Lo scorso 12 dicembre il Parlamento ungherese ha approvato una legge che regala agli imprenditori 150 ore in più annuali di sfruttamento mediante straordinari (il monte ore passa da 250 a 400). Come se non bastasse, la stessa legge, subito ribattezzata ”legge schiavitù”, prevede che il pagamento del lavoro extra possa avvenire entro 3 anni (il precedente termine era di un anno). Questo potrebbe risultare in un’intera giornata settimanale extra per i lavoratori ungheresi. 

La giustificazione di Orban per questa misura è la carenza di forza lavoro dovuta all’emigrazione di massa degli ultimi anni (da notare la contraddizione tra la carenza di forza lavoro vista come un problema dai padroni e da Orban e il razzismo e le campagne anti-migranti di Orban stesso). Il governo impugna, inoltre, la minaccia che senza la “legge schiavitù” i colossi dell’auto tedeschi che dominano l’economia Ungherese possano lasciare il paese (alla faccia del sovranismo…).

Domenica scorsa 15.000 manifestanti hanno attraversato le strade di una Budapest imbiancata e alcuni sindacati stanno già discutendo della possibilità di indire uno sciopero generale il prossimo gennaio. Come molti hanno già osservato, la risposta che si sta polarizzando contro questa misura criminale è molto probabilmente la più grande minaccia contro il governo del primo ministro Viktor Orban (insediatosi nel 2010).

Lo scrittore G.M. Tamàs, intervistato da Jacobin Magazine, dichiara che ”ci sono blocchi stradali e manifestazioni dappertutto, iniziative online, pamphlets, canzoni, videoclip, gifts, memes. C’è un’atmosfera gioiosa di rivolta ed espressione di massa di disprezzo per il regime in un Paese solitamente moroso e apatico”.

Aggiunge che queste proteste com’è facilmente prevedibile, non nascono dal nulla ma sono invece la più recente manifestazione di un discontento più diffuso nell’Europa dell’Est, influenzato a sua volta da un’instabilità e da una crisi dell’Europa capitalistica più in generale (si pensi alla Brexit e ai Gilet Gialli in Francia).

La protesta che sta montando è però ideologicamente nebbiosa: abbraccia dalla ”destra moderata” di Jobbik alla ”sinistra liberale”, e unisce studenti e lavoratori. Estremamente interessante, detto questo, come dichiara sempre lo scrittore, come i salariati non siano stati mobilitati dai sindacati, bensì abbiano essi stessi mobilitato i sindacati ”formando commissioni e andando in assemblee nonostante le enormi restrizioni sul diritto di sciopero)”. La classe operaia ungherese non possiede però un partito in grado di concentrare in senso rivoluzionario lo sforzo auto-organizzativo dal basso sul quale conta la protesta. Per lo scrittore, comunque, ”esiste una dinamica di sinistra nella protesta che non osa ancora dichiararsi”, anche se, appunto, non c’è una forza politica egemone in grado di inserire il ritiro della ”legge schiavitù” e di quella sui nuovi tribunali amministrativi (che è stata approvata lo stesso giorno e accentrerebbe ulteriormente il potere di Orban) in una prospettiva politica di rovesciamento del capitalismo. La sua situazione è pertanto piuttosto imprevedibile e totalmente in divenire. A complicare il quadro il malessere della polizia e di alcuni apparati dello Stato recentemente investiti da ”purghe” dove professionisti qualificati sono stati sostituiti da fedeli fascisti di lunga data (a dispetto di questo malessere, la polizia ungherese rimane un corpo fortemente obbediente e disciplinato e Tamàs sembra dubitare possa unirsi alla protesta). 

Il dato importante però è che secondo alcuni sondaggi ben l’83% della popolazione ungherese è contraria alla ”legge schiavitù e Orban, uno dei più furbi, scaltri, reazionari uomini d’Europa, che dall’inizio della protesta ha temporeggiato non pronunciando una sola parola, a breve dovrà trovare un escamotage o potrebbe rischiare di vacillare.

