Dopo “Donna, vita, libertà: prospettive strategiche sulla rivolta in Iran, traiamo i primi insegnamenti dall’esperienza della rivolta femminista scoppiata in Iran lo scorso anno, elaborando la crisi iraniana, problematizzando il carattere ribellista della rivolta e ponendo le questioni strategiche chiave in relazione alle recenti riflessioni proposte da Matías Maiello nel suo libro “Dalla mobilitazione alla rivoluzione“.


L’omicidio di Mahsa Jina Amini per mano della polizia iraniana lo scorso settembre ha scatenato un’ondata di proteste in tutto il paese. L’evoluzione di queste proteste in un’ampia rivolta contro il regime iraniano, uno dei più importanti processi di lotta di classe in Iran dai tempi della rivoluzione iraniana del 1979, ha generato un terremoto politico e ha ispirato le donne e i lavoratori di tutto il mondo. Un anno fa, molti a sinistra caratterizzarono queste proteste come un nuovo, moderno tipo di “rivoluzione” femminista guidata dalle donne. A quasi un anno di distanza, le proteste stanno retrocedendo e il regime ha intensificato l’offensiva contro le donne che rifiutano l’hijab e che minacciano le fondamenta del regime clericale instaurato dopo la “rivoluzione islamica”. Lo sviluppo concreto del movimento e la sua repressione da parte del regime sollevano importanti questioni strategiche per le masse iraniane che lottano contro il doppio fardello di un regime oppressivo e delle sanzioni imperialiste.

Mahsa Jina Amini, una donna di 22 anni di etnia curda, è diventata il volto della crisi sociale e dell’oppressione patriarcale dell’Iran. Mentre Mahsa era il suo nome ufficiale persiano agli occhi del governo, il suo vero nome curdo, che non poteva essere registrato, era Jina. Appena ammessa all’università, nel settembre dello scorso anno è stata arrestata a Teheran con l’accusa di indossare il tradizionale copricapo femminile (hijab), come prescrive la legge iraniana, in maniera troppo lassa. Jina è stata picchiata brutalmente dalla polizia “morale” politico-religiosa iraniana ed è morta tre giorni dopo per un’emorragia cerebrale. Questo episodio è diventato il simbolo di un ordine politico da “prigione a cielo aperto”, sotto un regime che opprime le minoranze etniche promuovendo un’identità “persiana-sciita”. Lo Stato quasi-teocratico iraniano cerca di irreggimentare la gioventù bollando i suoi fermenti culturali e i suoi malumori come perdizione filo-occidentale. Ciò s’impone a partire dal clima bigotto-poliziesco nelle scuole e nelle università, mentre si mantengono le donne in un ruolo di sudditanza con il suggello all’autorità del clero sciita che presiede all’ applicazione della legge coranica, la Shari’a.

Questo clima ha catalizzato un movimento di cui sono state protagoniste le donne iraniane e le minoranze etniche come le comunità curde e beluci, rispettivamente concentrate sul confine nord-occidentale e su quello sud-orientale. Nelle settimane successive tale movimento si è allargato fino a coinvolgere segmenti sempre più ampi di giovani nelle città e nelle università. Man mano che il movimento si è evoluto in una vera e propria rivolta, con richieste aperte di rovesciamento del regime politico, manifestazioni illegali e scioperi, ha provocato una risposta sempre più violenta da parte del governo, spesso sfociata in violenti scontri di piazza. Ad oggi, almeno 500 persone sono state uccise, migliaia ferite e almeno 20.000 arrestate. Anche queste cifre non dimostrano appieno la brutalità della repressione: la polizia ricorre all’impiccagione come tattica e ha ucciso almeno 70 minorenni, alcuni dei quali avevano solo 9 anni. Questo ricorso al terrore e all’intimidazione è stato un pilastro della capacità del regime di rimanere a galla, soprattutto durante le successive rivolte degli ultimi anni, dalle proteste contro le riforme economiche del 2017, 2018 e 2019 alla “rivolta degli assetati” del 2021.

La rivolta scatenata dall’omicidio di Jina Amini, nota come movimento “Donna, vita, libertà”, prosegue questa ondata di lotta di classe. I giovani diseredati delle città sono protagonisti delle proteste, così come i settori della classe operaia. Ciò riflette una tendenza più ampia di riattivazione della classe operaia sulla scena politica di tutto il mondo, nel contesto del declino dell’egemonia neoliberale-occidentale e della profonda crisi della fase storica della restaurazione borghese, legata al concetto di globalizzazione “pacifica” tra gli anni ’90 e il 2010.

Anche se le azioni della classe operaia sono state limitate per tutta la durata della rivolta di Donna, Vita, Libertà, la tendenza a far rivivere la tradizione combattiva proletaria iraniana è continuata. Uno degli esempi più avanzati è stato lo sciopero dei lavoratori dell’auto Crouse in risposta al brutale assassinio di Jina, organizzato da più di 300 lavoratrici. Anche i collettivi di lavoratori, come il Consiglio per l’organizzazione degli scioperi dei lavoratori del petrolio e il sindacato dei lavoratori dello zuccherificio Haft Tappeh, organizzarono scioperi a sostegno del movimento. La promettente formazione di comitati nei luoghi di lavoro, nelle scuole e nei quartieri durante la recente rivolta femminista, anche se di portata limitata, rimanda agli incipienti organismi di auto-organizzazione (noti in farsi come shoras) che si sono formati dal 1978 in poi.

