All’inizio del 2018, alcune intellettuali di New York lanciarono un appello per la costruzione “femminismo per il 99%”. Attorno a quell’idea, nata nel movimento Occupy Wall Street del 2011, ha preso forma il manifesto firmato da Nancy Fraser, Cinzia Arruzza e liberal apparso lo scorso 8 marzo. Proponiamo, con questo articolo delle compagne argentine Celeste Murillo e Andrea D’Atri, alcune riflessioni sulla nuova ondata femminista e la prospettiva anticapitalista che propongono le autrici del Manifesto.[1]


Il luogo di nascita del Manifesto di un femminismo per il 99% [da qui in avanti, il Manifesto] [2] non è casuale: gli Stati Uniti, nel 2017, furono uno degli epicentri del rilancio del femminismo, con la Women’s March [Marcia delle donne] che riunì milioni di donne per ripudiare il presidente Trump nel primo giorno del suo mandato [3]. Non è casuale nemmeno che sia emerso proprio nel momento in cui si moltiplicano i dibattiti sulle prospettive e sulle strategie nel femminismo perché, come segnalano le sue autrici, il movimento si trova ad un “bivio”.

La sua apparizione si inquadra nella crescente messa in discussione dell’egemonia del femminismo liberale che, per decenni, ha monopolizzato il discorso dell’uguaglianza di genere, senza porre mai in discussione lo sfruttamento del lavoro salariato né le molteplici oppressioni che attraversano l’esistenza della maggior parte delle donne.

Nelle pagine del Manifesto vengono riportati gli aspetti che caratterizzano questa epoca segnata dalla rivitalizzazione del femminismo e del movimento delle donne le cui proteste globali funzionano, a loro volta, come canale d’espressione di un crescente malessere sociale che si vive nelle società capitaliste.

Dal nostro punto di vista, la radice di questo malessere -particolarmente fra le donne- si trova nella contraddizione che esiste tra i relativi gradi di uguaglianza di fronte alla legge raggiunti da alcuni settori della società e le aspirazioni che a sua volta questo genera in masse più ampie e, dall’altro lato, la persistente disuguaglianza nella vita quotidiana che si fa sempre più profonda e si combina con nuove forme di “illegalità” a cui una moltitudine viene condannata. Qualcosa di particolarmente irritante, nelle grandi metropoli, per la generazione cresciuta con l’ampliamento dei diritti e politiche tendenti a conseguire, apparentemente, l’uguaglianza di genere e il rispetto della diversità.

Si tratta di una contraddizione già presente in forma embrionale durante il neoliberalismo degli ultimi decenni e che, con la nuova crisi economica che si è aperta nel 2008 – che non è arrivata ad essere tanto acuta come il crack del ’29, ma va avanti da più di un decennio – ha permesso lo sviluppo di elementi di crisi sociale, ed anche di crescente illegittimità dei regimi politici. Questa situazione ha messo in moto la nuova ondata femminista esprimendo un malessere che va oltre ciò che rivelano le rivendicazioni congiunturali.

 

Antiliberali, lo siamo (quasi) tutti; ma chi è anticapitalista?

Questa crisi organica ha messo in discussione l’egemonia della narrazione neoliberale, mettendo a nudo il fatto che una minoranza vive nella ricchezza più oscena, a spese di milioni e milioni di esseri umani, condannandoli ad una miseria sempre crescente. Nel 2011, il 15M spagnolo con le sue parole d’ordine: “Non siamo merci nelle mani di politici e banchieri” e poi il movimento di Occupy Wall Street che eivendicava: “Siamo il 99%, voi l’1%”, sono state le prime manifestazioni politiche di una generazione che si trovava ad affrontare il fatto che sarebbe vissuta peggio della generazione dei suoi genitori.

A partire dal 2015 irruppero le mobilitazioni di massa delle donne, nelle quali una minoranza – sempre più attiva – comincia a riconoscere che la disuguaglianza di genere non può essere interpretata scindendola dalla disuguaglianza globale generata dal capitalismo. Questa idea va riscuotendo una certa forza, anche se priva di una definizione univoca e unitaria. Per lo più, questi femminismi che si definiscono “anticapitalisti”, indicano appena quali sono le peggiori conseguenze delle politiche neoliberali, ma non si propongono l’obiettivo della fine di questo sistema. Ciò lascia sempre più allo scoperto l’impotenza del femminismo liberale, l’incapacità di dar risposta ai problemi e alle richieste della maggioranza e, persino, la sua complicità nella legittimazione all’occupazione di ruoli di potere da parte delle donne nell’ambito delle democrazie capitaliste, gestendo esse stesse lo sfruttamento [4].

