Pubblichiamo una dichiarazione sulla formazione del nuovo governo Lega-M5S, elaborata insieme alle organizzazioni europee della Frazione Trotskista-Quarta Internazionale.


Con il giuramento da Primo Ministro di Giuseppe Conte lo scorso 1 giugno è la prima volta che in un paese fondatore dell’UE vanno al governo forze di destra e “populiste” di destra, che hanno fatto della retorica euroscettica una delle loro bandiere. Il nuovo primo ministro, burattino di Matteo Salvini e di Luigi Di Maio, è portavoce di una narrazione profondamente reazionaria e xenofoba

L’evoluzione della situazione politica e istituzionale in Italia, così come la capacità di resistenza che mostra il movimento operaio italiano, saranno fondamentali per il futuro della lotta di classe a livello europeo e pertanto sono di importanza centrale per i marxisti rivoluzionari.

 

Chi sono i partiti che formano il nuovo governo in Italia?

I risultati delle elezioni legislative del 4 marzo sono stati il riflesso di una crisi politica, sociale e istituzionale profonda. Con l’enorme ridimensionamento elettorale del Partito Democratico (18,7%) di Matteo Renzi e la frana del berlusconismo (14%), le due principali forze politiche – che negli ultimi venticinque anni avevano amministrato gli affari della borghesia, avevano applicato le ricette neoliberali negli anni ’90 e 2000 e i pani di austerità post-2008 – hanno subito una disfatta. Allo stesso tempo, e mentre scompariva quasi del tutto la sinistra riformista sul piano elettorale, il voto del 4 marzo ha mostrato l’ascesa di due forze che si presentano come “antisistema”.

Da una parte, la Lega (ex Lega Nord) dell’ultradestro Matteo Salvini, col 17,3% dei voti si è imposti sui suoi vecchi alleati berlusconiani nella coalizione presentata dalla destra. Dall’altra, abbiamo assistito all’ascesa impressionante dei populisti di destra del Movimento 5 Stelle (M5S) dell’ex comico Beppe Grillo, capitanati da Luigi Di Maio (32,7%). Tuttavia, da questa situazione non è emersa una maggioranza parlamentare, né un blocco politico attorno al PD, che continua ad essere il partito favorito dalla Confindustria, o attorno a Forza Italia. In questo scenario è venuto creandosi, dopo settimane di negoziazioni e incertezze, un “contratto di governo” inedito tra Lega e M5S.

La Lega estremista di destra è rappresentante degli interessi della piccola e della media borghesia del nord del paese, già razzista verso il Mezzogiorno, così come di settori analoghi nel centro-sud del paese, ora uniti sotto il nuovo profilo nazionalista della Lega. Nell’ultimo periodo ha inscenato la sua “deregionalizzazione”, togliendo il “Nord” dal suo nome originale, per provare a conquistare nuovi voti nel Centro e nel Sud del paese, proiettandosi come un partito realmente di dimensioni nazionali, a immagine e somiglianza del Fronte Nazionale di Marine Le Pen, grande amica di Salvini. Non per caso, quest’ultimo è stato eletto come senatore per la circoscrizione di Reggio Calabria, proprio all’estremo sud! La base elettorale del M5S si trova in maggioranza nel centro e nel sud del paese, tra i settori popolari disorientati e disillusi dopo anni di crisi, austerità e tradimenti elettorali dei partiti tradizionali.

 

Una falsa alternativa alla crisi dei partiti tradizionali

Questa preoccupante ascesa delle forze reazionarie di destra non è un sinonimo, tuttavia, di un’ondata fascista, così come è presentata da settori della sinistra europea. Da una parte, è il frutto di un forte malessere sociale derivante dalle conseguenze della crisi economica, e della decomposizione dei vecchi partiti tradizionali e dei loro eredi, in particolare la liquidazione dei partiti di origine operaia per il loro trasformismo neoliberale, la “blairizzazione” o “macronizzazione”, primo fra questi il Partito Democratico.

Dopo lo scioglimento del Partito Comunista Italiano – il più grande partito “comunista” dell’Occidente -, un suo vecchio settore costituì Rifondazione Comunista, una formazione che dalla metà degli anni ’90 fino al 2008 divenne la spina dorsale dei governi “socialdemocratici” di centrosinistra come l’Ulivo e in seguito ha sostenuto altre coalizioni di centrosinistra. Nel frattempo, un altro settore dell’ex PCI andrò a integrarsi nel Partito Democratico (PD) insieme a settori socialdemocratici e socialcristiano. Il PD di Romano Prodi, Renzi e Gentiloni ha agito come garanzia di governabilità dell’establishment insieme a Berlusconi e ha varato una riforma del lavoro, il Jobs Act, che ha liquidato le grandi conquiste dei lavoratori. In questo modo, ha aperto la strada verso l’ascesa dell’estrema destra.