Ciononostante, l’ultima rivolta, pur con tutti i suoi meriti, non ha compiuto il salto qualitativo tra una rivolta e una rivoluzione – il che significa che la rivolta ha mantenuto un importante grado di spontaneità e che i settori coinvolti nelle proteste sono stati prevalentemente atomizzati, mancando l’elemento chiave dell’egemonia della classe operaia che potrebbe usare il suo potere sociale e le sue posizioni strategiche per unire tutti i settori in lotta e porre una valida alternativa all’egemonia borghese esistente. La mancanza di sviluppo a questo livello, quindi, ha limitato il potenziale del movimento di sostituire l’ordine esistente, come devono fare le rivoluzioni di successo. Dunque, gli iraniani si trovano di fronte a un bivio strategico, segnato dai flussi e riflussi della lotta di classe: una storica crisi economica e sociale, e l’urgente necessità di elaborare un programma, una strategia e metodi di lotta per abbattere l’odioso regime del paese e sostituirlo con qualcosa di socialmente e politicamente diverso. Ciò è reso ancora più urgente alla luce della vaghezza del movimento su come sarebbe una società democratica post-regime e su come ottenerla; molto spazio è lasciato alle componenti liberali, conservatrici e persino monarchiche, legate ai vecchi settori della classe dirigente iraniana in esilio, nonché alle potenze imperialiste occidentali, in particolare gli Stati Uniti.

 

Il carattere e la crisi del regime iraniano

Prima di proporre un’analisi più approfondita dei limiti soggettivi della lotta iraniana e delle idee per superarli, è necessario sviluppare una caratterizzazione oggettiva del regime nazionalista quasi-teocratico iraniano, che si trova ad affrontare una crisi strutturale e interna che è stata esacerbata dalle sanzioni imperialiste, in particolare da quelle di “massima pressione” attuate da Trump nel 2018 e proseguite e ampliate dall’amministrazione Biden. Come mostra un recente studio, “l’Iran è stato sottoposto al programma di sanzioni più esteso al mondo per buona parte dell’ultimo decennio”. Uno degli effetti collaterali del tentativo di strangolamento economico dell’Iran a livello internazionale è stato lo sviluppo di legami economici e strategici più profondi tra l’Iran e la Cina: l’Iran ha importanti implicazioni di sicurezza geostrategica per la Cina ed è un suo potenziale alleato nei confronti futuri con gli USA, oltre che un fornitore chiave di risorse energetiche per l’espansionismo cinese.

Dopo la guerra in Ucraina, anche le relazioni militari tra la Russia e l’Iran si sono ampliate: l’Iran è diventato un importante fornitore di armi per il regime di Putin e sostiene apertamente una vittoria russa. Ciò è alla base delle crescenti relazioni tra il blocco informale tripartito tra Cina, Russia e Iran. Sebbene non si tratti necessariamente di un “blocco imperialista” come lo descrivono anche alcune correnti di sinistra, questa alleanza esprime le ambizioni imperialiste di queste potenze: dalle politiche sviluppiste-imperialiste della Cina, che mirano a sfidare l’egemonia statunitense su scala globale, al marchio di “imperialismo militare” della Russia nella sua zona di influenza (come si è visto in modo più eclatante in Ucraina). Per l’imperialismo statunitense, la retorica del cosiddetto “asse delle tirannie” che minaccia il mondo “democratico” offusca la minaccia strategica che queste potenze rappresentano per gli interessi dell’egemone in declino. Ciò è particolarmente vero in regioni come il Medio Oriente, dove la Cina ha recentemente dimostrato di essere un attore importante, quando ha orchestrato una normalizzazione delle relazioni tra i regimi saudita e iraniano – due dei più importanti rivali nella regione.

L’emergente campo revisionista guidato dalla Cina è, di per sé, tutt’altro che un polo “progressista”, nonostante i suoi discorsi su un mondo multipolare pacifico e prospero. È un’alleanza che cerca soprattutto di proteggere gli interessi delle borghesie nazionali e regionali di queste nazioni, ma non è priva di contraddizioni: in particolare, l’Iran e la Russia sono in concorrenza come fornitori di petrolio. Nonostante l’avvicinamento alle potenze eurasiatiche, l’Iran continua a trovarsi in qualche misura subordinato agli interessi del capitale occidentale: le sanzioni paralizzanti imposte dai paesi imperialisti non solo escludono l’Iran dai circuiti del capitale occidentale, ma influiscono anche sulla sua capacità di fare affari con paesi come la Cina, che si è tirata fuori da progetti economici proposti in passato per evitare potenziali sanzioni statunitensi.

Dal punto di vista strategico, quindi, l’obiettivo del regime iraniano (e delle diverse ali sotto di esso) è quello di annullare le sanzioni imposte dall’Occidente, in particolare quelle di “massima pressione” imposte dall’amministrazione Trump e proseguite sotto Biden. Date le accresciute tensioni geopolitiche e gli attriti interni sia negli Stati Uniti che in Iran, la fantasia diplomatica di tornare alle condizioni dell’accordo nucleare del 2015 diventa più complicata. Senza importanti passi avanti in termini di negoziati, i due paesi si sono impegnati in episodi tattici di escalation e de-escalation (lo Stretto di Hormuz, ad esempio, è stato teatro di numerosi scontri, anche sconfinanti sul territorio iracheno come nel caso dell’assassinio del generale Soleimani) per ottenere concessioni attraverso un gioco al rilancio. Di recente, Iran e USA hanno raggiunto un accordo per lo scambio di prigionieri che include la restituzione al regime iraniano di miliardi di dollari di beni congelati.