Per questo, riferendosi a tutto ciò, il Manifesto esprime l’idea che “Oggi possiamo pensare ad un femminismo anticapitalista, in parte, perché la credibilità delle elites politiche collassa in tutto il mondo” [5]. E propone di sconfiggere da sinistra quel femminismo incarnato da Hillary Clinton: “Nel vuoto prodotto dal declino del liberalismo, abbiamo l’opportunità di costruire un altro femminismo…”[6] [Il grassetto è nostro, più avanti torneremo su questa parola]. Si pianifica “la costruzione del cammino da percorrere per arrivare ad una società giusta” e ” il perché il nostro movimento debba convertirsi in un femminismo per il 99%” [7].

 

Accordi, dissidenze e non-detti

Il Manifesto continua, nei capitoli successivi ordinati per tesi, proponendo una condivisibile definizione sulla crisi capitalista; sulle radici della violenza di genere e contro le soluzioni punitiviste; sulla normalizzazione e regolazione della sessualità sotto il capitalismo e la necessità di liberarla. Condividiamo anche la sua denuncia della violenza razzista e coloniale che si ritrova nel capitalismo sin dalla sua origine e la prospettiva che quest’ultimo condurrà inevitabilmente alla distruzione del pianeta, contro la quale il Manifesto propone un femminismo antiimperialista, ecosocialista e internazionalista.

La sua diffusione a livello internazionale è significativa per chi va costruendo una corrente femminista anticapitalista, socialista e rivoluzionaria ormai da decenni, contro le posizioni egemoniche del femminismo tecnocrate liberale che ha ridefinito le lotte emancipatrici come un cammino progressivo verso l’uguaglianza giuridica, vale a dire, solo come la ricerca di un ampliamento dei diritti nella democrazia capitalista che possano facilitare l’ascesa per merito (individuale) di alcune. E anche per chi, in una posizione minoritaria, si doveva confrontare con la risposta impotente del postfemminismo che ha privilegiato la decostruzione, ovvero, la revisione dei propri privilegi, come se l’oppressione strutturale e sistemica di determinate collettività potesse essere combattuta, fondamentalmente, con un esercizio (individuale) di autocoscienza. Dà speranza il fatto che, ponendo al centro del dibattito l’oppressione delle donne come strutturale nel sistema capitalista e di conseguenza che la soluzione possa essere solo una trasformazione radicale e collettiva, il Manifesto abbia avuto una grande risonanza su scala globale.

Ma, le sue autrici, in che modo propongono di mettere in moto questa trasformazione? Per cambiare questa situazione dalla radice, nel Manifesto si sostiene che “il femminismo per il 99% ha come obiettivo unire movimenti esistenti e futuri in una insurrezione globale di ampia base” [8].

Questo è tutto, non dice molto di più a riguardo; ciò ci fa pensare che, da parte delle autrici, esiste una fiducia illimitata nel potere dei movimenti sociali. Come se non fosse necessario preparare lo scontro con lo Stato (capitalista) – che è un grande assente nel Manifesto – che non solo ha il monopolio della forza, ma possiede anche molti e vari meccanismi di cooptazione e assimilazione di quegli stessi movimenti che lo contestano.

Nondimeno: mentre qualcuno concepisce i cambiamenti sociali soltanto come risultato dell’amministrazione delle risorse dello Stato e del lavoro parlamentare, vale a dire, come riforme; altri, idealizzando l’aspetto sociale, disdegnano la lotta politica. Ma purtroppo, ogni volta che i movimenti sociali radicali e trasformatori hanno disdegnato la lotta nell’arena politica, hanno finito per lasciare che i settori reazionari e riformisti monopolizzassero il suo esercizio.

Quali sono i compiti preparatori del femminismo per il 99% per compiere il suo obiettivo? Le autrici anticipano una risposta nella Tesi 11: “Dobbiamo allearci, sopratutto, con le correnti anticapitaliste della sinistra di tutti i movimenti che come noi difendono il 99%. Questo cammino ci pone subito di fronte alle due opzioni politiche principali che offre il capitalismo in questo momento. Rifiutiamo non solo il populismo reazionario, ma anche il neoliberalismo progressista” [9] [il grassetto è nostro].

