devo ammettere che questa consapevolezza è stata per me uno shock enorme”.

Mentre alcune figure di spicco hanno preso posizione, le organizzazioni femministe e LGBT+ sono rimaste generalmente in silenzio. Che si tratti del collettivo Nous Toutes a livello nazionale o della Coordination féministe, che riunisce i gruppi femministi di tutta la Francia, non è stata ancora presa alcuna posizione sulla situazione. Così come in Italia il movimento Non Una di Meno, nonostante alcuni suoi nodi territoriali animano le mobilitazioni locali, non c’è stata ancora una dichiarazione pubblica del movimento in difesa del popolo palestinese. In Francia l’unica eccezione è rappresentata dal collettivo Les Inverti-es, che ha diffuso un comunicato stampa in cui si legge: “Le persone trans, queer e lesbiche sostengono la Palestina! La liberazione delle persone LGBT+ dipende dalla liberazione del popolo palestinese”, mentre il Collectif Intersexe Activiste ha denunciato le violazioni dei diritti dei bambini, che costituiscono quasi il 50% della popolazione di Gaza, e ha invitato il governo francese “a garantire che lo Stato di Israele rispetti il diritto internazionale”. Invece in Italia il movimento “I’m Queer, any problems?”, anticapitalista e queer, ha preso posizione pubblica rispetto la Palestina, sostenendo che: “le persone queer conoscono bene cos’è l’oppressione e per praticare l’intersezionalità bisogna mobilitarsi in sostegno del popolo palestinese ”.

 

Rinnovare una tradizione femminista antimperialista

La debolezza della risposta del movimento femminista alla pulizia etnica in corso in Palestina è inseparabile dalla pressione politica esercitata negli ultimi giorni dal governo, dalla destra e dall’estrema destra a sostegno dello Stato di Israele, loro alleato strategico in Medio Oriente. Sfruttando le scene di presa di ostaggi e di violenza contro i civili israeliani, in particolare donne e bambini, stanno cercando di soffocare qualsiasi forma di protesta contro la sorte dei palestinesi, mobilitando le organizzazioni di sinistra, comprese le femministe, a favore del loro fronte contro il “terrorismo”.

Questo tipo di retorica non è una novità. Come spiega l’attivista femminista Angela Davis in “Una battaglia senza fine” (2016): “Mettere in primo piano la questione della violenza permette di nascondere le questioni al centro delle lotte emancipatorie. Questo era già successo in Sudafrica durante la lotta contro l’apartheid. È interessante notare che Nelson Mandela – che è stato acclamato come il più grande difensore della pace del nostro tempo – è stato tenuto nella lista nera dei terroristi negli Stati Uniti fino al 2008. La vera posta in gioco nella lotta per la liberazione della Palestina viene così minimizzata e oscurata da coloro che cercano di farci credere che la resistenza palestinese all’apartheid israeliana equivalga al terrorismo”.

Ma di fronte alle manovre dei difensori dell’imperialismo, il movimento femminista non è sempre stato così silenzioso. Dalla lotta per la liberazione dei neri negli Stati Uniti alla denuncia dell’intervento statunitense in Iraq e alla lotta contro l’apartheid in Sudafrica, all’interno del movimento femminile è emersa una tradizione internazionalista e antimperialista. Nel cuore della prima potenza imperialista del mondo, le militanti socialiste e afro-femministe hanno messo all’ordine del giorno il principio che, come sosteneva Audre Lorde nel 1981: “Non sono libera finché un’altra donna è privata della sua libertà, anche se le sue catene sono molto diverse dalle mie”.