Naturalmente, la classe lavoratrice ha dovuto pagare il prezzo più alto per la grave crisi strutturale dell’Iran, mentre il regime si è ritirato per proteggere i propri interessi. Negli ultimi anni, il peso delle sanzioni di “massima pressione”, i piani di austerità sostenuti dal FMI e l’iperinflazione hanno provocato uno scenario in cui anche settori della tradizionale base sociale operaia del regime sono scesi in piazza e hanno scioperato in risposta all’intensificarsi delle contraddizioni di classe: dai lavoratori del settore petrolifero e siderurgico agli insegnanti, agli autisti di autobus, ai lavoratori delle ferrovie e ai lavoratori del settore dei trasporti.

Allo stesso tempo, la classe lavoratrice iraniana porta con sé l’eredità della rivoluzione del 1979, in cui ha svolto un ruolo decisivo nella caduta del brutale regime Pahlavi installato dall’imperialismo, dopo mesi di sciopero generale lanciato dai lavoratori del settore petrolifero che controllavano alcuni dei pozzi e delle raffinerie di petrolio più importanti del mondo. Gli scioperi nel settore petrolifero hanno contribuito in modo determinante anche al successo di altre svolte storiche, come quella del 1946, quando i lavoratori di quel settore imposero la nazionalizzazione dell’industria petrolifera iraniana e la partenza definitiva di tutte le forze coloniali nel 1951, prima della rappresaglia dell’imperialismo sotto forma di colpo di Stato.

A partire dal 1978, questi lavoratori hanno guidato un processo eterogeneo di auto-organizzazione nell’ambito di incipienti consigli operai nati dai comitati di sciopero dello sciopero generale, gli shoras. Tale processo portò all’esproprio della maggior parte delle grandi fabbriche industriali iraniane. Gli shoras incorporarono anche i consigli dei contadini e dei quartieri, soprattutto nelle regioni in cui si concentrano le minoranze oppresse dell’Iran. Alcune regioni curde si spinsero fino a una vera e propria ribellione. Questo processo è stato soffocato dal consolidamento del potere di Khomeini – che formalmente appoggiava il processo rivoluzionario. In questo contesto, le debolezze soggettive della sinistra iraniana divennero evidenti: essa non fu in grado di proporre un’alternativa politica indipendente dalle forze borghesi; il più delle volte promosse una politica di collaborazione di classe associata a un discorso populista. Ciò portò in particolare alla tragedia dello storico partito comunista, il Tudeh (“Partito delle masse dell’Iran”), di gran lunga la principale forza della sinistra dal 1944 in poi, che articolò la strategia stalinista del fronte popolare sostenendo il governo islamista emerso dopo le elezioni del 1981, che avevano visto i fedeli di Khomeini prevalere a danno del Tudeh stesso e degli altri partiti sostenitori della rivoluzione. Il Tudeh sdoganò da sinistra dentro il paese l’idea che Khomeini e il partito del suo stretto alleato Ali Khamenei, il Partito della Repubblica Islamica, rappresentassero la continuità del processo rivoluzionario, per quanto con limiti criticabili, e dunque fossero alleati “popolari” che potevano essere appoggiati. Il risultato di questa politica fu soltanto quello di rimandare di un anno l’arresto del suo gruppo dirigente prima e di migliaia di militanti poi, di cui molti furono sterminati dal regime, così come era successo alle opposizioni di sinistra.

La devastante guerra Iran-Iraq, uno dei conflitti più letali del XX secolo, ha contribuito a consolidare il regime reazionario iraniano dopo che gli Stati Uniti avevano effettuato una politica di “doppio contenimento”, inviando armi a entrambe le parti, sperando contemporaneamente di vincolare il regime ostile di Saddam Hussein e di destabilizzare il processo rivoluzionario in Iran. L’economia di guerra degli anni ’80, tra le altre cose, ha portato a un processo di “statalizzazione” che ha costituito le fondamenta di una nuova classe dirigente iraniana, il cui potere economico si basa sulla gestione delle vaste ricchezze petrolifere del paese, organizzata in varie organizzazioni para-statali chiamate bonyad (“fondazioni”) che agiscono come conglomerati commerciali, con forti legami con le forze militari.

Prima della rivoluzione, il regime dello scià sotto Mohammad Reza Pahlavi, salito al potere dopo un colpo di Stato guidato dagli Stati Uniti, era un pilastro fondamentale del dominio yankee in Medio Oriente e fu in grado di allestire un esercito forte con armi sofisticate. Il regime dello scià è servito come gendarme del Golfo Persico per l’imperialismo statunitense, come dimostra il dispiegamento di forze iraniane per sedare la quasi decennale ribellione del Dhofar in Oman, guidata dai marxisti. Questo stesso apparato repressivo permise allo scià di assassinare 3.000 manifestanti nel “venerdì nero” dell’8 settembre 1978: l’evento chiave che per reazione galvanizzò le aspirazioni democratiche delle masse e innescò l’inizio della rivoluzione. Per ironia della sorte, le forze di questo apparato repressivo, ora nelle mani del regime islamico, sono state ampliate sfruttando le ricchezze petrolifere del Paese, dopo averne epurato i vertici lealisti monarchici.

Questi fattori contraddittori contribuiscono a spiegare le caratteristiche dell’Iran come potenza regionale, con un’economia relativamente debole, basata principalmente sul petrolio e ancora molto subordinata al capitale finanziario globale (come dimostra la recente richiesta di prestito al FMI durante la pandemia), ma con un esercito relativamente forte. È importante notare che l’Iran è stato in grado di rafforzare politicamente e militarmente la sua influenza regionale dopo gli eventi delle guerre avventuristiche dell’imperialismo statunitense nella regione. E, sulla scia della Primavera araba (cfr. Del Panta, Giampaolo, Lodi 2021), l’Iran ha ulteriormente consolidato una “sfera di influenza” regionale che comprende, tra gli altri, il governo iracheno, il regime siriano, la milizia Hezbollah in Libano, Hamas in Palestina e l’insurrezione Houthi nello Yemen. Al di là di questi fattori geopolitici, come possiamo comprendere il contenuto di classe dell’Iran contemporaneo?