A differenza delle autrici, non riteniamo che in politica esistano vuoti, come scrivono nelle prime pagine. La realtà mostra che, alla crisi dell’egemonia neoliberale non si presenta unicamente l’alternativa del populismo reazionario, ma anche altre opzioni politiche che allo stesso modo sostengono le democrazie capitaliste e che, curiosamente, non sono menzionate nel Manifesto. Ci stiamo riferendo ai populismi di sinistra o neoriformismi come quello di Syriza in Grecia che, una volta al potere, ha applicato i piani di risanamento della troika dell’ Unione Europea contro il popolo greco, o quello di Podemos, in Spagna, che è passato dall’essere la speranza de “los indignados” al convertirsi in un supporto della monarchia parlamentare spagnola, supplicando il social-imperialista PSOE di formare un governo di coalizione.

Non sono esempi isolati: di fronte al populismo di destra trumpista e al riarmo del neoliberalismo “progressista”, si staglia una terza opzione che, con le sue differenze, quasi ovunque, si presenta come il “male minore” o populismo di sinistra.

Le autrici del Manifesto si domandano nella Tesi 14: <<Riusciranno coloro i quali accumulano profitto a convertire le contraddizioni sociali del capitalismo in nuove opportunità per accumulare ricchezza privata? Faranno propri aspetti importanti della ribellione femminista, incluso quando riorganizzano la gerarchia di genere? O sarà, finalmente, il sollevamento di massa contro il capitale, “l’atto attraverso cui l’umanità che viaggia su un treno [fuori controllo] tirerà il freno d’emergenza? (W. Benjamin)”>> [10].

Le risposte non possono essere anticipate, perché niente di ciò avverrà per il semplice sviluppo degli avvenimenti, ma piuttosto per la lotta di forze vive. Si tratta della lotta dei movimenti, della lotta di classe; ma anche della lotta politica che metteremo in campo smascherando coloro i quali si presentano come alternativa del male minore e che rappresentano il volto più affidabile delle democrazie capitaliste di fronte alla delegittimazione delle sue varianti tradizionali. Per questo, è un compito urgente avvertire che i nostri nemici si preparano ad “assumere linee importanti della ribellione femminista”, per evitare che si tratti veramente di una ribellione e, tanto meno, di una “rivolta di massa contro il capitale”.

Sebbene il Manifesto ometta una presa di posizione esplicita su questa linea politica, in dichiarazioni pubbliche, due delle sue autrici hanno detto di aver votato – con minore o maggior gradimento -Bernie Sanders che, con un discorso redistributivo e parlando di “socialismo”, partecipa alle elezioni statunitensi come candidato del sanguinario Democratic Party. Come se si potesse cambiare il carattere dell’imperialismo nordamericano “dall’interno”, quando in realtà, quello che succede è il contrario: è già comprovato che il sistema finisce per integrare i capi più carismatici, assimilando i movimenti che trovano in loro i propri rappresentanti.

Inoltre, come ben sanno le autrici del Manifesto, questo 99% che il populismo di sinistra pretende sottrarre alla destra sul terreno elettorale, non è un “popolo” omogeneo, ma una costruzione astratta che include medi possessori di capitale e quelli storicamente espropriati dai grandi, medi e piccoli capitalisti; impiegati d’élite i cui introiti sono talmente elevati da permettergli di accumulare proprietà e avere un altissimo livello di consumo, mentre sfruttano il lavoro mal pagato di babysitter, autisti e cuoche senza contratto.

Gli interessi delle donne lavoratrici e gli interessi della piccola borghesia o delle borghesie nazionali -soci minori e, a volte, essi stessi colpiti dalla grande concentrazione di capitale finanziario, ma che vivono comunque dello sfruttamento del lavoro di altre ed altri- non possono accordarsi in un’unica prospettiva politica contro l’1%.