Oggi, lottare per la libertà di tutte le donne significa sostenere la lotta del popolo palestinese contro lo Stato coloniale di Israele. Perché le donne palestinesi sono in prima linea nella miseria causata dalla pulizia etnica in corso, così come sono state in prima linea nelle guerre, negli spostamenti forzati e nell’apartheid imposti al popolo palestinese per oltre 70 anni. Ma anche perché la liberazione delle donne in tutto il mondo implica necessariamente la lotta contro l’imperialismo: i palestinesi che lottano per la loro autodeterminazione sono gli alleati delle donne e delle persone LGBT+ in Italia, Francia e negli Stati Uniti contro l’imperialismo di Macron e Biden. Questi ultimi sostengono Israele in Medio Oriente così come opprimono e contrastano diversi gruppi sociali sul territorio nazionale, con lo stesso obiettivo: proteggere un sistema capitalista patriarcale, in cui una minoranza vive a spese della grande maggioranza, dei popoli oppressi, delle donne e delle persone LGBT+.

Così, mentre le organizzazioni femministe che affermano di impegnarsi per l'”intersezionalità delle lotte”, si rifiutano oggi di prendere posizione sulla Palestina come se si trattasse di una questione estranea alla lotta femminista, è urgente far rivivere la tradizione antimperialista della lotta delle donne e delle persone LGBT+. Come spiega ancora Angela Davis: “Oggi siamo ancora sfidati a capire fino a che punto nozioni come razza, classe, genere, orientamento sessuale, nazionalità e disabilità siano inestricabilmente legate. Dobbiamo imparare ad andare oltre queste categorie per evidenziare le interazioni tra idee e processi che sembrano separati e non correlati. Insistere sulle convergenze tra le lotte contro il razzismo negli Stati Uniti e le lotte contro la repressione dei palestinesi da parte di Israele è, da questo punto di vista, un approccio femminista. (…) Così come la lotta contro l’apartheid in Sudafrica è stata sostenuta da persone di tutto il mondo ed è diventata un obiettivo prioritario per molti movimenti progressisti in tutto il mondo, la questione della solidarietà con la Palestina deve diventare una questione centrale per le organizzazioni e i movimenti emancipatori su scala globale”.

Dopo 75 anni di oppressione coloniale, il popolo palestinese, sparso nei campi profughi dei Paesi vicini come Libano, Siria e Giordania, ma anche a ovest dello Stato di Israele, in Cisgiordania, dove è soggetto a una politica di colonizzazione intensificata negli ultimi anni, e in quella vera e propria prigione a cielo aperto che è la Striscia di Gaza, continua a lottare per il proprio diritto all’autodeterminazione. In un momento in cui questo sostegno viene criminalizzato, il movimento femminista e LGBT+ dovrebbe schierarsi forte e chiaro al fianco di coloro che soffrono sotto il giogo coloniale, rivendicando il diritto all’autodeterminazione e alla possibilità di vivere con dignità.

Questa lotta è inseparabile dalla lotta contro il dirottamento della lotta femminista, incanalata per servire solo una minoranza di donne delle classi superiori deipaesi imperialisti. Per riacquistare forza politica, il movimento femminista deve tornare a raccogliere la sfida della liberazione di tutte le donne e di tutti i popoli oppressi. Questo compito pone il femminismo di fronte all’imperialismo. La lotta per l’emancipazione femminile è inscindibile dallo smantellamento del progetto imperialista che opprime le popolazioni dei paesi colonizzati, non solo da un punto di vista morale ma anche da un punto di vista strategico, per conquistare la maggioranza della popolazione al progetto femminista.

 