Fin dall’inizio del contrastato processo rivoluzionario in Iran, le caratteristiche peculiari del regime islamico che ne è emerso sono state oggetto di dibattito. Da un lato, gli analisti postcoloniali dello Stato iraniano post-rivoluzionario tendono a teorizzare i fenomeni sociali e storici in riferimento alle caratteristiche “interne” e culturali di un regime. In questo senso, Foucault (che è stato testimone in prima persona della rivoluzione in Iran), ha proposto una ricetta postmodernista per il nascente regime iraniano, offrendo un’immagine romanzata del nuovo regime a partire dalla retorica antimperialista di cui esso si serviva [Afary & Anderson 2005:39].

Così facendo, la sua analisi ha alimentato il mito di una borghesia nazionale progressista, che non solo ignora o minimizza il carattere di classe e la natura reazionaria del regime, ma nega il potenziale della classe operaia multiculturale iraniana nel processo. Ancora oggi, un piccolo settore della sinistra si aggrappa all’idea che il regime iraniano o l’Islam politico offrano un contrappunto discorsivo, o addirittura un’alternativa, all’imperialismo occidentale.

Dall’altro lato, un settore molto più ampio, influenzato dal discorso utilizzato dal liberalismo occidentale, propone una valutazione del regime iraniano come “medievale” o “islamofascista”, con scarsa considerazione per gli interessi di classe antagonisti che hanno fatto da sfondo alla rivolta. Questa caratterizzazione appiattisce la rivoluzione su un piano di lotta generalizzato che cerca di contrapporre il “facismo” alla “democrazia”. In effetti, l’odio per il detestabile e reazionario regime iraniano viene incanalato in una prospettiva di conciliazione di classe, che ripone fiducia in una borghesia più “democratica” all’interno o all’esterno dell’Iran. 

Per quanto riguarda la definizione stessa di fascismo, all’interno della tradizione marxista, il fascismo si riferisce a un movimento reazionario per conto del capitale imperialista, che è senza dubbio più concentrato, per liquidare qualsiasi possibilità di rivoluzione operaia di fronte a un’intensa lotta di classe. Riconoscere che il regime iraniano non rientra in questa caratterizzazione non significa certo farne un’apologia. I regimi fascisti veri e propri erano nettamente meno democratici della Repubblica islamica iraniana, mancavano di elezioni di qualsiasi tipo e concentravano il potere politico nella figura unica del dittatore, che si pensava costituisse un grande balzo in avanti. Ciò è in contrasto con i regimi bonapartisti, che si bilanciano tra le ali concorrenti della borghesia per apparire come portavoce dell'”interesse nazionale” sia dei capitalisti che delle masse lavoratrici, e con altri tipi di regimi reazionari.

La comprensione marxista dello Stato post-rivoluzionario iraniano è invece legata al processo di sviluppo capitalistico in Iran e agli interessi di classe dei capitalisti, che a loro volta contribuiscono a spiegare alcune delle caratteristiche di sfruttamento e oppressione dell’economia capitalistica iraniana. In particolare, l’attuale regime è il prodotto delle crisi interne ed esterne degli anni Ottanta. La sconfitta della rivoluzione iraniana stessa è stata un fattore di sconfitta strategica di un ciclo di lotta di classe dalla fine degli anni ’60 alla fine degli anni ’70 in tutto il mondo, insieme all’esaurimento del ciclo di accumulazione capitalistica del dopoguerra e alla devastazione dell’economia iraniana a causa della guerra Iran-Iraq. La relazione dialettica tra questi fattori interni ed esterni ha creato le condizioni oggettive affinché un settore della classe dirigente (che alla fine si è consolidato nell'”ala moderata”) vedesse l’integrazione nelle catene globali del valore del capitale occidentale (e, in particolare, europeo), l’aggiustamento strutturale e lo sviluppo orientato al mercato come una strategia di sviluppo alternativa per generare crescita economica.

In questo contesto, nel giugno 1990, una delegazione congiunta del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e della Banca Mondiale visitò Teheran per la prima volta, un decennio dopo la rivoluzione. Nello stesso mese, il regime approva il primo Piano di sviluppo quinquennale, dando il via a un processo disomogeneo di riforme neoliberali sotto i due governi successivi di Akbar Hashemi Rafsanjani (presidente dal 1989 al 1997) e Mohammad Khatami (1997-2005). Nel 2005, la fazione “integralista” è tornata al potere con Mahmoud Ahmadinejad: come ex Guardia Rivoluzionaria, Ahmadinejad era strettamente legato alle forze repressive dell’apparato statale e conquistò una base popolare denunciando i settori dell’élite dominante che si erano particolarmente arricchiti con l’offensiva neoliberista e sviluppando una vaga retorica, poi smentita dal suo operato, di giustizia sociale e redistribuzione della ricchezza.