Perché, a differenza della matematica, in politica ci sono somme che sottraggono. E questo lo si è visto non solo nella campagna di Bernie Sanders ma anche in Argentina dove, sotto l’auspicio del Vaticano, si è unita gran parte degli oppositori progressisti, di centro e di destra in un Frente de Todos (“Fronte di Tutti”) contro il governo Macri. In entrambi i casi, come in molti altri paesi, si cerca di subordinare il movimento femminista a partiti politici piccoloborghesi o borghesi (persino imperialisti o con una forte ingerenza ecclesiastica!), che si prodigheranno per sostenere il sistema capitalista, contro e a dispetto delle donne [11].

A differenza di tutto ciò, consideriamo che, nell’immediato, il compito di un femminismo anticapitalista dovrebbe consistere nel differenziare chiaramente chi sono i nostri alleati e chi i nostri nemici.

 

Sciopero femminista: un ponte tra la politica dell’identità e la politica di classe?

La metafora del 99% trova fondamento nella progressiva atomizzazione e frammentazione delle classi sfruttate e dei settori oppressi, durante i decenni dell’offensiva neoliberale. Ciononostante, sebbene questo sia un fatto, è allo stesso tempo lecito menzionare che la restaurazione capitalista non solo ha cambiato la fisionomia della classe salariata, ma ha esteso in modo inedito il lavoro salariato a livello mondiale.

Per la prima volta nella storia del capitalismo, le donne costituiscono, approssimativamente , il 47% di questa numerosa classe, senza aver cessato di essere le principali responsabili del lavoro gratuito di riproduzione che si realizza nelle famiglie individuali. Ciò che è realmente nuovo e che si presenta come una sfida è che, attualmente, 1,3 miliardi di donne (il 54% di quelle che sono in età economicamente attiva) partecipano al mercato del lavoro [12], cambiando così completamente l’apparenza del “proletariato maschio bianco” che persiste unicamente nella visione nostalgica della burocrazia sindacale traditrice.

Ci sembra che questi cambiamenti nella composizione della classe socialmente (ma non in assoluto) maggioritaria, si esprimano nell’adozione, da parte del movimento femminista, del termine “sciopero”, un metodo di lotta tradizionale del movimento operaio. Perché, anche se la maggioranza delle organizzazioni femministe non si propone l’obiettivo dello sciopero [13], è uno strumento affinché il femminismo – come movimento politico policlassista e perlopiù urbano, dove i settori menzionati della piccola borghesia esercitano la loro egemonia politica e ideologica – intavoli un dialogo nuovo con settori sempre più ampi di lavoratrici salariate.

Si tratta anche di un’arma perché le lavoratrici salariate possano sconfiggere le direzioni sindacali burocratizzate, esigendo impegni concreti a fronte delle richieste di una parte crescente e maggioritaria della propria base, che devono mobilitarsi al di fuori dei sindacati per far sentire le proprie rivendicazioni anche perché, molte volte, nemmeno hanno diritto a partecipare in queste organizzazioni.

Riteniamo che la “reinvenzione” dello sciopero che segnala il Manifesto non debba essere utilizzata per battezzare con questo nome tutte le azioni femministe, qualsiasi esse siano, ne tanto meno per rivendicare la reimpostazione dei compiti in “questa visione ampia di quello che si intende per questione del lavoro”, dove le autrici mescolano confusamente lo sciopero del lavoro domestico, con quello del “sesso e dei sorrisi” [14]. Come scrive Lorna Finlayson, sulle limitazioni di questo sciopero, “l’abbandono del lavoro remunerato colpisce il capitalista con la perdita permanente del profitto. L’abbandono del lavoro riproduttivo non remunerato è meno diretto. Se il lavoro assume la forma della cura di altre persone vulnerabili, come bambini o anziani, l’abbandono può essere un’opzione inaccettabile. Nel caso in cui il lavoro non sia una questione di vita o morte, come lavare gli indumenti o passare l’aspirapolvere, la donna lo farà più tardi o lo farà qualcun altro al suo posto. O nessuno lo farà e la casa resterà un po’ più disordinata. Nel migliore dei casi, un marito o un fidanzato potranno provare vergogna nel fare qualcosa che di norma fa la donna. Il capitalista non ne soffre, non se ne rende nemmeno conto” [15].

Al contrario, questa nuova rivendicazione del metodo dello sciopero dovrebbe essere posta al servizio del rafforzamento delle lavoratrici salariate nello scontro con il padronato, con lo Stato e con la burocrazia sindacale quando, come descritto nel Manifesto, “lontano dal volersi concentrare solo sui salari e le ore di lavoro, puntano anche alla molestia e all’ aggressione sessuale, alle barriere della giustizia riproduttiva e alla restrizione del diritto di sciopero” [16].