Denunciare il pinkwashing di Israele

Rinnovare questa tradizione significa anche denunciare a gran voce i tentativi di Israele di farsi passare per un alleato delle donne e delle persone LGBT+. La ricercatrice queer Jasbir Puar e Sarah Schulman, ex attivista di Act Up New York, hanno documentato i tentativi di Israele, almeno dal 2005, di migliorare la propria immagine internazionale sfruttando i diritti delle donne e delle persone LGBT+. La campagna Brand Israel, lanciata quell’anno dallo Stato di Israele con l’aiuto di agenzie di comunicazione, mirava a costruire un’immagine “moderna” e “progressista” per uno Stato che fino ad allora era stato visto soprattutto come “militarista” e “religioso”, al fine di conquistare la popolazione dei Paesi imperialisti al progetto sionista. Questa campagna prevedeva il finanziamento di spedizioni gratuite in Israele per le élite culturali europee e nordamericane in grado di documentare i loro viaggi e di trasmetterli al pubblico dei rispettivi Paesi. “La sfida che Brand Israel ha dovuto affrontare è stata immensa”, scrive Schulman. Nel 2009, in una classifica EastWest sulla percezione delle nazioni, Israele era al 192° posto su 200, dietro a Corea del Nord, Cuba, Yemen e Sudan”.

All’inizio degli anni 2010, aggiunge Schulman, il Ministero del Turismo israeliano ha proseguito i suoi sforzi di rebranding concentrandosi sul turismo gay in città come Tel Aviv, presentate come enclavi progressiste con una vivace scena queer. Si stima che nel 2011 il Ministero del Turismo e la municipalità di Tel Aviv abbiano investito oltre 94 milioni di dollari nel turismo gay. La campagna Brand Israel finanzia il “Mese dell’orgoglio israeliano” a San Francisco, simbolo della comunità LGBT+ negli Stati Uniti. Questa politica riguarda anche la Francia. Nel 2013, la serata ufficiale dell’Europride a Marsiglia è stata intitolata “Forever Tel Aviv” e i primi due beneficiari del matrimonio omosessuale in Francia sono stati invitati alla parata dell’orgoglio gay di Tel Aviv dall’ufficio turistico della città. L’ufficio del turismo di Tel Aviv ha partecipato anche alla marcia dell’orgoglio di Parigi in diverse occasioni.

Si stanno compiendo sforzi speciali anche per rivedere l’immagine di Tsahal (o IDF), l’esercito israeliano colpevole di crimini di guerra e dell’uccisione di civili palestinesi. Poiché il servizio militare obbligatorio in Israele non è esclusivamente maschile, lo Stato di Israele sta cercando di legittimare il proprio esercito evidenziando il ruolo svolto dalle donne soldato come segno di progresso. Sui principali media statunitensi, come Vice, sono apparsi articoli che mettono in risalto “ritratti fotografici intimi di donne soldato dell’IDF”, volti ad ammorbidire l’immagine dell’esercito dello Stato dei coloni. Il media sionista Times of Israel ha pubblicato un’intervista a una soldatessa lesbica dello Tsahal, presentando l’esercito israeliano come uno dei “più progressisti al mondo”, addirittura “più avanti” dello stesso Stato. “Amo l’IDF. Penso che l’esercito sia l’unico posto in cui non siamo discriminati in termini di retribuzione. Che tu sia un ufficiale uomo o donna, ricevi lo stesso stipendio”, afferma entusiasta.

Infine, su TikTok, le donne soldato di Tsahal conducono da anni una vera e propria campagna di disinformazione sul conflitto, utilizzando i codici delle influencer femminili sui social network.
È il nuovo volto della propaganda nazionalista a favore della guerra.

Per quasi due decenni Israele, con il sostegno dei paesi imperialisti, ha condotto una propaganda volta a presentare lo Stato dei coloni come una democrazia liberale che, come i Paesi dell’Europa e del Nord America, è stata all’avanguardia nella liberazione dei queer e delle persone LGBT+. Eppure, come scrive Schulman, i magri progressi fatti per una parte della popolazione israeliana – il matrimonio gay, ad esempio, è ancora fuorilegge – e soprattutto per i turisti LGBT+ provenienti dalle classi alte dei Paesi imperialisti, convivono in Israele con la brutale oppressione dei palestinesi, sia all’interno che all’esterno dello Stato ebraico.