Sotto Ahmadinejad, il processo di neoliberalizzazione si è spostato a favore della borghesia di più antica tradizione e delle forze militari. Grazie all’aumento dei prezzi del petrolio, Ahmadinejad fu in grado di implementare l’espansione dei sussidi per i poveri, ampliando al contempo i poteri dell’apparato repressivo. Tuttavia, nel 2009 il Movimento Verde mise in luce una grande spaccatura: da un lato, la vecchia guardia e i tradizionali difensori della rivoluzione islamica; dall’altro, la borghesia di orientamento pro-occidentale che ha incanalato le aspirazioni democratiche di quegli elementi della classe media che sono scesi in piazza per protestare contro la rielezione di Ahmadinejad. Nel contesto di questa crisi, le caratteristiche bonapartiste del regime si sono rafforzate, come dimostra in particolare il ruolo della forza paramilitare Basij, utilizzata per schiacciare il movimento e per far fronte alla crescente radicalizzazione. Nel 2013 è stato eletto Hassan Rouhani, un clericale legato all’opposizione del Movimento Verde. Sotto il suo mandato, l’accordo sul nucleare, che lui stesso ha contribuito ad architettare, ha rappresentato la speranza di un sollievo economico per le masse. Tuttavia, la dottrina neoliberista iraniana e l’aumento dello sfruttamento nei posti di lavoro sono stati il marchio di fabbrica del governo Rouhani, soprattutto dopo l’accordo nucleare, nel tentativo di rendere l’Iran un ambiente attrattivo per gli investitori stranieri, a tutto danno della classe lavoratrice. Secondo alcune stime, il 97% dei lavoratori in Iran è assunto con contratti temporanei, senza premi di produzione, diritti legali o organizzazioni formali come i sindacati.

 

I limiti del populismo di sinistra

Il sociologo irano-americano Asef Bayat è tra i più prolifici studiosi dei movimenti sociali nei paesi MENA (Medio Oriente e Nord Africa). Nel suo libro Revolution without revolutionaries (2017), Bayat contrappone la rivoluzione iraniana ai processi emersi durante la Primavera araba: egli scompone e analizza il carattere di rivolta dei vari movimenti della Primavera araba per meglio afferrare la natura dei processi di lotta di classe emersi dopo la fine della Guerra Fredda. L’autore chiama questi processi “rifoluzioni”: mobilitazioni che, invece di proporre una visione alternativa alle istituzioni contro cui si sollevavano, chiedono allo Stato di riformarsi. L’analisi di Bayat fa una comparazione corretta tra questi processi e le rivoluzioni con caratteristiche più “classiche”, come quelle del XX secolo, dove i rivoluzionari “come Lenin o Trotsky avevano una risorsa intellettuale e avevano nel loro pacchetto ideologico un’analisi dello Stato”, nonché organizzazioni politiche e programmi rivoluzionari informati dai movimenti socialisti e antimperialisti, come Bayat elabora [Herrera & Khalil 2017].

Pur confrontandosi con la strategia rivoluzionaria marxista, il lavoro di Bayat passa all’offensiva contro quello che definisce “marxismo riduzionista”, una visione che, a suo avviso, limita l’analisi di classe alle lotte economiche a scapito delle questioni di oppressione. Questa preoccupazione è per molti versi una reazione a distorsioni del marxismo, come lo stalinismo che ha tradito i gruppi oppressi smantellando le politiche progressiste istituite dalla rivoluzione bolscevica, ma anche alle idee proposte da un settore dell’ala del DSA che fa capo alla rivista Jacobin (con posizioni diverse da Jacobin Italia), che promuove un tipo di economicismo che enfatizza le richieste economiche [“Trump’s Kryptonite: How Progressives Can Win Back the Working Class” 2023]. Nel problematizzare il riduzionismo di classe, tuttavia, Bayat cade in un altro tipo di riduzionismo, quello che riduce l’identità della classe operaia alla categoria della “gente comune”. Come elabora Matías Maiello nel suo libro De la movilización a la revolución (2022), queste varianti di una sorta di populismo di sinistra condividono le stesse idee di pensatori “post-marxisti” come Ernesto Laclau e Chantal Mouffe. Questi teorici propongono un riduzionismo populista che si adatta a uno dei principali problemi strategici affrontati dai movimenti di lotta di classe, in particolare dopo la crisi del 2008: l’assenza di egemonia della classe operaia.

Queste idee nascono da una realtà sociologica: la classe operaia si è espansa diventando molto più eterogenea e frammentata dopo l’offensiva neoliberista. In altre parole, la caricatura di una classe operaia composta in gran parte da lavoratori industriali inquadrati in un certo modo, ancora apparentemente impressa nella nostra coscienza collettiva, offre un riflesso limitato della classe operaia di oggi. In realtà, la classe operaia comprende una varietà di “identità” diverse: i lavoratori dei settori precari, i lavoratori sindacalizzati e non, i disoccupati, le donne, i gay, le minoranze razziali e religiose, tra le altre categorie. In questo senso, il rapporto tra classe operaia e questioni d’oppressione è oggi più organico ed evidente, contrariamente a quanto affermano il riduzionismo economico e le articolazioni populiste. È quindi fondamentale sviluppare una prospettiva che tenga conto delle richieste dei vari strati sociali delle classi subalterne, ma che identifichi ancora la classe operaia come la forza sociale più strategica per la trasformazione socialista. Solo la classe operaia ha l’interesse intrinseco e il potere decisivo per paralizzare la società capitalista dalle ‘posizioni strategiche’ che la tengono in piedi, dai trasporti alle grandi industrie.