Il compito attuale del femminismo anticapitalista deve essere combattere nei sindacati, sopratutto in quei settori della produzione e dei servizi altamente femminilizzati, per riuscire ad unire quello che la burocrazia divide. Ma nel Manifesto, che parla di classe lavoratrice, di sciopero, di anticapitalismo e lotta di classe, la burocrazia sindacale non è nemmeno menzionata e, pericolosamente, si attribuisce ai sindacati in generale la politica corporativa, economicista e corrosiva delle sue direzioni.

Sottrarre le organizzazioni della classe salariata dalle mani di questa burocrazia, perché siano veri organismi democratici dell’insieme della classe che non rafforzino ma che combattano le divisioni tra nativi e migranti, uomini e donne, tra chi lavora a tempo indeterminato e chi a contratto, tra chi ha diritto alla sindacalizzazione e chi no, è un compito preparatorio. Queste istituzioni della storia del movimento operaio, da questa prospettiva, permetteranno di rendere effettivo lo sciopero e ricomporre un ponte tra la classe salariata e il movimento femminista che, effettivamente, ha attraversato quasi un secolo. Ma il Manifesto, per quanto si proponga di esaltare alcuni strumenti da adoperare in questo senso, parte da una matrice dalla quale, al contrario, si sta imbastendo la negazione di una strategia che lo renda possibile.

 

Per una strategia di classe, anticapitalista, rivoluzionaria e socialista

Anche se viene spiegato più ampiamente nell’epilogo, già dalla prima tesi si avverte che le nostre autrici concepiscono questo Manifesto nella cornice concettuale della teoria della riproduzione sociale. Segnalano che l’affermazione per cui il capitalismo funziona grazie all’estrazione di plusvalore è incompleta; che esiste “una verità che il capitalismo continua ad occultare: il lavoro remunerato per l’ottenimento del profitto non potrebbe esistere senza il lavoro (usualmente) non remunerato della creazione di vita. Per questo, l’istituzione capitalista del lavoro salariato nasconde qualcosa in più del plusvalore. Nasconde la sua ragione di vita: il lavoro di riproduzione sociale che è la condizione della sua possibilità” [17].

Per le autrici, la crisi capitalista attuale è, in fondo, una crisi della riproduzione sociale, includendo in questo concetto non solo il lavoro domestico non remunerato già menzionato, ma anche quei rami del settore dei servizi che garantiscono la riproduzione sociale tramite lo sfruttamento del lavoro salariato, per la gran parte, di donne (sanità, istruzione, etc…).

Un terzo aspetto di questa crisi della riproduzione sociale e quello che riguarda la relazione che crea l’imperialismo tra le donne con salari più elevati o libere professioniste che vivono nelle metropoli e che sono state “liberate” dal lavoro domestico solo per mezzo della contrattazione precaria di donne migranti, vittime di razzismo, eccetera. Donne che, a loro volta, delegheranno ad altre – la cui posizione è ancora più vulnerabile all’interno di questa catena – il lavoro di cura della proprie famiglie: bambine o donne anziane che si occuperanno dei fratelli o dei nipoti, puliranno e cucineranno senza alcun retribuzione.

Contro ogni riduzionismo brutalmente economicista, sindacalesco, del marxismo, questa enunciazione non ci sembra degna d’essere disdegnata. In accordo con le autrici del Manifesto, riteniamo anche che la classe lavoratrice non è costituita unicamente da quelli che lavorano “nelle fabbriche o nelle miniere”. Anche chi è impegnato “nel lavoro dei campi e come domestico in un’abitazione; nelle officine, hotel e ristoranti; negli ospedali, asili nido e scuole; nel settore pubblico e nella società civile; il precariato, i disoccupati e coloro che non ricevono remunerazione in cambio del proprio lavoro” [18].

Ma se nella descrizione sociologica della classe lavoratrice non cogliamo grandi differenze, nelle definizioni politiche che da lì derivano incontriamo le controversie principali.

