Dagli attacchi ai campus universitari alla sospensione dei visti, passando per le retate dei servizi di immigrazione, il governo Trump ha superato un nuovo limite nella repressione dei sostenitori della Palestina.
Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti collaborerà con il Dipartimento per la Sicurezza Interna per revocare in modo aggressivo i visti agli studenti cinesi, compresi quelli che hanno legami con il Partito Comunista Cinese o che studiano in settori critici.
Le parole del segretario di Stato Marco Rubio segnano la riapertura della caccia alle streghe negli ambiti accademici statunitensi, riprendendo una tradizione cara ai Repubblicani sin dalla repressione maccartista degli Anni 50[1]. Tuttavia, la dichiarazione della settimana scorsa non arriva dal nulla: già a partire da inizio febbraio l’amministrazione Trump aveva messo le cose in chiaro istituendo un organo dal nome eloquente, “Task Force to Combat Anti-Semitism”, in seno al dipartimento dell’Istruzione. Una politica, in linea con la linea dettata dall’amministrazione Biden, di strumentalizzazione della necessaria lotta contro l’antisemitismo a fini politici, in particolare per la repressione del movimento di solidarietà con la Palestina. Ad aprile questa task force ha presentato a sessanta università degli Stati Uniti, sotto minaccia di tagliare loro i fondi, una lista di richieste da portare a termine, le quali secondo il NYT vanno da un garante esterno con il ruolo di regolare l’impegno ideologico di professori e studenti, fino all’espulsione degli allievi internazionali “ostili ai valori americani”.
In un primo momento i vari college si sono allineati alle richieste, come nel caso della Columbia University, simbolo del movimento studentesco di protesta in favore del popolo palestinese, la quale ha annunciato una serie di nuove regole che rendono più difficile manifestare, facilitano l’identificazione degli studenti – ad esempio vietando l’utilizzo di mascherine per proteggersi il volto – e consentono l’accesso delle forze dell’ordine al campus universitario. Nonostante le misure repressive a cui ha acconsentito, l’istituto ha comunque subito una sospensione di 400 milioni di dollari di fondi pubblici.
Alcuni tra gli atenei più noti, tutti situati in Stati in cui il Partito Democratico ha avuto la meglio alle ultime elezioni, sono già stati colpiti da misure simili, tra cui il taglio di fondi per la ricerca e il ritiro delle esenzioni fiscali: la Brown University per 510 milioni, la Cornell University per almeno un miliardo, la Northwestern University per 790 milioni, la University of Pennsylvania per 175 milioni, la Princeton University per 210 milioni [cita il post], e infine Harvard, la più antica università americana, alla quale il governo ha sospeso quasi 3 miliardi di dollari in contratti e fondi di ricerca, cifra che potrebbe aumentare fino a 9 miliardi.
Questo prestigioso istituto è diventato il simbolo della resistenza accademica contro Trump, ma non certo per il suo sostegno alla causa palestinese. Durante lo scambio di lettere tra l’università e l’amministrazione, la prima ha dato prova di aver preso a cuore la condanna dell’antisemitismo e le conseguenti ripercussioni disciplinari. La direzione ha infatti consentito all’invio di tutti i dati a propria disposizione sulle attività di protesta che hanno avuto luogo negli ultimi cinque anni, inclusi video e registrazioni, riguardanti gli studenti in possesso dei permessi di soggiorno (NYT).
In contemporanea, il direttore Alan Garber ha dichiarato che “Neither Harvard nor any other private university can allow itself to be taken over by the federal government”, portando in primo piano l’argomentazione dell’indipendenza degli istituti privati di fronte alle “intromissioni” federali. La contraddizione squisitamente americana tra potere pubblico e istruzione privata è emersa dal momento che l’amministrazione Trump ha preteso una serie di misure che riguardano direttamente l’educazione dentro l’ateneo, come la soppressione dei programmi dedicati alla diversità – già la Columbia University ha promesso una riforma del proprio dipartimento sugli studi mediorientali – o la revisione dei criteri d’ammissione di studenti e professori, in base alle loro dichiarazioni pubbliche e alle loro posizioni politiche.
