Fior di intellettuali democratici e progressisti si trovano ad esaltare il Buonuomo Lenin (che, a dispetto del titolo, è una biografia caricaturale e ostile a Lenin) – pubblicato in francese nel 1932 da Grasset, nel 1962 in italiano da Vallecchi – dall’allora fascistissimo Curzio Malaparte, penna per eccellenza del regime di Mussolini e già direttore de “La Stampa”, e ristampato oggi dall’editore Adelphi.
Il carattere grottesco della notizia, prima di proseguire, ci conferma ancora una volta tutta l’ironia e la potente dialettica di cui la Storia sa investirci: in uno dei paesi dove un sentimento democratico-feticistico “antifascista”, collegato all’eredità politico-culturale “di sinistra” di due grandi e influenti partiti come il PSI e il PCI, è il più diffuso a livello mondiale, esponenti anche notevoli dei ceti intellettuali liberaldemocratici “di sinistra”, che più rispettosi della “Costituzione antifascista” non si può, finiscono per esaltare un classico della letteratura fascista pur di sottolineare la presunta pochezza, volgarità e anima burocrateggiante di Vladimir Lenin, fondatore del partito bolscevico russo e dell’Internazionale Comunista, e tra i leader politici indiscussi della rivoluzione russa.
Un libro, quello di Malaparte, scritto esasperando la tecnica della commistione tra romanzo e giornalismo, che produce un tipo particolarmente costruito di biografia romanzata dove, nel quadro complessivo, si alterano il buon senso e la realtà stessa, ma si presume di poter raccontare anche i minimi dettagli della vita di un uomo come se, di quella vita, si fosse stati testimoni diretti per tutto il tempo: troviamo così un Lenin colto con una sorta di lente d’ingrandimento nei suoi atteggiamenti minimi (inventati o ricostruiti in base a fonti eterogenee e dicerie: che importa!), quando l’autore riesce poi a paragonarlo a un qualsiasi piccolo borghese, mediocre e riservato, dell’Europa del tempo. La tesi di Malaparte è che non c’è non solo nessun carattere asiatico in Lenin (e possiamo anche concordare che definirlo “Gengis Khan” dei nostri tempi è cosa ridicola e legata a un certo razzismo ed eurocentrismo sprezzante dell’internazionalismo reale di Lenin, peraltro domiciliato per molti anni in vari paesi europei), ma nemmeno nessun tratto di genialità, di acume politico, rivoluzionario o no che sia: Lenin è solo un burocratino separato dalla “vita vera”, rinchiuso nella vita d’ufficio e incapace di grandi cose, al pari di milioni di impiegatucci europei del suo tempo. A fronte di una ricostruzione che perlomeno Il Foglio (pur godendone non poco) definisce “attendibile quanto un’intervista del Papa a Scalfari“, troviamo non una ma due odi a questa “imperdibile” opera di Malaparte.
Da una parte, Gianni Biondillo su Nazione Indiana ci parla di un Malaparte, lui sì, geniale, incontenibile, ma soprattutto “scevro da pregiudizi ideologici”: un po’ come parlare di “governo neutrale” al giorno d’oggi, di fronte a politiche sempre e comunque filo-capitaliste a prescindere dal “colore” dei singoli governi – un’immensità che nasconde l’imbarazzo per l’esaltazione di quello che al tempo era un fascistone conclamato, e che sempre ha trovato il modo di riciclarsi al servizio di chi fosse al potere in quello o in quell’altro frangente. Lenin, al contrario, è appunto un travèt che ce l’ha fatta, che accede con un colpo di mano a un potere che è sempre stato al di sopra di lui e al di fuori delle sue possibilità, e che rimane dunque spaesato di fronte alla differenza tra le sue “teorie slegate dalla realtà” e il mondo politico reale. Non è un caso che, rincarando la dose di antimarxismo e sprezzo anche della conoscenza più basilare della storia rivoluzionaria della Russia di un secolo fa, Malaparte (e con lui Biondillo) esalti il carattere di “anticipatore” e “condottiero” di Trotsky che, lui sì!, ha guidato personalmente la rivol… il colpo di Stato: vent’anni e più di lotta politica nel movimento operaio russo e internazionale, condita anche per Lenin da carcere, approccio a questioni militari e direzione in prima persona di larghi movimenti, si riducono a un lavoro di contabilità burocratica “rivoluzionaria” ovviamente con le virgolette, dove uno degli interpreti più acuti di Marx in assoluto ne diventa un usurpatore.
D’altro canto, Corrado Augias, intellettuale e scrittore italiano ben noto e presente sulla televisione pubblica, non si risparmia per Malaparte: un libro “straordinario”, coronato da una postfazione “molto bella, molto accurata” che Augias riporta: “Lenin è soprattutto una maschera borghese. E’ un personaggio di ostinato grigiore quotidiano: non è l’uomo nuovo, ma l’uomo antico” – “intuizione” che ci procura “un piccolo shock”: effettivamente, si rimane shockati a pensare che Lenin sarebbe stato in fondo la stessa identica cosa dell’enorme esercito di funzionari zaristi che per decenni tentarono di stroncare lui e il partito che aveva fondato.
Se c’è invece qualcosa di vero all’interno di quella che, bontà sua!, Augias concede essere un po’ una esagerazione, è proprio il fatto che Lenin non veniva da un altro pianeta, non era il re di un’orda barbarica giunta da fuori a porre fine alla civiltà europea: Lenin, così come Marx ed i marxisti tutti, è stato uno dei prodotti più genuini dello sviluppo del capitale e della società borghese; ha impersonificato sul piano politico quella figura di becchino della vecchia società (altro che uomo antico!) che Marx affida nel Manifesto all’ultima classe rivoluzionaria, il proletariato.
L’anno scorso, centenario della Rivoluzione russa, siamo stati bombardati di continuo sul carattere di golpe della Rivoluzione d’Ottobre: ecco che, rinnovando l’attacco grazie alla “autorevolezza” del ritrovato Malaparte, ritroviamo anche la vecchia associazione degli “opposti estremismi”: se anche Hitler in fondo è un anonimo cittadino europeo “medio” che, per mera sorte, diventa un mostro e un capo assoluto della nazione, perché il dittatore Lenin, perché il mostro sanguinario Lenin, e con lui ovviamente tutto il marxismo e il leninismo, dovrebbe essere fondamentalmente diverso dal nazifascismo? Ecco che l’anticomunismo reale degli intellettuali “democratici” d’oggi fa leva su un antifascismo di facciata che… parte dall’esaltazione di un libro fascista, e prova a rafforzare l’argomento per cui Malaparte fosse “lontano dal regime” solo perché il suo prestigio culturale gli permetteva di criticarlo senza finire in prigione.
C’è da sorprendersi e da indignarsi? Non molto, in fondo: è già da un secolo che la moderna società borghese ci ha mostrato quanto le sia facile mettere da parte i suoi scontri interni di fazione per fronteggiare la rivoluzione socialista mondiale, per sconfiggere il nemico comune: la lotta di classe dei salariati fino alla presa del potere economico e politico; la teoria rivoluzionaria del marxismo, e tutti coloro che l’hanno difesa e resa una forza sociale come guida politica per l’azione per le più vaste masse di sfruttati e oppressi.
Giacomo Turci
Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.