In primo luogo perché la loro matrice teorica le porta a sostenere che tutti questi settori che compongono la classe lavoratrice hanno “uguale importanza” [19] al fine di affrontare – con possibilità di incidere profondamente – il sistema capitalistico. E da qui deriva che “la lotta di classe include le lotte per la riproduzione sociale” [20], ponendo come esempio le lotte per l’educazione gratuita, i mezzi di sostentamento o il trasposto pubblico, tra le altre. Per di più, sostengono che queste lotte “costituiscano ora l’avanguardia di progetti capaci di cambiare la società dall’alto verso il basso” [21].

Al contrario noi riteniamo che la classe lavoratrice si renda partecipe in questi movimenti diluita nella “massa di cittadini”, a causa del freno esercitato dalle dirigenze sindacali contro la possibilità che questa forza conduca il sacrosanto malcontento di ampi settori nella direzione di una lotta anticapitalista. Per questo le burocrazie sindacali agiscono in accordo con le direzioni politiche di altre classi e settori che, partecipi nei movimenti sociali, cercano di canalizzare le loro richieste attraverso partiti politici inquadrati nel regime istituzionale, di modo da evitare qualsiasi forma di radicalizzazione.

Le autrici del Manifesto, viceversa, sostengono nella Tesi 11, sul lavoro salariato industriale che “insistere sulla sua preminenza non serve a fomentare, quanto piuttosto a debilitare, la solidarietà di classe” [22].

Ciononostante, ferire a morte il capitalismo richiede la potenza di fuoco propria di quei settori che maneggiano le principali leve della produzione e anche dei servizi che rendono possibile la realizzazione del profitto per i capitalisti. E, naturalmente, richiede anche che questi settori (dove la partecipazione delle donne è ora molto più alta di quanto non lo fosse fino a pochi decenni fa) stabiliscano un’alleanza con tutti gli altri settori di classe oppressi nel capitalismo.

Per questo, riteniamo che è un compito del femminismo che si rivendica anticapitalista combattere contro le direzioni corporativiste del movimento operaio che mantengono una separazione arbitraria e funzionale al capitalismo, tra le rivendicazioni economiche di lavoratrici e lavoratori e le rivendicazioni democratiche che riguardano masse più ampie. Ma, allo stesso modo, è necessario ingaggiare battaglia contro le direzioni (ugualmente corporativiste) dei movimenti sociali che, negando questa potenza di fuoco dei settori centrali della classe lavoratrice contro il capitale, tentano di subordinare queste lotte democratiche ad una prospettiva limitatamente riformista, sempre più utopica nel quadro della crisi.

Detto in altre parole, il femminismo anticapitalista deve essere un femminismo della e dalla classe lavoratrice, vale a dire, del soggetto sociale che il capitalismo pone strutturalmente in una posizione strategica per il proprio funzionamento (e da lì stabilisce le sue alleanze) o finirà dissolvendosi in un movimento impotente e non in grado di trascendere l’orizzonte delle riforme. È chiaro che per rendere effettivo questo potenziale oggettivamente rivoluzionario dei settori centrali della classe salariata, deve trasformarsi in disposizione effettiva e cosciente a dirigere anche settori di altre classi oppresse dal capitale.

Conseguire questo obiettivo, è ugualmente un compito preparatorio. Perché a differenza dell’ondata femminista degli anni ’70, che fu parte dei processi di radicalizzazione sociale e politica che hanno attraversato in lungo e in largo il pianeta, in questo momento predomina una prospettiva riformista. Ciò nonostante, non siamo pessimisti, dato che nuovi fenomeni di lotta di classe e fenomeni politici di carattere internazionale (come questa nuova ondata femminista) possono essere preparare l’avvento di una nuova tappa.

Se il femminismo anticapitalista aspira a non essere un mero spettatore degli avvenimenti, ma ad intervenire in modo decisivo nella realtà per trasformarla, oggi ha il compito di liberare questa battaglia politica e ideologica affinché gran parte del movimento adotti una prospettiva rivoluzionaria, preparandosi per i futuri scontri.

Un marxismo strategico – opposto teoricamente e praticamente alle correnti economiciste che lo hanno convertito in una brutale caricatura totalitaria – ha dinanzi a se la sfida non solo di elaborare significative analisi sul capitalismo patriarcale, come quella pubblicata nel Manifesto, ma anche di avventurarsi in ipotesi strategiche e costruire un’organizzazione, affinché oppressi e sfruttati, possano passare – quando le circostanze lo permettono -, dalla forzata e paziente resistenza alla conquista della vittoria.