Lungi dal condividere la causa dei manifestanti, la direzione di Harvard è interessata solamente alle rate stellari che i 6.800 studenti del suo programma di scambio internazionale, il 27% del corpo studentesco totale, sono costretti a pagare, dato che le riduzioni sono riservate agli allievi di origine statunitense: il NYT sostiene che si tratti di diverse centinaia di milioni di dollari all’anno. Questo venerdì 30 maggio l’amministrazione Trump ha cercato di revocare anche tale programma di scambio, ma Harvard ha immediatamente presentato ricorso e un giudice di Boston ha sospeso temporaneamente la misura: la battaglia legale è ancora in corso.
Nel frattempo, secondo il NYT ci sono almeno otto indagini in corso sull’istituto, portate avanti da sei differenti agenzie federali. La segretaria della Sicurezza Interna Kristi Noem ha accusato l’ateneo di “coordinamento col Partito Comunista Cinese” e di “addestramento dei membri del Xinjiang Production and Construction Corps”, un gruppo paramilitare cinese. Unite alle dichiarazioni di Marco Rubio, tali accuse mirano a indebolire le collaborazioni accademiche con la potenza asiatica: il timore è evidentemente quello di contribuire al sorpasso della Cina, dato che sempre più studenti trovano attraente il ritorno nella seconda economia al mondo dopo aver completato gli studi negli USA, carichi di un bagaglio di conoscenze da mettere al servizio della “nuova era” annunciata da Xi Jinping.
Oltre alle ragioni xenofobe che portano a sospettare di qualsiasi persona cinese su suolo americano per ragioni di “sicurezza”, c’è una fiducia sempre meno accreditata nelle istituzioni accademiche, soprattutto da parte dell’elettorato conservatore: secondo una ricerca del centro statistico Gallup, solo il 20% dei Repubblicani si fida delle università nel 2024, contro il 56% del 2015. Il progetto populista dell’estrema destra americana fa leva sull’immagine degradata che i centri del sapere hanno agli occhi delle classi popolari, le quali non possono fare a meno di considerarli come poli del privilegio distaccati dalla realtà della gente comune. Oltretutto, tale divario è rispecchiato a livello elettorale: il livello di studio è forse l’indicatore più affidabile del voto degli americani, mentre alle ultime elezioni Kamala Harris ha vinto con un margine di oltre il 20% tra gli elettori laureati. È dunque evidente l’intento dell’amministrazione Trump dietro la criminalizzazione della lotta per la Palestina: ridurre l’influenza politica e culturale non solo del corpo di studenti e insegnanti politicizzati all’interno degli atenei, ma degli atenei stessi all’interno della società, strangolandoli attraverso tagli di fondi aggressivi e impegnandoli in battaglie legali per danneggiarne la reputazione. L’esempio della Columbia University, che ha subito la sospensione di 400 milioni di dollari malgrado abbia acconsentito e collaborato alla repressione dei suoi studenti, è eloquente.