D’altro canto, questa ascesa dell’estrema destra mostra il fallimento degli intenti di riforma del regime parlamentare italiano per risolvere gli elementi più strutturali di dilagante crisi di egemonia del grande capitale nell’ultimo trentennio.

In realtà, né la Lega né il M5S sono partiti “antisistema”. Sono senz’altro espressione della crisi del sistema, ma una risposta all’interno del sistema stesso. La Lega Nord nasce alla fine degli anni ’80; le sue radici affondano nelle rovine della vecchia Repubblica, con la deflagrazione della Democrazia Cristiana, la fine del PC e il declino del PSI. Fondato nel 2009, il M5S ha le sue origini nella crisi del bipartitismo PD-Forza Italia con cui il grande capitale italiano aveva cercato di formare un nuovo paradigma politico (la “Seconda Repubblica”) negli anni ’90 e 2000. Ma quando raggiungono posizioni di governo (a partire dagli anni ’90, nel caso della Lega, al governo di Roma; Torino, a partire dal 2016, nel caso di M5S), entrambi i movimenti replicano le stesse tare dei partiti tradizionali (il tradimento di promesse elettorali, corruzione, incompetenza, ecc). Ciò è particolarmente vero per il M5S, che si presentava come una forza “trasversale” e “assolutamente nuova”. L’altro comune denominatore di entrambe le forze risiede nel loro “populismo” che provoca la completa dissoluzione di una qualsiasi analisi di classe, nel metodo della direzione personalista dei suoi principali dirigenti, l’estrema ambiguità delle proprie posizioni politiche che, indipendentemente da una retorica antisistema, rimanda sul piano economico alle politiche neoliberali.

Il modo in cui oppongono, nella loro narrazione, “la gente” (esclusivamente i cittadini italiani) alla “casta politica”, la demagogia “sociale” mediante la quale promettono di proteggere i più precari e poveri (purché italiani, ovviamente) e le loro critiche a un’Europa che sarebbe il principale o il solo responsabile dell’applicazione “dell’austerità” non li rende forze “popolari” o “anti-sistema”. In questo contesto, le polemiche dichiarazioni del presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, il quale ha affermato che “gli italiani devono lavorare di più, essere meno corrotti e smettere di incolpare l’Unione europea per tutti i problemi dell’Italia”, non hanno fatto più che infiammare il malcontento della popolazione contro l’UE, strumentalizzato dall’estrema destra per aumentare la sua influenza.

Guà durante la campagna elettorale sono emerse incoerenze e contraddizioni tra i discorsi più euroscettici – permeati dall’idea di “Italexit” – e le garanzie date nelle ultime settimane all’UE, con il rifiuto di un possibile referendum sull’UE e l’euro che avevano difeso in un altro momento. Nondimeno, né la Lega, né tanto meno il M5S, erano, per i settori più concentrati della borghesia, sufficientemente affidabili per consegnare loro il governo del paese senza imporre limiti. Da qui il colpo di mano istituzionale del presidente Mattarella: sia per porre un limite alle incoerenze della Lega e M5S a livello del loro progetto europeo, sia per mostrare dove sono i poteri forti a livello di regime, indipendentemente da chi ha vinto le elezioni.

 

Mattarella “richiama all’ordine” M5S e Lega

Coperto dall’articolo 92 della Costituzione italiana e nel contesto di una forte instabilità del mercato (caduta della Borsa di Milano, aumento dello “spread” BTP-Bund), il 27 maggio Mattarella ha posto il veto, per le sue posizioni euroscettiche, alla nomina di Paolo Savona al Ministero dell’Economia nel primo governo di Giuseppe Conte; una nomina provenuta da Salvini e Di Maio il 23 maggio. In alternativa, Mattarella ha proposto un governo tecnico (incaricato di votare un bilancio e assicurare una certa continuità politica) presieduto da Carlo Cottarelli, ex funzionario del FMI tra il 1988 e il 2013. Il suo semplice soprannome, “Mister Forbici” (“Mister Tijeras”), testimonia le sue posizioni assolutamente rigide in termini di ortodossia finanziaria e di bilancio.