Bayat sviluppa ulteriormente la sua versione della soggettività populista che ha caratterizzato la strategia della maggior parte dei processi sociali contemporanei, appropriandosi di Gramsci, o quanto meno della sua terminologia, per postulare una concezione della rivoluzione che implica “lotte incessanti nella società civile per costruire l’egemonia a favore di un nuovo ordine sociale” (. In altre parole, per Bayat, la chiave per sfidare il dominio egemonico della classe dominante è lo sviluppo organico di discorsi controegemonici progressisti incorporati nei movimenti popolari. Questo approccio all’egemonia lascia i movimenti aperti a interessi antagonisti di altre classi e, così facendo, cade nelle stesse trappole dei discorsi “populisti del terzo mondo” o “populisti di sinistra” che storicamente sono caduti in strategie di collaborazione di classe, compresa la strategia ‘dall’alto verso il basso’ che ha caratterizzato la Rivoluzione iraniana e le sue conseguenze.

Al contrario, una concezione ‘dal basso verso l’alto’ dell’egemonia richiede una chiara articolazione del ruolo della classe operaia. Nel suo libro Hegemonia y lucha de clases (2018), Juan Dal Maso ricollega la nozione di egemonia di Gramsci alla tradizione del marxismo rivoluzionario, difendendone il legame con la classe. Dal Maso recupera così l’idea di un’egemonia della classe operaia dal basso verso l’alto, che propone una politica per unire i gruppi oppressi dietro di sé, evitare che la classe dominante sfrutti le divisioni tra questi ultimi per portare a termine i suoi progetti di conservazione e, infine, per guidare la trasformazione della società.

Uno degli esempi più avanzati di questa idea si trova in un’esperienza storica poco conosciuta della Rivoluzione russa, che nacque dagli audaci tentativi del governo bolscevico di collegare le cause dei lavoratori e delle minoranze oppresse, proponendo una politica nei confronti delle donne musulmane per l’organizzazione delle “più oppresse tra gli oppressi”, quelle donne che affrontavano molteplici catene di oppressione patriarcale, sfruttamento, colonialismo e pregiudizio religioso” [cfr. Robles 2023].

Durante i primi anni della Rivoluzione russa, la dirigente comunista Clara Zetkin si recò a Tiflis, in Georgia, per visitare il club delle donne musulmane, fondato da donne rivoluzionarie nella regione del Caucaso. Questi club e spazi organizzativi avevano l’obiettivo di incoraggiare l’auto-organizzazione delle donne, aiutare la loro formazione politica e promuovere la loro partecipazione consapevole alla lotta per il socialismo, in regioni in cui i pregiudizi patriarcali e religiosi pesano molto. Anche se questo orientamento non era privo di contraddizioni (e alla fine fu distrutto dallo stalinismo), esso mostrava come la classe operaia potesse conquistare le masse popolari oppresse come alleate e che i compiti democratici sono inseparabili dal potere operaio e dalle misure socialiste.

 

Applicare la logica delle rivendicazioni di transizione

Finora abbiamo sostenuto la necessità dell’emersione della classe operaia iraniana come soggetto politico egemone. Con la sua forza strategica e la sua capacità di unificare politicamente molti gruppi subalterni, la classe operaia potrebbe aiutare la rivolta a trasformarsi in una vera e propria rivoluzione sociale. Ma come? Con quale metodo e con quale programma? Le evidenti difficoltà nell’elaborare un programma unificante per il movimento in corso dimostrano quanto questo compito sia vitale per la sopravvivenza stessa del movimento. Tale programma non solo deve unificare i lavoratori e i settori oppressi, ma deve anche essere utilizzato come strumento per emarginare quei settori borghesi e monarchici che cercano di affermare una contro-egemonia con politiche adatte ai loro fini.

Lo dimostra la carta congiunta di richieste minime diffusa a febbraio da venti importanti sindacati iraniani indipendenti, gruppi femministi e organizzazioni studentesche che chiedono “una società nuova, moderna e umana nel paese”, priva di contenuti di classe e che invoca soluzioni ‘dall’alto’ come la normalizzazione delle relazioni con l’estero. Dal punto di vista strategico, il contenuto di questo programma implica la logica della formazione di un fronte popolare con una borghesia più ‘democratica’, sia attraverso una strategia parlamentare che riformi le istituzioni dello Stato borghese iraniano, sia attraverso un cambio di regime (“regime change”) guidato dall’imperialismo, come sostenuto da alcuni espatriati e attivisti in esilio.

Presenta un problema analogo il recente programma pubblicato da un raggruppamento di sei comitati rivoluzionari regionali, la Gioventù Rivoluzionaria dei quartieri di Sanandaj, il Comitato Rivoluzionario di Gilan, il Comitato Javad Nazari Fatahabadi, il Comitato della Gioventù Rivoluzionaria Rossa di Mahabad, il Gruppo Jian e il Nucleo della Gioventù Rivoluzionaria di Zahedan, tutti formatisi durante le recenti ondate di lotta di classe in Iran. Il documento non propone una strategia chiara per passare dalla situazione attuale all’insediamento di un governo socialista dei lavoratori. In altre parole, quali compiti politici e organizzativi questi obiettivi pongono alle masse, su un piano, e all’avanguardia rivoluzionaria, su un altro piano. Questi compagni propongono di aggiungere “pane, lavoro, libertà, amministrazione consiliare” allo slogan esistente “donna, vita, libertà” e rivendicano il controllo dei lavoratori e la socializzazione dell’economia, ma l’agitazione e il lavoro politico dei socialisti all’interno del movimento e delle masse non può limitarsi a ripetere che abbiamo bisogno di consigli operai (e popolari) e del socialismo.