È il potenziale di mobilitazione delle università che è preso di mira. Proprio perché nei campus sotto Biden la questione della Palestina è stata il catalizzatore del più importante movimento anti-imperialista dal 1968, è alla gioventù che Trump dà la caccia, continuando allo stesso tempo a radicalizzare il sostegno degli Stati Uniti all’operazione genocida in corso nella Striscia di Gaza. Parallelamente agli attacchi istituzionali contro le università, l’agenzia federale per l’immigrazione (ICE) indaga sui profili degli organizzatori che hanno guidato il movimento di protesta in favore della Palestina. Il caso più eclatante è sicuramente Mahmoud Khalil, data anche la petizione da migliaia di firme a sostegno della sua liberazione. Il ragazzo siriano-palestinese è stato il portavoce degli studenti che hanno occupato il campus della Columbia a Manhattan: ha fatto da mediatore durante le trattative con l’amministrazione per porre fine alla complicità dell’università e dell’intera Ivy League con l’entità genocidiaria d’Israele, rivelando il proprio volto alle telecamere e il proprio nome ai giornalisti che lo intervistavano. In breve è divenuto un facile target della repressione e ora è in detenzione ingiustificata in Louisiana. L’amministrazione Trump vuole forzarne l’espulsione accusandolo di propaganda filo-terrorista, col pretesto non provato di sostegno alla causa di Hamas. La verità è che Khalil è uno studente di trent’anni laureato in affari internazionali, legalmente residente negli Stati Uniti dal 2022 e con una moglie incinta di otto mesi. Come lui, altri studenti che hanno partecipato alle proteste sono stati arrestati e rischiano l’espulsione, dopo che la loro visa, necessaria per il soggiorno durante il periodo di studio, è stata ritirata. La repressione di Trump non si è accontentata dei manifestanti della Columbia: secondo Associated Press si tratta di più di 1200 studenti internazionali in 187 colleges differenti, che vanno dai circuiti elitari delle università di prestigio, fino alle istituzioni pubbliche di ricerca, passando per i piccoli college sparsi in giro per il Paese. Il ritiro della visa a tutti gli studenti cinesi, annunciato da Marco Rubio la settimana scorsa,
non è dunque una novità. Ciò che è scandaloso è l’interesse delle testate nazionali, come il New York Times, unicamente per le entrate economiche che questi studenti rappresentano (a quanto pare, ci sono circa 275 000 studenti cinesi negli Stati Uniti, il 20% degli studenti internazionali), diversi milioni di dollari. Allo stesso modo, la reazione della classe dirigente europea non è stata indignarsi per le limitazioni poste al diritto d’espressione e di manifestazione, non è stata la condanna della repressione razzista e mirata contro un blocco di studenti, non è stata la difesa del loro diritto di lottare per la fine delle collaborazioni universitarie con Israele durante un genocidio. L’unica cosa che è stata capace di dire Bruxelles a tal proposito, per il momento, è che una parte dei quaranta miliardi non spesi del piano Next Generation EU potrebbe finire a finanziare progetti d’integrazione e di scambio accademico, così da attirare il flusso di saperi (e quindi di denaro) in fuga dagli Stati Uniti. Vediamo quindi come la competizione tra le potenze imperialiste mondiali è più accesa che mai, e il campo della ricerca non ne è esente.
Rimane invece taciuto – o piuttosto silenziato – l’innalzamento delle misure repressive per quanto riguarda l’immigrazione. A lato degli studenti perseguitati per aver partecipato a delle proteste o a degli accampamenti nei campus, ci sono quelli arrestati per aver pubblicato il loro sostegno in qualche media online, o ancora quelli messi in detenzione senza motivo, come il caso di Rumeysa Ozturk, studentessa turca il cui video dell’arresto ingiustificato, avvenuto il 26 marzo per mano di una gang di agenti incappucciati su un marciapiede, è diventato virale. Associated Press denuncia che non si tratta soltanto degli studenti internazionali: dall’inizio del mandato, Trump ha intensificato e facilitato le dentenzioni non giustificate anche dei cittadini americani, i quali sempre più spesso vengono fermati agli aeroporti e rischiano la deportazione persino per dei reati minori. Le misure rientrano in un quadro più ampio d’intensificazione dei controlli alle frontiere e della repressione interna, che assomiglia sempre di più a una caccia alle streghe su basi razziali. Ad esempio, il 19 maggio la corte suprema degli Stati Uniti ha revocato la protezione temporanea di 350.000 venezuelani, rendendoli così vulnerabili alle politiche d’espulsione della Casa Bianca. Ancora più recente è il provvedimento per limitare o vietare l’ingresso negli Stati Uniti ai cittadini di 19 nazionalità differenti: Afghanistan, Birmania, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Guinea Equatoriale, Eritrea, Haiti, Iran, Libia, Somalia, Sudan e Yemen per quanto riguarda il divieto, Cuba, Venezuela, Burundi, Laos, Sierra Leone, Togo e Turkmenistan per quanto riguarda le limitazioni.