La decisione presa da Mattarella, un presidente eletto da 609 deputati, senatori e consiglieri regionali, in sostituzione dell’opzione proposta dai due partiti che hanno vinto le elezioni di marzo con 16 milioni di voti, era insostenibile, così come la convocazione di elezioni anticipate nel caso in cui Cottarelli non potesse comporre nulla più che un governo tecnico senza un sostegno parlamentare maggioritario. Tuttavia, il colpo di mano di Mattarella ha permesso a Lega e M5S di moderare il loro discorso e le loro richieste in relazione all’UE. Alla fine, Giuseppe Conte, marionetta di Salvini e Di Maio, entrambi nominati vicepresidenti, ha riottenuto l’incarico della presidenza del Consiglio, ma con Giovanni Tria (indipendente, professore di economia a Roma, ex membro del Consiglio di Amministrazione della Organizzazione internazionale del lavoro), come ministro dell’Economia, e Enzo Moavero Milanesi come ministro degli affari esteri, entrambi pro-UE.

 

Il problema della retorica euroscettica di Di Maio e Salvini

Per i settori a capitale più concentrato, il problema non è l’estremismo xenofobo di Salvini, le sue posizioni a favore della “sicurezza” o l’unione di oscurantismo e “democrazia” 2.0 del M5S, ma le loro posizioni riguardo l’euro e le riforme del mercato del lavoro introdotte finora in Italia. “Quando arriva l’ora di governare, o Salvini e Di Maio capiscono che non possono rinunciare al contesto europeo, che risulta assolutamente centrale, o le imprese lasceranno il paese”, ha dichiarato il portavoce della Confindustria veneta , baluardo del voto leghista. “Esistono alcuni punti che osserviamo con particolare attenzione. Se qualuno pensa di mettere in dubbio le riforme del lavoro e tornare al passato, allota le imprese lasceranno il paese e andranno dove è permesso lavorare”.

Da questo punto di vista, tanto Salvini come Di Maio hanno già moderato il tono duramente critico che erano soliti impiegare quando menzionavano l’UE. È molto probabile che il nocciolo della politica economica che il nuovo governo promuoverà sarà centrato sulla continuità con il governo precedente guidato da Paolo Gentiloni (PD). Sicuramente ciò garantirà un nuovo bilancio all’insegna dell’austerità per l’anno 2019 e una riforma fiscale pro-imprese (“Flat tax”), lasciando sullo sfondo promesse di riforma della politica agricola (Lega) e l’attuazione del “reddito di cittadinanza” (limitato agli italiani, in ogni caso), con la quale il M5S intende rispondere alla crisi sociale profonda che conosce il sud del paese. Tuttavia, persistono forti tensioni all’interno di ciascuno dei partiti che compongono l’attuale governo. Questo è il caso, nel M5S, tra gli ortodossi e la parte neo-pragmatica e filo-governativa di cui fa parte Di Maio, ma anche tra coloro che sono riluttanti di fronte alla permanenza al governo con una forza apertamente di estrema destra e storicamente anti-Mezzogiorno. Dunque, Di Maio continua a promettere una riforma del “Jobs Act”, la legge sulla riforma del lavoro, votata sotto il governo Renzi nel 2014 e che ha aumentato la precarietà. Salvini, nel frattempo, non può mettere da parte la sua retorica nazionalista e sciovinista, anche se non è disposto a rompere con Bruxelles né tanto meno con Roma, come ricordano i grandi padroni delle regioni settentrionali, le più industrializzate del paese.

Non è da scartare l’ipotesi che il governo Lega-M5S vada incontro, da destra, alla stessa sorte del governo di Alexis Tsipras in Grecia: che passi da posizioni antiUE alla ratifica di tutte le opzioni concordate in passato dai governi precedenti con Bruxelles. In ogni caso, tanto la Lega come il M5S hanno già rinunciato a qualsiasi prospettiva esplicita di “Italexit” o di rinegoziazione dei trattati europei che avevano predicato prima di andare al governo.

 

La tentazione dell’“Italexit”: anche se scartata per ora, rimane uno spettro

Il debito pubblico italiano equivale al 131% del PIL, una vera bomba a orologeria per l’economia italiana, che può scatenare ripercussioni in tutta la zona euro. È questo il contesto del nervosismo europeo verso i cambiamenti politici in Italia.

