Negli ultimi anni le manifestazioni di piazza con numeri ampi, “di massa”, in Italia si sono mano a mano diradate dopo la caduta dell’ultimo governo Berlusconi. L’attenzione mediatica per il fenomeno delle “sardine”, che non è ancora definibile, per molti aspetti, un movimento “di massa”, è dunque certamente comprensibile, anche al netto degli interessi di una parte degli apparati mediatici a sovraesporre le idee politiche degli organizzatori.

In un articolo precedente si segnalava il cambio di insegne del popolo della sinistra a egemonia PD in popolo delle sardine, ed è in sostanza un quadro fedele della realtà, come testimonia lo spot di uno dei suoi esponenti, Jamal Hussein, studente universitario che ha invitato pubblicamente a votare per il candidato PD Stefano Bonaccini alle elezioni regionali del prossimo mese in Emilia-Romagna.
Oltre alle esplicite prese di posizione, la struttura stessa del movimento rivela i tratti endemici di molte componenti politiche (e non solo) riconducibili alla tradizione della sinistra italiana: portavoce scelti sulla base di criteri verticistici; piazze assoggettate al volere degli organizzatori, i quali hanno imposto unilateralmente delle regole precise; il diritto d’intervento e con esso l’opportunità di approfondire la discussione è negato.
Se si trattasse davvero di una realtà aperta, libera e democratica, come sovente rivendicano i “capi” delle sardine, non avrebbero alcun problema ad entrare nel merito delle cose accettando il confronto, fosse anche acceso. Purtroppo questi signori rifiutano in toto la dialettica bollando come provocazione qualsiasi concetto non conforme ai loro refrain e sono la riproposizione di una politica incravattata, “presentabile” in aperta antitesi con la partecipazione popolare diretta alla politica, con il protagonismo delle masse, ridotte ancora a delegare al meno peggio “alla politica e ai politici con la P maiuscola” (cioè al ceto politico di centrosinistra) la propria sorte, magari con un pezzo di cartone a forma di pesce tra le mani.
Abbiamo già potuto constatare i danni causati dalla mancanza di un franco dibattito nelle scuole, nei luoghi di lavoro e persino negli spazi sociali e sindacali, abbiamo subìto e stiamo subendo tuttora la repressione padronale e di Stato che può appoggiarsi sull’accondiscendenza del burocratismo sindacale con relativa erosione della coscienza politica degli sfruttati: non abbiamo bisogno di abbassare ulteriormente il livello, cedendo agli alfieri della passività sociale.
Da militanti politici, da comunisti quali siamo dobbiamo pretendere piena libertà d’intervento nelle piazze. così come in ogni altro spazio aggregativo allo scopo di ampliare il dibattito, rendendolo più vivo e partecipato possibile, in modo da sviluppare un piano d’azione contro quell’estrema minoranza che detiene per sé il potere economico politico e culturale.
L’odio razziale così come il sessismo e la distruzione del pianeta sono peculiarità di un sistema capitalistico marcescente, che campa sulla barbarie; pertanto, chi si sforza di rimuovere dal discorso pubblico le esigenze e le rivendicazioni concrete della stragrande maggioranza dominata, attraverso ipocrite furbate e pedanti sotterfugi, non esprime la soluzione, ma parte del problema.

Proprio per questo, il lancio del brand delle sardine non solo ripropone la parodia della contrapposizione asfittica tra berlusconiani e antiberlusconiani, dagli anni Novanta fino al Popolo Viola, che ha solo significato l’accettazione passiva delle controriforme e della macelleria sociale purché fossero ad opera del centrosinistra, ma non presenta nemmeno i presupposti politici e di metodo per l’obiettivo limitato di arginare la propaganda di Salvini e l’ascesa del centrodestra: è la passività sociale, associata alla delega della propria vita politica al centrosinistra e alla retorica piddina dell’ordine e della pace sociale mentre i capitalisti continuano a farci la guerra, che fa dormire sonni tranquilli a Salvini e alla destra.

Sanno bene che i loro discorsi e le loro politiche non sono in sé incompatibili con quelli del centrosinistra, che ugualmente difende gli interessi di una minoranza privilegiata, ma con la ripresa, il rilancio e la radicalizzazione dei movimenti dei lavoratori, delle donne, della gioventù.

Operazioni di ricostruzione di un’appartenenza politica di massa all’identità del centrosinistra “democratico e progressista” (che non è né l’uno né l’altro) possono ancora manifestarsi proprio per la debolezza della mobilitazione sociale degli sfruttati e degli oppressi, ma i movimenti di protesta e ribellione nel mondo, anche solo pensando a quelli di questo anno ormai finito, ci danno innumerevoli esempi della possibilità di manifestare e organizzare la nostra rabbia con attività, metodi, idee e programmi non basati sulla rassegnazione politica, ma sulla lotta per strappare un futuro vivibile per tutta l’umanità, non più segnato da sfruttamento e oppressione.

 

Roger Savadogo

Nato a Venezia nel 1988, vive a Brescia. Operaio, è studioso e appassionato di sottoculture giovanili, ultras e skinhead in particolare.