In questo senso, l’aumento della coscienza politica delle masse, fino al punto in cui la maggioranza delle persone rivendicherà e sosterrà la causa di un governo socialista dei lavoratori, è effettivamente il nostro obiettivo come comunisti, ma dobbiamo trovare una strada per la politica di massa attraverso un metodo transitorio e un insieme di richieste adeguate alle condizioni in evoluzione dell’agitazione quotidiana insieme alla radicalizzazione delle masse stesse. A nostro avviso, ciò significa impegnarsi anche nella lotta politica intorno alle rivendicazioni democratico-radicali (cfr. Del Panta 2023), come fa questo programma: dobbiamo assumere queste richieste come strumenti per spingere la coscienza delle masse iraniane e sfidare la legittimità del regime.

Abbiamo bisogno che un’ampia fetta delle masse popolari – non solo la frazione che si è già unita alla ribellione – abbia esperienze politiche di organizzazione contro il regime, lottando per rivendicazioni che può comprendere e condividere, e per le quali può mobilitarsi ora. Questo può essere realizzato solo se il movimento fa suo il programma attraverso queste esperienze e crea gli organi di auto-organizzazione e auto-difesa in grado di imporlo.

Come marxisti, rivendichiamo il metodo di transizione adottato dall’Internazionale Comunista, guidata da Lenin e Trotsky prima della sua burocratizzazione, e poi sistematizzato da Trotsky stesso nel 1938. Oggi questo metodo non è solo utile, ma necessario per le rivolte, le ribellioni e le insurrezioni per trovare un percorso verso una rivoluzione di successo.7 L’emergere del metodo transitorio, nell’avanzare rivendicazioni e un programma generale, è il risultato della critica e del superamento della disgiunzione tra le rivendicazioni quotidiane, limitate e “minime” e l’obiettivo generale del movimento socialista, ossia una società comunista priva di classi sociali, sfruttamento, violenza sistemica e oppressione che caratterizzano il capitalismo.

Lo stesso Bayat pone il problema dello “scollamento analitico tra le opere sulla politica conflittuale/rivoluzione e quelle dedicate alla vita quotidiana e alla politica popolare” [Bayat 2021:2]. Ma il compito di gettare un ponte tra l’attuale coscienza di ampi strati della classe operaia e una vera e propria lotta per il socialismo non è solo un compito retorico: è un compito strategico. Come Matias Maiello descrive in De la movilización a la revolución [73], ricordando il programma di transizione di Trotsky:

Da qui il posto di rilievo occupato dai cosiddetti slogan “transitori” o “di transizione”, la cui funzione è quella di costruire “un ponte verso il livello di conoscenza operaia e, successivamente, un ponte materiale verso la rivoluzione socialista”. Questa “doppia” funzione è fondamentale. Si tratta, per così dire, di “due ponti” uniti: uno che si riferisce al “livello di coscienza” e l’altro, “materiale”, – di azione e organizzazione – verso la lotta per il potere.

Pertanto, l’approccio transitorio, piuttosto che essere un “manuale di procedure o un insieme di formule”, può essere uno strumento da utilizzare nella pratica politica [Ivi: 13]. Piuttosto che adattarsi alle idee e ai metodi che rafforzano gli interessi e l’egemonia di classe della borghesia, il metodo transitorio ha lo scopo di spingere la coscienza rivoluzionaria delle masse man mano che la lotta di classe si sviluppa, aumentando la percezione della propria forza, non solo in situazioni rivoluzionarie. In altre parole, è l’arte di mettere in relazione e unire la politica reale delle varie lotte sociali con la necessità di un’organizzazione indipendente, la presa del potere da parte del proletariato e la riorganizzazione socialista della società.

La posta in gioco in questo primo anno di ribellione iraniana è proprio la questione di collegare le richieste immediate, e limitate, alla sfida al regime iraniano e al capitalismo stesso. Questo renderebbe la richiesta di una società senza oppressione più concreta e basata sulla reale espressione dei movimenti sociali esistenti, dando realtà alla lotta per un governo della classe operaia e del popolo. Un programma di transizione dovrebbe quindi includere richieste minime della classe operaia (come la giornata lavorativa di otto ore e gli aumenti salariali), richieste democratiche (da questioni democratiche come i diritti civili e la piena autodeterminazione dei popoli oppressi e delle minoranze, a quelle democratico-strutturali che, nei paesi oppressi, hanno a che fare principalmente con l’oppressione imperialista), rivendicazioni che chiedono una transizione dal capitalismo al socialismo (come quelle per l’abolizione del segreto commerciale, il controllo operaio dell’industria, la nazionalizzazione del sistema bancario e i governi operai e contadini), e rivendicazioni organizzative per il successo della lotta politica e militare contro il capitalismo (come i picchetti di autodifesa, la creazione di una milizia operaia, i consigli operai o i soviet).

 

La necessità di un partito rivoluzionario

Come abbiamo pubblicato in precedenza, l’Iran ha una storia particolarmente ricca di auto-organizzazione e il riemergere di consigli operai, studenteschi e di quartiere è un aspetto progressivo delle recenti ondate di lotta di classe. Sebbene nella sinistra iraniana si siano aperti alcuni dibattiti sulla questione del partito rivoluzionario, la questione dell’organizzazione rivoluzionaria ha significati e implicazioni diverse per vari settori della sinistra: alcuni settori arrivano a rifiutare qualsiasi tipo di direzione, percependo la direzione come sinonimo di dittatura, come reazione al khomeinismo e all’influenza burocratica dello stalinismo. In risposta a questi traumi politici del passato, in Iran si sono potute esprimere e sviluppare diverse varianti dell’autonomismo. L’autonomismo operaio legato al movimento consiliare contemporaneo in Iran enfatizza o sostituisce i sindacati o i consigli dei lavoratori all’organizzazione di partito. Il movimentismo autonomista, profondamente influenzato dalle idee postmoderne, rifiuta l’idea di un partito sulla base di una “erosione dell’individualità”, sostituendo l’attivismo individuale dei movimenti alla necessità di un partito. L’appropriazione di Bayat della “resistenza quotidiana” riflette questo concetto di resistenza collettiva come resistenza individuale atomizzata di individui non organizzati. Nel frattempo, i settori influenzati dalla tradizione anarchica danno priorità alle questioni organizzative rispetto a quelle politiche, sminuendo la lotta politica a favore di un’organizzazione orizzontalista come modo principale per proteggere il movimento dalla cooptazione e dall’istituzionalizzazione.