La proposta di nominare in un primo momento Savona ministro dell’economia, cosa sfociata nella crisi di fine maggio, non ha a che vedere solo con l’intransigenza di Salvini nel suo braccio di ferro con Mattarella, né soltanto con la retorica euroscettica della Lega e del M5S. Savona, infatti, ha fatto carriera come dirigente di Confindustria, così come ai vertici delle principali istituzioni bancarie del paese. Negli anni ’90 e 2000 partecipò ai governi di Carlo Azeglio Ciampi e di Berlusconi, come ministro o consigliere.

Tutt’altro che una figura minore, rappresenta la tentazione reale di settori padronali, e non solo dei suoi segmenti più subalterni e dipendenti dal mercato interno, di rinegoziare o addirittura rompere con l’unione monetaria che ha compromesso parte della borghesia italiana nel passaggio dalla CEE alla UE e con la costituzione dell’eurozona.

Durante interi decenni, nel periodo del Serpente Monetario Europeo (1972-1979) e del Sistema Monetario Europeo (dal 1979 fino a Maastricht e dopo l’entrata in vigore dell’euro) la borghesia italiana è ricorsa a svalutazioni competitive per fronteggiare alleati e rivali europei. In alcuni settori, l’idea è consolidata sul fatto che un’uscita svalutatoria della crisi, oggi vietata dal sistema monetario comune, potrebbe essere un’opzione.

Attualmente, essa non è una posizione egemonica, né almeno maggioritaria, tra le élite italiane. Tuttavia, il “caso Savona” esprime il grado della crisi che il progetto europeo attraversa per un settore della borghesia imperialista del continente e d’Italia in particolare.

La nomina di Savona, nonostante tutto, come ministro per gli Affari europei del governo Conte indica che la questione del rapporto tra l’Italia e l’Unione europea non è più un tabù per alcuni settori dell’establishment italiano. Sebbene una “soluzione” estrema di una rottura o di una rinegoziazione potrebbe trovare sempre più il riscontro di un settore della borghesia – specie nello scenario di scomposizione del quadro internazionale multilaterale simboleggiato dall’elezione di Donald Trump – per la classe operaia e i settori popolari, una svalutazione rappresenterebbe un duro colpo a breve termine, in termini di potere d’acquisto, a prescindere dalle “centinaia di migliaia di posti di lavoro” che alcuni promettono di creare. Potrebbe rappresentare facilmente una strada senza uscita. Eppure, una tale posizione trova spazio in correnti di sinistra che insistono sulla necessità di ripristinare la “sovranità”, di riavere “le chiavi di casa”, come affermato apertamente da Savona. In un certo senso, questo è il vero “padre” delle posizioni “di rottura” di sinistra che strutturano i loro progetti politici in varie “tappe” delle quali la prima è la rottura con l’UE.

 

Un governo chiuso tra il nazionalismo e i vincoli della UE

All’interno della coalizione tra Lega e M5S, è Salvini a capitalizzare politicamente. La Lega ottiene 7 dei 18 ministeri e segretariati del nuovo governo, mentre il M5S ne occupa solo 9, nonostante il peso elettorale più importante. Salvini sta facendo la voce grossa tra i membri del governo, in particolare relativamente alle posizioni più reazionarie su migrazione e rifugiati, diritti civili, sicurezza e questioni di polizia o sull’Unione Europea e sulla relazione con Berlino e Parigi. Questa assimmetria tra il suo peso elettorale e il suo peso governativo, oltre la carica simbolica anti-Sud che porta ancora con sé la Lega, potrà generare tensioni e crisi nel nuovo governo. Per ora, senza dubbio, i mercati e, in particolare, la Borsa di Milano, sono tornati a una situazione più normale.

Con il proprio esplicito appoggio a Conte, Macron ha voluto indicare che Roma potrà rivelarsi un alleato per le velleità del nuovo presidente francese per rinegoziare con la Merkel rinnovati accordi di governabilità dell’eurozona. È probabile, tuttavia, che il governo italiano si trasformi in un peso morto, più che in un interlocutore. Ad ogni modo, dopo un momento di forte crisi e incertezza, specie con la caduta di Rajoy  e il nuovo governo del PSOE di Pedro Sánchez (un governo nato debole e che dovrà negoziare ogni legge con un parlamento frammentato), mentre si stanno negoziando i termini della Brexit, e gli USA aumentano la propria aggressività nella politica commerciale, né la Merkel né Macron potranno permettersi il lusso di un altra durevole crisi di governo a livello europeo, nonostante né Salvini né Di Maio fossero loro interlocutori privilegiati.