 

Note

[1] Apprezziamo le letture critiche di compagne della nostra corrente internazionale, i cui contributi furono fondamentali per l’elaborazione di questo articolo.

[2] C. Arruzza. T. Bhattacharya y N. Fraser, Manifesto di un femminismo per il 99%, Barcellona, Herder, 2019.

[3] La crescente visibilità della violenza maschilista – femminicidi, abusi sessuali, impunità per i molestatori e colpevolizzazione delle vittime- fu il motore della maggioranza delle proteste moltitudinarie in cui le donne sono state protagoniste in altri paesi come Argentina (Non una meno, 2015), Italia (Non una di meno, 2016) o in Spagna (Yo sì te creo, 2018); ma anche di campagne in reti sociali negli Stati Uniti (#MeToo, 2017) o in Francia (#BalanceTonPorc, 2017). Allo stesso tempo, altre mobilitazioni sono sorte dall’intento di evitare la restrizione del diritto all’aborto (Polonia, 2016), per denunciare la disparità salariale (Islanda, 2018) o per esigere l’aborto legale (Argentina, 2018), mettendo in atto molteplici azioni di donne organizzate.

[4] Per una lettura sul femminismo nei decenni neoliberali si veda D’Atri, A. y Liff, L., “L’emancipazione delle donne nel tempo della crisi mondiale”, Parte I e II, in rivista Ideas de Izquierda n° 1 e 2, agosto e settembre 2013.

[5] Arruzza, Bhattacharya y Fraser, op. cit. p. 18.

[6] Ibid., p.19.

[7] Idem.

[8] Ibid., p.78.

[9] Ibid., p. 75.

[10] Ibid., pp. 37-38

[11] Menzioniamo l’esempio dell’Argentina, perché è uno dei luoghi dove più di altri si sono sviluppate le mobilitazioni delle donne negli ultimi anni (Ni una menos, Marea verde) e per questo viene citato dalle autrici del Manifesto come un esempio a cui ispirarsi.

[12] Tasso di partecipazione nella forza lavoro, donne (percentuale della popolazione femminile tra i 15-64 anni), stima su modello OIT. Tasso della forza lavoro totale, secondo i dati della Banca mondiale.

[13] Salvo che in Spagna, dove nello sciopero femminista dello scorso 8 marzo, ottennero l’appoggio di gran parte dei sindacati.

[14] Arruzza, Bhattacharya y Fraser, op. cit. p. 25.

[15] Finlayson, L., “Travelling in the Wrong Direction”, in London Review of Books, Vol. 41 N.°13, 4 luglio 2019

[16] Arruzza, Bhattacharya y Fraser, op. cit. p. 25.

[17] Ibid., p. 92.

[18] Idib., pp. 42-43.

[19] Ibid., p. 42.

[20] Ibid., p. 43.

[21] Ibid., p. 44.

[22] Ibid., p. 77.

Andrea D’Atri, Celeste Murillo

Traduzione da La Izquierda Diario

Nata nel 1967 a Buenos Aires, dove tuttora vive. Laureata in Piscologia alla UBA, specializzata in Studi sulla Donna, ha lavorato come ricercatrice, docente e nel campo della comunicazione. È dirigente del Partido de los Trabajadores Socialistas (PTS). Militante di lungo corso del movimento delle donne, nel 2003 ha fondato la corrente Pan y Rosas in Argentina, che ha una presenza anche in Cile, Brasile, Messico, Bolivia, Uruguay, Perù, Costa Rica, Venezuela, Germania, Spagna, Francia, Italia.
Ha tenuto conferenze e seminari in America Latina ed Europa.
Autrice di "Pan y Rosas", pubblicato e tradotto in più paesi e lingue. Ha curato il volume "Luchadoras. Historias de mujeres que hicieron historia" (2006), pubblicato in Argentina, Brasile, Venezuela e Spagna (2006).

Nata a Buenos Aires nel 1977. È traduttrice e studiosa di storia. È militante del Partito Socialista dei Lavoratori (PTS) e del gruppo Pan y Rosas. Come  giornalista si occupa di cultura e genere nel programma radiofonico El Círculo Rojo. È stata responsabile dell’edizione in castellano de La mujer, el Estado y la Revoluciónde Wendy Z. Goldman e ha contribuito a Luchadoras. Historias de mujeres que hicieron historia (2006, reedición 2018).