In risposta al rischio di deviazione borghese dei processi di lotta di classe, sia a livello organizzativo che politico, sottolineiamo ancora una volta la riproposizione di una strategia sovietica. Questo approccio si basa su consigli e organismi di auto-organizzazione tra le masse, per riunire tutti i gruppi in lotta “per la direzione dei soviet sulla base della più ampia democrazia” [Trotsky 2009], così come sull’intervento politico di un partito rivoluzionario che possa costruire frazioni rivoluzionarie nelle organizzazioni operaie e popolari, e conquistare il sostegno delle masse articolando una politica coerente di indipendenza di classe, un programma socialista legato a una pluralità di lotte e rivendicazioni e una chiara strategia basata sulla forza strategica dei lavoratori.11

Lungi dal lasciare aperta la questione della direzione politica, la forza soggettiva dei partiti rivoluzionari diventa una questione decisiva. La rivoluzione del 1979 ha dimostrato la necessità di una direzione rivoluzionaria, capace di trarre vantaggio politico dalle lotte in corso e di evitare che l’energia delle masse venga smorzata dal riformismo o che si riduca all’impotenza di fronte alla reazione. I lavoratori iraniani possono aver avuto la forza e la fortuna di costruire un nucleo di coordinamento in alcune città negli ultimi anni, ma un coordinamento di consigli non è sufficiente per ottenere un sostegno di massa contro le forze egemoniche della borghesia.

Pertanto, è imperativo ora più che mai, di fronte alla radicalizzazione politica delle masse, dai pensionati ai bambini delle scuole elementari, e nel contesto della situazione convulsa in Iran e nel mondo, segnata da una tendenza riattivata verso crisi, guerre e rivoluzioni, lottare per il compito di costruire un partito della classe operaia che lotti per il socialismo. Un partito che sappia interfacciarsi alla classe operaia multiculturale in Iran, che è invischiata nell’oppressione patriarcale, nell’oppressione imperialista, nella catastrofe ambientale e nella sottomissione economica. Sulla scia del movimento di solidarietà diasporica lanciato l’anno scorso, segnato dalla formazione di raggruppamenti internazionali come Feminists 4 Jina, è necessaria una prospettiva regionale e internazionale per approfondire i dibattiti e gli scontri intorno a questioni di strategia e di programma, nella speranza di andare oltre le situazioni intermedie come le rivolte per arrivare a una rivoluzione permanente, basata sulla continua lotta indipendente della classe operaia, fino a una trasformazione socialista in Iran e oltre.

 

Maryam Alaniz, Giacomo Turci

Bibliografia

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Bayat A (2017) Revolution without revolutionaries: making sense of the Arab spring. Stanford: Stanford University press.

Bayat A (2021) Revolutionary Life: The Everyday of the Arab Spring. Cambridge: Harvard University Press.

Dal Maso J (2018) Hegemonía y lucha de clases: tres ensayos sobre Trotsky, Gramsci y el marxismo. Buenos Aires: Ediciones IPS.

Del Panta G (2023) Quale democrazia? L’elemento democratico-radicale nella politica rivoluzionaria. Egemonia, 2(6). Disponibile a: lavocedellelotte.it/2022/11/05/quale-democrazia-lelemento-democratico-radicale-nella-politica-rivoluzionaria.

Del Panta G, Giampaolo M & L Lodi (2021) “2011-2021: la Primavera Araba e lo spettro della rivoluzione sociale”. La Voce delle Lotte. Disponibile a: lavocedellelotte.it/TheVoiceOfFights/wp-content/uploads/2021/01/Opuscolo-Primavere-Arabe-formato-Online.pdf.

Eds (2023, 13 giugno). “Trump’s Kryptonite: How Progressives Can Win Back the Working Class”. Jacobin. Disponibile a: jacobin.com/2023/06/trumps-kryptonite-progressive-working-class-voting-report.

Herrera L & H Khalil (2017). Asef Bayat – Revolution without Revolutionaries. Critical Voices in Critical Times. Disponibile a: youtube.com/watch?v=GUOS8MVBhn4.

Maiello M (2022) De la movilización a la revolución: debates sobre la prospectiva socialista en el siglo XXI. Buenos Aires: Ediciones IPS.

Robles A (2023) “Revolucionar el mundo y transformar la vida: mujeres, revolución y socialismo”. Contrapunto. Disponibile a: izquierdadiario.es/Revolucionar-el-mundo-y-transformar-la-vida-mujeres-revolucion-y-socialismo.

Trotsky L (2009)[1938] Programma di transizione. Bolsena: Massari Editore.

Questo articolo fa parte del numero 6, ottobre 2023, della rivista Egemonia.

 

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.

Maryam Alaniz
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Maryam Alaniz è un'attivista socialista, giornalista, e dottoranda a New York. È responsabile della sezione internazionale di Left Voice.