 

La risposta del PD e delle sinistre

Tra i settori organizzati del movimento operaio e popolare di centrosinistra e sinistra riformista in Italia dominano due posizioni, entrambe sbagliate. Da una parte, la maggioranza della direzione della CGIL, il principale sindacato italiano, che mantiene vincoli importanti con il Partito Democratico e con la sua recente scissione “socialdemocratica” Liberi e Uguali (LeU), si è posta in difesa del presidente Mattarella e del posizionamento europeista maggioritario della borghesia italiana, in una sorta di “fronte repubblicano” [come quello francese contro candidati del Fronte Nazionale di Le Pen ai ballottaggi delle elezioni presidenziali, ndr] contro l’ascesa dell’estrema destra.

Un altro settore, di matrice riformista o apertamente stalinista, tendenzialmente maggioritario in Potere al Popolo o che gravita attorno alla corrente DeMa, vicina alle posizioni del sindaco di Napoli Luigi De Magistris, insiste sulla necessità di rinegoziare i trattati europei o di rompere con l’Unione Europea e la NATO. Secondo questa posizione “sovranista di sinistra”, si tratterebbe di una tappa necessaria, separata dalla lotta complessiva contro il capitale imperialista italiano, per recuperare la sovranità nazionale. Sarebbe una fase ineludibile per poter sviluppare una politica che rompa con la logica di austerità applicata fino a oggi. Questa posizione è una versione italiana, anche più sovranista, di quella difesa da Jean-Luc Mélenchon e la France Insoumise in Francia o, al tempo, da Syriza e Yanis Varufakis, attuale sponsor di DeMa.

Per i paesi imperialisti che compongono la UE e condividono l’Euro, essendo l’Italia il terzo paese più impostante della zona, Bruxelles e la BCE rappresentano istanze di coordinamento degli interessi più concentrati delle borghesie centrali. Nei paesi imperialisti, tutta l’opposizione operaia e popolare alla UE deve, innanzitutto, prepararsi a combattere la propria borghesia nazionale, che storicamente e in modo indipendente ai dettati di Bruxelles, basa i suoi privilegi sull’attacco all’arma bianca ai lavoratori e ai popoli oppressi, tanto nel “cortile di casa” semicoloniale tradizionale dei quei paesi imperialisti, come nel seno dell’UE, tra i paesi dell’Europa centrale e orientale.

Allo stesso modo, partendo dall’internazionalismo più elementare, il movimento operaio non può appoggiare l’Unione Europea del capitale e la Fortezza-Europa come supposta “alternativa democratica” di fronte all’ascesa delle forze reazionarie di destra che, nel caso italiano, sono andate al potere.

La gran maggioranza dei settori organizzati del movimento operaio e giovanile in Italia, purtroppo, si trova intrappolata tra due opzioni sbagliate; di fronte alla UE reazionaria e all’illusione tappista di una rottura sovranista “verso sinistra” con Bruxelles (un “piano B alla Melenchon” o “alla Varoufakis”), i marxisti rivoluzionario non possono che difendere la prospettiva internazionalista: contro l’Europa del capitale e il ripiegamento sciovinista, in difesa della prospettiva della lotta per gli Stati Uniti Socialisti d’Europa.

 

La difesa incondizionata degli immigrati, della classe operaia nativa e straniera, e la lotta contro il razzismo di Stato

Il fatto che il consolidamento del potere della Lega non sia un sinonimo di ascesa del fascismo non significa in alcun modo che il discorso razzista e xenofobo, e le misure anti-immigrati e discriminatorie che Salvini pretende di applicarsi non rappresenta un serio problema per la classe operaia e la gioventù in Italia. Sullo sfondo della pressione migratoria attuale, in larga misura legata al degrado del quadro geopolitico internazionale (nel Mediterraneo, in Medio Oriente e in Africa in particolare) dove gli imperialisti hanno una responsabilità schiacciante, i migranti vengono stigmatizzati come capro espiatorio per la crisi in Italia. Allo stesso tempo, la manodopera straniera è utilizzata, in particolare dai datori di lavoro del Nord del paese, per ridurre i costi di produzione e aumentare i propri margini di competitività. In alcuni settori, come la logistica, la classe operaia  di origine straniera e migrante rappresenta la porzione più combattiva. Negli ultimi cinque anni, attraverso lotte molto dure e scioperi, anche se limitata settorialmente, è arrivata a ottenere vittorie importanti in termini di applicazione o miglioramento dei contratti collettivi.

