Opera prima della regista palestinese Maysaloun Hamoud, la pellicola dà voce a quelle donne che una voce non dovrebbero averla. Le voci sono di Lyala (un’avvocatessa in perfetto “European style”), Salma (una barista/DJ palestinese e lesbica) e Noor (una studentessa islamica laureanda in informatica). Le tre ragazze dividono un appartamento nel pieno centro di Tel Aviv, città che, come suggerisce il titolo inglese, si trova proprio “in between” tra i dettami della propria cultura e i vari stimoli e life style provenienti da occidente.


Le tre protagoniste rappresentano anche l’incontro\scontro tra le varie religioni che coesistono a Tel Aviv. Lo scontro inizia con l’arrivo di Noor che, inizialmente, abbraccia completamente la cultura islamica: veste il velo, non beve, non fuma e, soprattutto, è fidanzata da più di un anno con un giovane di buona famiglia che non ama, ma tanto “l’amore arriverà dopo”. Layla e Salma, invece, sono lontane da questi ideali: frequentano discoteche, hanno amici omosessuali, fanno sesso ma, purtroppo, hanno pochi legami stabili, perché chi sposerebbe ragazze così? Noor si unirà presto alle due coinquiline, rendendosi conto, dopo un tragico evento, che la religione non deve limitare la libertà del singolo individuo fino a violarne la stessa umanità.

Le figure negative della pellicola paiono essere gli uomini, o meglio, i ragazzi. Soprattutto i falsi liberali, come il ragazzo di cui si innamorerà Layla: un aspirante regista fresco di stage negli USA il quale, almeno inizialmente, pare accettare l’avvocatessa ma che, quando sarà tempo di presentarla alla propria famiglia, le chiederà di vestire la maschera della brava donna devota ad Allah. Gli uomini maturi, al contrario, appaiono come figure quasi positive; ad esempio il padre di Noor che, dopo aver saputo della rottura del fidanzamento della propria figlia, deciderà di difendere l’onore di Noor invece di rinnegarla.

In definitiva, la regista ammira e sostiene le sue eroine. Concede loro piani medi, lunghe inquadrature anche prive di battute in cui tutto quello che lo spettatore vede, è una (o più) donne ribelli in cerca di un posto nel mondo. Donne vittime di una società gerarchica che rinchiude il genere femminile nel ruolo di madre e moglie, perchè l’uomo è il vero capo a cui si deve obbedienza. Il cinema israelo-palestinese si sta rivelando uno dei più interessanti, non solo dal punto di vista tecnico, ma dal punto di visto umano e, paradossalmente, femminista. La maggior parte dei registi medio-orientali, di fatti, sono donne. Bisogna riflettere su questo fenomeno: perchè in una società che imprigiona le donne, queste hanno la forza di dirigere film mentre in Occidente (in Europa come negli USA), ritenute società democratiche e post-femministe, una fanciulla deve ancora lottare per poter dirigere una pellicola?

Sabrina Monno

Nata a Bari nel febbraio del 1996, laureata presso la facoltà DAMS di Bologna e studentessa presso Accademia Nazionale del Cinema, corso regia-sceneggiatura. Lavora prevalentemente in teatro, curando reading di lettura e sceneggiature.