Il luccichio del Tel Aviv Pride non può cancellare la segregazione razziale, la detenzione di migliaia di prigionieri politici o i bombardamenti sui civili. La vetrina democratica del sostegno alle lotte femministe e LGBT+ non può mascherare la situazione di uno Stato coloniale, che opprime i palestinesi e beneficia del sostegno delle principali potenze occidentali per garantire la posizione strategica dell’imperialismo in Medio Oriente.

 

Femministe e attivisti LGBT+ antimperialisti: sosteniamo la lotta del popolo palestinese!

Nel maggio 2021, durante gli scontri armati nella Striscia di Gaza in cui Tsahal ha ucciso 256 palestinesi, tra cui 66 minorenni, il Palestinian Feminist Collective, con sede negli Stati Uniti, ha lanciato un appello alle femministe di tutto il mondo: “La Palestina è una questione femminista. Affermiamo la vita e imploriamo le femministe di tutto il mondo di parlare, organizzarsi e unirsi alla lotta per la liberazione della Palestina”.

Femministe e attivisti LGBT+, è nostro dovere politico rispondere a questo appello e iscrivere il nostro femminismo nell’eredità delle lotte delle donne che hanno combattuto contro il colonialismo francese e britannico, contro la segregazione razziale e l’apartheid negli Stati Uniti e in Sudafrica. Dopo decenni di pinkwashing, è ora di dimostrare che gli attivisti LGBT+ non giocheranno il ruolo di garanti di uno Stato coloniale, basandosi sulle lotte e sul lavoro di molti attivisti femministi e LGBT+ che hanno evidenziato la necessità di collegare queste lotte all’antimperialismo.

Esiliato a Parigi dalla fine degli anni Quaranta, lo scrittore gay e attivista per i diritti civili James Baldwin si sentì profondamente coinvolto dalla lotta di liberazione nazionale algerina, scrivendo in No Name In The Street (1972): “Il loro destino era in qualche modo legato al mio, la loro lotta non era solo la loro, ma anche la mia, e divenne una questione d’onore per me non tentare di eludere il peso di questa realtà”. Sulla stessa linea, più recentemente, Leslie Feinberg, comunista nordamericana, ebrea e attivista LGBT+, ha spiegato: “Non credo che la nostra sessualità, la nostra espressione di genere e i nostri corpi possano essere liberati senza che una feroce mobilitazione contro la guerra imperialista e l’ antirazzismo sia parte integrante della nostra lotta. Il grado di progresso o di rivoluzione di un movimento si misura dalla sua indipendenza dai governanti della società che cerca di cambiare”.

Di fronte alle pressioni imperialiste per legittimare quella che non è altro che una pulizia etnica di massa mascherata da operazione militare contro il “terrorismo”, le organizzazioni del movimento delle donne devono sostenere incondizionatamente la lotta di liberazione nazionale dell’intero popolo palestinese contro lo Stato coloniale di Israele. Per porre fine al regime di apartheid, è urgente difendere la prospettiva di una lotta di massa dell’intero popolo palestinese, insieme ai lavoratori, ai giovani e alle donne di tutti i Paesi della regione che si stanno sollevando, come abbiamo visto di recente in Iran dopo l’assassinio di Mahsa Amini, ma anche insieme ai lavoratori israeliani che stanno rompendo con il sionismo e scegliendo di affrontare lo Stato di Israele come proprio sfruttatore e oppressore.

Il diritto fondamentale del popolo palestinese all’autodeterminazione richiede lo smantellamento dello Stato sionista di Israele e della sua macchina militare. La legittima aspirazione nazionale dei palestinesi può essere effettivamente e pienamente garantita solo dalla creazione, con mezzi rivoluzionari, di una Palestina operaia e socialista su tutto il territorio storico, in cui le popolazioni arabe ed ebraiche possano vivere insieme in pace e uguaglianza.

"Il pane e le rose" nasce nel 2019 e riunisce militanti della Frazione Internazionalista Rivoluzionaria (FIR) e indipendenti che aderiscono alla corrente femminista socialista internazionale "Pan y Rosas", presente in molti paesi in Europa e nelle Americhe