Orban non è un’eccezione tra i ”sovranisti” che hanno giurato di cacciare i migranti in nome di più garanzie per i lavoratori nativi ma hanno poi applicato politiche analoghe a quelle dei governi “neoliberisti”. Il nuovo governo austriaco, ad esempio, ha varato una legge che, in caso di necessità, “consente alle imprese di rispondere con maggiore prontezza alla domanda del mercato”, le stesse potranno chiedere ai loro dipendenti di lavorare fino a 12 ore al giorno e a 60 ore la settimana (i massimi precedenti erano di 10 e di 50 ore rispettivamente). Le ore in più non saranno pagate come ore di straordinario, saranno compensate in corso d’anno.

La Russia di Putin, modello indiscusso di Salvini che dice di voler abolire la Fornero, ha tentato di innalzare di colpo l’età della pensione di 5 anni per gli uomini (da 60 a 65 anni, in un paese in cui la speranza di vita media per gli uomini è di 67 anni, per gli operai di alcuni anni in meno), di 8 anni per le donne (da 55 a 63) – un allungamento dell’orario di lavoro sull’arco della vita che neppure la Fornero…, e che in molti casi significherà l’azzeramento del diritto alla pensione per morte sopravvenuta prima della soglia. La vivacità delle proteste nelle piazze, soprattutto da parte delle donne, ha indotto tuttavia Putin a un mezzo passo indietro: l’età della pensione per le donne è salita “solo” di 5 anni; resta immutata, invece, per “ragioni finanziarie” (sovrane), la soglia dei 65 per gli uomini. 

Sul piano economico le cose che non cambiano volgendo lo sguardo ai governi ”europeisti”: è un po’ come la differenza tra Salvini e il PD. Come scrivono i compagni del Cuneo Rosso: ”prendiamo il governo dell’alto funzionario della banca Rotschild, Macron. Costui ha portato a compimento tra il 2015 e il 2017 l’attacco alle 35 ore iniziato con la legge Fillon nel gennaio 2003: i suoi provvedimenti hanno fissato a 12 ore la durata dell’orario giornaliero legale, a 60 ore quella dell’orario settimanale, allargato l’obbligo del lavoro alla domenica abbattendo la maggiorazione salariale prevista, parificato il lavoro notturno al lavoro serale. E la Medef (la Confindustria francese), che gli dà disposizioni, pretende di andare oltre… “se i lavoratori francesi vogliono avere salari più alti, devono lavorare di più”. Punto. 

Del resto da decenni l’Unione europea piccona con metodo ogni regolamentazione che limiti la famigerata “flessibilità”. Anche, e anzitutto, in materia di orari di lavoro. Poco importa se si mette a rischio la stessa incolumità dei lavoratori (e dei cittadini): la Commissione UE, per esempio, ha imposto nel 2013 che per i piloti di aerei siano normali 11 ore di volo notturno, 14 ore consecutive di servizio, 22 ore di veglia prima di compiere un atterraggio: c’è da stupirsi se il 50% di loro si sente sovraffaticato, e molti ricorrano a droga e alcool per resistere? 

Ancora una volta la realtà dei fatti dice che sovranismo e europeismo (o globalismo) si muovono nella stessa direzione di fondo: la massima svalorizzazione della forza-lavoro, la massima intensificazione dello sfruttamento del lavoro anche attraverso la liquidazione dell’organizzazione operaia e la massima limitazione possibile del diritto di sciopero. Dunque né sovranismo (fosse pure ammantato di finti panni “rossi”), né europeismo, due varianti, due finte alternative della sempre più spietata dittatura del capitale, nazionale, europeo, globale”.

 

Matteo Iammarrone

Nato a Torremaggiore, in Puglia, nel 1995, si è laureato in filosofia all'Università di Bologna. Dopo un master all'Università di Gothenburg (in Svezia), ha ottenuto un dottorato nella stessa città dove tuttora vive, fa ricerca e scrive come corrispondente de La Voce delle lotte.