A tal proposito, l’apparato burocratico statunitense affrontava la questione migratoria in maniera già piuttosto arbitraria e punitiva anche prima dell’arrivo di Trump. I centri di detenzione e gli organi che ne fanno parte sono spesso gestiti da compagnie private, mentre le guardie di frontiera possono decidere chi far passare e chi respingere in maniera abbastanza opaca, a prescindere dai visti concessi dalle ambasciate estere: può succedere che dei migranti vengano espulsi senza nemmeno avere accesso a un avvocato. Tuttavia, l’arrivo di Trump ha peggiorato le cose: ora gli agenti alla dogana hanno il diritto di ispezionare qualsiasi dispositivo in possesso delle persone che fanno richiesta per entrare nel Paese, ad esempio. È del 20 marzo la notizia secondo cui uno scienziato francese in missione per il CNRS è stato respinto all’aeroporto di Houston, dopo che hanno trovato sul suo cellulare dei messaggi critici contro l’amministrazione Trump.
Le politiche di Donald Trump sono un classico esempio di “effetto boomerang imperiale”, fenomeno per cui i Paesi imperialisti riproducono sul fronte interno le tecniche di repressione sperimentate sulle popolazioni dei territori colonizzati. Ciò significa in primis testare l’opinione pubblica e adeguare le aspettative dei cittadini a un clima repressivo, per poi legittimare eventuali attacchi anche contro gli individui che godono di pieni diritti e privilegi, qualora si dimostrino contrari alle politiche del regime. La lotta per la Palestina, che si sta consumando sia sul fronte della resistenza palestinese a Gaza e nei territori occupati, sia sul fronte delle immense mobilitazioni di massa che hanno scosso tutti i Paesi occidentali, è un ottimo pretesto per consentire a Trump di stringere il cappio intorno a qualsiasi forma di protesta o contestazione, preparando il terreno per offensive ancora più autoritarie. Proprio per questo è essenziale, come nei territori palestinesi occupati, lottare per ogni centimetro di libertà: se ieri toccava ai migranti alla frontiera col Messico e oggi tocca agli studenti della Columbia, è possibile che un domani qualsiasi forma di dissenso sia criminalizzata, non soltanto il movimento palestinese.
Nel frattempo, un sondaggio del Pew Research Center rivela che il 53% dei cittadini statunitensi ha un’opinione negativa d’Israele, contro il 42% del 2022. Malgrado gli USA restino il Paese in cui il consenso per la potenza sionista è il più alto al mondo, si comincia a intuire il motivo dell’accanimento di Trump contro un mucchio di ragazzi che, trovando il coraggio di protestare, sono divenuti un simbolo della resistenza, e ora rischiano di esserne i martiri. D’altronde, Mahmoud Khalil e i suoi compagni hanno capito di trovarsi “nel ventre del mostro” di cui scriveva Angela Davis, la quale riprese l’espressione dallo scrittore rivoluzionario cubano José Martí: come tanti altri che ne hanno preso coscienza, sanno che non resta altro da fare, se non iniziare a rosicchiargli le viscere.
Costantino Bovina
Articolo già apparso su Révolution Permanente
Note
1. Tradizione alla quale l’amministrazione Biden non è rimasta estranea. Come hanno sottolineato nel marzo 2024 in un’intervista incrociata Shadi Hamid, ricercatore al Fuller Seminay e membro del comitato editoriale del Washington Post, e Yousef Munnayer, responsabile del programma Palestina-Israele presso il Centro arabo di Washington DC, il numero dei licenziati per le loro convinzioni politiche sotto l’amministrazione Biden, in particolare per il loro sostegno alla causa palestinese, avrebbe raggiunto almeno il doppio dei cento professori presi di mira a causa delle loro presunte opinioni comuniste, durante la «paura rossa» dell’onda maccarthysta degli anni 1940-1950.
Studente per comprendere il mondo, giornalista per raccontarlo e militante (di Révolution Permanente) per provare a cambiarlo.