In questo scenario, la questione dei migranti è strumentalizzata tanto per dividere le file operaie come per tentare di consolidare una base sociale reazionario del regime tra gli stessi settori popolari. L’assassinio di Soumaila Sacko, giovane bracciante del Mali e sindacalista combattivo, avvenuto in Calabria il 2 giugno, sullo sfondo della campagna xenofoba e razzista portata avanti dal governo e da Salvini, rappresenta un segnale di allarme in questo senso: indica la sfida internazionalista e antirazzista che devono raccogliere le organizzazioni operaie, giovanili e popolari per rompere con le politiche reazionarie della Lega e del M5S, dopo un trentennio di politiche razziste e antimigranti condotte dal berlusconismo e, soprattutto, dal PD al governo.

 

La necessità di una prospettiva anticapitalista e della classe operaia

Nelle ultime elezioni, la grande maggioranza della classe lavoratrice, dei settori popolari e della gioventù ha finito coll’astenersi o col votare il populismo di destra o l’estrema destra. Si tratta del frutto di anni di disillusioni rispetto ai partiti tradizionali, e di anni di tradimenti e di complicità tra la burocrazia sindacale con le politiche di austerità promosse dal PD.

Sfortunatamente, tra i settori che compongono i reparti più combattivi del movimento operaio organizzato, come per esempio nel sindacalismo di base, che alle ultime elezioni non ha appoggiato le formazioni riformiste Liberi e Uguali o Potere al Popolo, non è emersa un’alternativa politica, della classe lavoratrice e della gioventù, nativa e immigrata, di fronte alle false opzioni politiche borghesi europeiste o euroscettiche, e per preparare la lotta contro il nuovo governo e il padronato.

Di fronte alle politiche reazionarie liberticide e razziste che il nuovo governo proverà ad applicare, di fronte alle promesse di misure “sociali” demagogiche che il M5S sbandiera e che non tarderà a trasformare in nuovi attacchi alla classe lavoratrice, di fronte a una crisi economica profonda e per la dimensione della crisi organica che attraversa l’establishment, non escludiamo che, nel medio termine, si diano le condizioni per nuove lotte, operaie-sindacali o in difesa dei diritti democratici.

Di fronte a uno scenario del genere, i rivoluzionari che intervengono nel sindacalismo di base, nella sinistra sindacale e nei movimenti studenteschi, popolari, rivendicheranno coerentemente nella propria lotta quotidiana un’alternativa politica anticapitalista e rivoluzionaria: l’unica forma nella quale le lotte future trionferanno, o serviranno per preparare nuove battaglie, senza essere lo spazio a partire dal quale tentare di ricostruire un riformismo impotente, ultima ruota del carro del centrosinistra borghese come lo è stata Rifondazione Comunista. Nel caso della Spagna, stiamo già vedendo l’evoluzione del neoriformismo di Podemos, che ha finito con l’essere la stampella del PSOE per andare al governo, compromettendosi appoggiando “senza condizioni” il governo di un partito social-liberale che ha applicato le politiche neoliberali e antioperaie durante i governi di Felipe González e José Luis Rodríguez Zapatero.

Per rafforzare la lotta e costruire un progetto che ponga al centro l’egemonia della classe operaia, in opposizione tanto al nazionalismo reazionario come alla sinistra riformista europeista o alle sue ale sovraniste, un primo passo importante sarebbe fare dei passi verso la formazione di un fronte anticapitalista che mobiliti e coordini l’avanguardia del movimento operaio, dei giovani, delle donne e degli immigrati in lotta: per opporre l’internazionalismo operaio tanto al feticismo della difesa della Costituzione italiana, come ai “piani B” per la gestione del capitalismo italiano; ponendo così, finalmente, la questione di quale classe sociale dovrebbe avere il potere per gestire un’uscita dalla crisi che sia a favore dei lavoratori e delle masse popolari, e per opporsi al razzismo e alla xenofobia della Lega e del M5S.

 

FIR – Frazione Internazionalista Rivoluzionaria

FT-QI – Frazione Trotskista-Quarta Internazionale

La FIR è un'organizzazione marxista rivoluzionaria, nata nel 2017, sezione simpatizzante italiana della Frazione Trotskista - Quarta Internazionale (FT-QI). Anima La Voce delle Lotte.